di Gabriele Ottaviani
La triste verità è che Elena Ionescu, una signora romena di novant’anni, nelle due settimane precedenti alla sua morte era stata ricoverata in un ospedale. La donna – costretta a letto per otto settimane, e sempre attaccata alla flebo e alle macchine – aveva finito per sviluppare un edema generalizzato, un disturbo post mortem in cui i liquidi si accumulano sottopelle. Era gonfia come l’omino della Michelin, in particolare nella parte inferiore delle gambe, sulle braccia e sulla schiena. Dalla pelle fuoriuscivano dei liquidi. E, cosa peggiore, la grande umidità causata dall’edema aveva velocizzato il processo di decomposizione. Quando la putrefazione è già iniziata e abbondano i liquidi in eccesso, è molto probabile che si verifichi il temuto fenomeno dello ‘scollamento’. Anche se il suo nome tecnico è ‘desquamazione’, nell’uso pratico si tende a utilizzare più spesso ‘scollamento’: un termine che, bisogna ammetterlo, rende bene l’idea del perché venga chiamato così. Il processo di decomposizione aveva fatto aumentare la pressione e i gas prodotti all’interno del corpo di Elena, la sua pelle aveva ceduto e lo strato superiore dell’epidermide aveva cominciato a staccarsi, come se volesse ‘abbandonare la nave’. Se questa condizione si verifica in una persona vivente, la cute alla fine riesce a ricrescere e a rigenerarsi. Ma nel caso di Elena, la situazione era questa: fino alla cremazione, la sua pelle sarebbe rimasta umida, rosea e coperta da un sottile strato di muco. Possiamo dire tranquillamente che il corpo della defunta non sarebbe stato certo come se l’era immaginato la sua irascibile figlia. Ciò nonostante, la Westwind Cremation & Burial non aveva alcun diritto di trattenerlo nella cella frigorifera. Le salme, per legge, sono una semi-proprietà. La famiglia Ionescu possedeva il corpo di Elena fino alla cremazione o alla sepoltura. E questo ci porta a un’altra comune motivazione per intraprendere un’azione legale contro un’agenzia di pompe funebri: le cause sono aumentate dopo che qualche impresario, indignato, aveva illegalmente trattenuto un cadavere a mo’ di garanzia fino a quando la famiglia del defunto non avesse saldato le spese per le esequie.
Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio, Caitlin Doughty, Carbonio. Traduzione di Olimpia Ellero. La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace. Così Henry Scott Holland: Death is nothing at all. It does not count. I have only slipped away into the next room. Nothing has happened. Everything remains exactly as it was. I am I, and you are you… E del resto è vero. La morte, in fondo, non è niente. Nulla che già non si sappia sin dall’inizio. È l’unica cosa giusta della vita. Ogni cosa che inizia finisce. E non guarda in faccia nessuno. Puoi essere ricco. Povero. Sano. Malato. Etero. Gay. Bello. Brutto. Intelligente. Stupido. Se nasci un giorno morirai. E c’è chi ti accompagna in questo viaggio. Chi si occupa di te. L’impresario delle pompe funebri. Un lavoro che non teme crisi. E che eppure però spesso è mal visto. Caitlin Doughty parla della sua iniziazione a questo mondo, del suo percorso in un settore indispensabile, della sua decisione di fondare un’azienda no-profit attentissima, anche con l’ausilio di coroner e psicologi, a stare realmente accanto a chi vive la perdita. Che non è mai elaborabile fino in fondo. Che spesso è inaccettabile. Per la quale non si è mai abbastanza pronti, nonostante tutto. E che soprattutto per il mondo è quasi uno scandalo. Perché tutti ti dicono che non c’è nulla di male a chiedere aiuto. Ma è una frottola. Se stai male tutti ti evitano. Perché la tua sofferenza li disturba. E puoi contare solo su di te. Essere deboli nel nostro mondo è una colpa. E ce n’è persino un’altra peggiore. Essere tristi. Sofferenti. Perché la vita va avanti. Deve farlo. E nel nostro mondo materiale che aborre con disgusto ogni imperfezione è bene che lo faccia in fretta. In questo libro, invece, si lascia spazio al giusto tempo d’ogni cosa. Da leggere. Perché gettare la testa nella sabbia non serve a nulla, non cambia mai la realtà delle cose. Che possono mutare solo se affrontate.