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“Gli amanti poliglotti”

di Gabriele Ottaviani

Il sangue pulsava nelle tempie e non riuscivo a liberarmi dell’intensa, folle rabbia che mi riempiva il petto. Non solo perché in casa c’era un uomo, non solo perché la donna era abbastanza felice con lui da farci sesso, ma perché la mia privazione era ancora più evidente. Vidi mani che lavoravano nell’orto. Faldoni color carne, occhi privi di gioia. Cieli grigi e vestiti larghi sopra un corpo in declino. Volevo dimenticare tutto. Gli scogli, il corpo, la veranda e il cestino dei mirtilli. Alcuni risolvono l’equazione, alcuni riescono a far tornare i conti. Altri devono accontentarsi di restare ai margini. Ma tutto preso da quella mia indignazione non ero tornato verso il sentiero, ero invece andato nella direzione opposta, verso il vialetto d’ingresso della casa. Mi fermai e mi voltai. Ecco la casa, e alle sue spalle il mare. Ora la superficie scintillava placida e lucida, come se non fosse mai stata sfiorata da altro che da leggere increspature. Un vapore bianco, magico, si sollevava dal prato davanti alla casa. Accanto a me, nella piazzola, era parcheggiata una Toyota rossa. Da lì una stretta strada sterrata scendeva verso la via principale dell’isola e, là dove si incrociavano, vidi una cassetta della posta. Mi avvicinai, e in effetti sullo sportello era fissata una targhetta…

Gli amanti poliglotti, Lina Wolff, Codice, traduzione di Andrea Berardini. Splendido sin dall’incantevole, geniale e azzeccatissima copertina, il romanzo, il cui intreccio dimostra una volta di più, qualora ve ne fosse bisogno, il potere salvifico e immaginifico della letteratura, che fa dell’esistenza, spesso più complicata e inestricabile di un paradosso di Escher, qualcosa di limpido e comprensibile, a condizione che ci si abbandoni all’accettazione delle sue insindacabili leggi, è la storia di Ellinor, una donna la cui vita, soprattutto dal punto di vista sentimentale non va affatto come vorrebbe, nonostante gli sforzi in cui si profonde incessantemente per tentare di darle almeno una parvenza di senso: online la trentaseienne conosce un uomo, un critico letterario, in possesso dell’unica copia dell’ultimo manoscritto di uno scrittore tormentato, che nel suo vagare in cerca di sé e in fuga da tutti, in primo luogo da sé, vittima di quella solitudine che però non sa abbandonare, perché in fondo vi è affezionato, giunge in Italia e seduce la nonna della rampolla di una famiglia blasonata ma decaduta, e… Intrigante, magnetico, magnifico.

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“La scienza dello storytelling”

di Gabriele Ottaviani

Il pettegolezzo serve a rivelarci cose sugli altri, a dirci chi sono davvero…

La scienza dello storytelling – Come le storie incantano il cervello, Will Storr, Codice, traduzione di Daria Restani. Siamo fatti per stare insieme, per condividere, per regalarci e regalare emozioni, per dare voce ai nostri sentimenti. Il racconto è vita, simbolo, nutrimento, aggregazione, in questi tempi in cui non possiamo assembrarci ciò che più manca sono le parole degli affetti, gli abbracci dei discorsi, la comunione, anche la diceria, il frizzo, il lazzo, lo scherzo, la celia, la facezia, la burla, la confidenza, il completarsi assieme le frasi: il focolare della nostra anima arde al suono melodioso di una storia, quella che chiedono i bambini di ogni età a chi amano e da cui sperano di essere amati per affrontare la paura del buio, quale esso sia. Non si può non restare sedotti da una bella storia, e Storr ci spiega come e perché questo fenomeno, ineluttabilmente, si verifica. Splendido.

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“Nella casa dei tuoi sogni”

di Gabriele Ottaviani

Quella notte, ti scopa mentre sei sdraiata lì in silenzio, pregando che finisca presto, pregando che non si accorga che non ci sei. Ti sei allontanata dal tuo corpo così tante volte a questo punto che è una forza dell’abitudine, un riflesso simile a un sospiro; ti ricorda il tuo primo fidanzato che ti scopava guardando un film porno – bum bum bum e poi ogni tanto prendeva il telecomando per tornare indietro e rivedere qualcosa che tu non riuscivi a vedere. (Una volta, girasti la testa oltre il bordo del letto e vedesti un groviglio di braccia e gambe sottosopra e il tuo cervello non riuscì a raccapezzarsi; non guardasti mai più.) Restavi solo sdraiata lì in silenzio, a guardare la faccia di lui che si muoveva sopra di te. Era come essere avvolta dal planetario che si apriva sopra di te quand’eri bambina: la rotazione accelerata della terra, il movimento delle stelle sopra di te, le costellazioni che si fondevano all’interno e all’esterno mentre una voce distante e disincarnata ti narrava una storia antica per aiutarti a capire tutte quelle cose. Sussulti e gemi con precisione. Lei spegne la luce. Tu guardi l’oscurità mentre l’oscurità ti abbandona; o sei tu ad abbandonarla.

Nella casa dei tuoi sogni, Carmen Maria Machado, Codice, traduzione di Monica Capuani. Splendido sin dalla copertina allegorica, raffinata, intrigante, piena di senso e di significati, deflagrante, potentissima, ricca di riferimenti e citazioni, nonché capace di dare sin da subito l’impressione dell’ossessione e dell’oppressione che attanaglia l’anima quando ci si ritrova in trappola, in prigioni più o meno dorate, in relazioni rese asfittiche dall’abuso, questo libro di Carmen Maria Machado dà voce con prosa sublime, che trascende il genere fino alla solennità, al dolore. Che, è verissimo quello che ha scritto Daniele Petruccioli, è una cosa troppo personale. Praticamente impossibile da condividere. Se almeno non fosse sempre accompagnato da quel sentimento di solitudine orrenda, da quel bisogno d’altri disperato, destinato già in partenza a essere frustrato. Ma, al tempo stesso, è universale. Ci lega e identifica tutti. E quindi abbiamo bisogno di metterlo sul tavolo, di imbandirlo come portata principale del nostro desco di essere umani.

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“Fratello di ghiaccio”

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Tutto questo, se ci aggiungiamo la crisi del 2008, avrebbe dovuto condurmi alla disperazione per mancanza di lavoro nell’insegnamento. Insegnare nella scuola secondaria: un’attività per cui la maggior parte della gente ti compatisce, in modo più o meno esplicito. Un’occupazione che non rientra tra i progetti dell’esistenza samurai richiesti dalla cerchia degli artisti; esistenza spesa tra diversi continenti, sostentata da borse di studio, programmi di interscambio, residenze artistiche ecc… Si può esercitare solo in qualità di “artista ospite”, in corsi che generalmente sono promossi dagli assessorati alla cultura, perché l’amministrazione dà per scontato che non si trovano artisti tra i professori, ma che arriveranno negli istituti dal mondo glamour dell’arte per emancipare il sottoproletariato con nozioni di marxismo, pensiero postcoloniale e teoria queer. Invidio questo tipo di vita. Davvero; per le avventure, i posti e la gente che mi perdo. Immagino un mondo in cui prima che ogni professore entri in classe per iniziare il corso un’autorità mandata dal Ministero della Cultura lo presenti ai suoi futuri alunni con molto rispetto: «Vi presento X. La sua esperienza come docente si colloca tra performance, conferenze e attivismo. Ha una lunga traiettoria creativa, ha pronunciato ottocentosettantacinque variazioni dello stesso argomento – matematica – in settantacinque situazioni diverse: la prima ora della mattina e l’ultima del pomeriggio, davanti ad alunni del centro città, di paese o a rischio di esclusione sociale. Facciamo un applauso a X e diamole il benvenuto!»

Fratello di ghiaccio, Alicia Kopf, Codice, traduzione di Livia De Paoli. È difficile penetrare un blocco di ghiaccio, scalfirlo, esplorarlo, spaccarlo, fare leva nelle maglie della sua cristallina struttura per comprenderne le leggi e svelarne i segreti: è un mondo ostico, ma può custodire congelata e immutabile la bellezza. È un uomo nel ghiaccio il fratello della protagonista, alter ego della scrittrice: l’autismo è un universo e un’avventura, come quella delle grandi spedizioni polari, in cerca di risposte. Alicia Kopf si avvale di questo paragone per dare vita a un romanzo splendido e lirico.

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“Mormorio”

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Una foschia stratosferica su Deauville ha reso il cielo simile a carta, come lo schermo di un’immensa lanterna…

Mormorio, Will Eaves, Codice, traduzione di Fabio Viola. C’è ancora chi pensa che l’omosessualità sia una malattia. Un peccato. Un vizio. Una colpa. Un’onta da correggere, lavare, curare, uno scandalo e una perversione. Ancora oggi, ed è necessario combattere in parlamento per sancire quel che dovrebbe essere scontato, ossia che i diritti non sono una torta, darne a qualcuno non ne priva gli altri. Accetta, il protagonista, che in parte scrive un diario, a tratti si corrisponde con l’ex fidanzata, in certi momenti descrive le proprie allucinazioni oniriche, di fatto una terapia a base di psicanalisi e castrazione chimica, pur di non finire in galera. Liberamente ispirato alla tragica vicenda di Alan Turing, che ha contribuito a sconfiggere il nazismo ma ciò non l’ha protetto dal dileggio, potentissimo sin dal titolo, questo romanzo è di straziante e magnetica sublimità. Incantevole e capace di immortalare, penetrandolo fin nell’intimo, il senso più pieno del testo la copertina à la Caspar David Friedrich, mutatis mutandis.

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“Perduta e attesa”

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Di nuovo, mi irritai pur cercando di non darlo a vedere. Avevo appena osservato Simmi manipolare mio figlio per fregargli il letto, oppure era naturale che lei fosse la figura dominante nella loro amicizia? In fin dei conti aveva un anno di più, ed era femmina, ed era già straordinario che andassero tanto d’accordo. Si avviarono a preparare il sacco a pelo mentre io sistemavo la cucina, ma a metà lavoro mi feci distrarre da un’email. Verso le otto proposi che cominciassero a prepararsi per andare a letto. Simmi chiese di fare la doccia e io le offrii il mio bagno mentre Jack faceva la sua al piano di sotto. In bagno, mi chiese se avevo da prestarle una cuffietta, il latte idratante e un prodotto per la pulizia del viso. Non sapevo se Charlie avesse iniziato così presto a farle usare i prodotti di bellezza, o se di regola le bambine di otto anni oggi usassero un prodotto specifico per il viso, ma riuscii comunque a soddisfare le tre richieste. Le consegnai il tutto insieme all’asciugamano.

Perduta e attesa, Nell Freudenberger, Codice, traduzione di Anna Tagliavini. L’amicizia, l’amore e i legami sono la galassia che ci definisce: lo sa bene Helen, scienziata e divulgatrice di successo che nel corso degli anni si è allontanata dalla sua amica Charlotte, anche lei votata anima e corpo a emergere in una carriera normalmente appannaggio quasi esclusivo maschile, quella che ha come obiettivo la firma delle migliori sceneggiature di Hollywood. Una telefonata, però, scompagina per sempre tutte le razionali certezze di Helen, e la porta a riconsiderare ogni cosa… Da non perdere.

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“Hannah versus l’albero”

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Avevo già baciato qualcun altro, si chiamava Caroline. Una sera particolarmente confusa entrai in una stanza qualunque a una festa fumosa e appiccicosa e lei mi baciò, a bocca aperta e labbra calde. Mi chiesi se non mi avesse scambiato per qualcun altro ma ricambiai il bacio. Quando lo raccontai a Hannah il mattino seguente lei si mise a ridere, il che creò un ingannevole precedente. Infatti quando le raccontai di Annika lei era in piedi in camera mia accanto a un busto di Platone, un oggetto che amavo molto, con quella testa solida scolpita da un tedesco in un altro secolo, nulla di valore, ma valeva molto per me, e lei afferrò il busto, lo sollevò in alto e lo schiantò sul pavimento frantumandolo in mille piccoli platoncini. Non le serbai mai rancore per ciò che fece dopo, né per i segni che lasciò.

Leland de la Durantaye, Hannah versus l’albero, Codice. Traduzione di Fabio Viola. Erede di un clan blasonato che ha fatto fortuna sfruttando senza remore né scrupoli la terra e le sue risorse e che ha per simbolo un albero monumentale, la protagonista di questo potentissimo romanzo subisce un giorno una violenza aberrante, e viene costretta al silenzio. Così, con la complicità di un gruppo di militanti, ordisce un raffinato piano per una vendetta indimenticabile… Solenne come una tragedia greca, è ottimo e magnetico, sensazionale sin dalla spettacolare e allegorica copertina.

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“Innocua come te”

61TQXe9ZLmL._AC_UL320_ML3_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Yuki non ricordava di non aver vissuto a New York, perciò era raro che pensasse a quella città come a qualcosa di diverso dal luogo in cui le era capitato di vivere. «Sul serio, vieni a berti un caffè con me. Non è una cosa galante. Nulla che possa turbare te o questo Lou.» Pronunciò Lou come se fosse la parola di una lingua sconosciuta. «Mi piacerebbe avere un’amica in città.» A quel punto Yuki annuì. Fuori, il cielo era avvolto da una coperta di nuvole rosa e arancio. Si chiese se Lou l’avesse aspettata per mangiare. «Un caffè rapido. Super rapido» disse Yuki. «Un espresso.» «E voglio vedere i tuoi schizzi.» Andarono in un diner lì vicino; era quasi vuoto. Presero un tavolo accanto ai vasi con le piante. Sulle foglie c’era uno strato di polvere. Strano pensare che la polvere potesse depositarsi su un essere vivente. Yuki si immaginò velata di polvere. Ruotò debolmente le spalle, come scossa da un brivido. Ordinò una cioccolata calda con panna e marshmallow. Lui ordinò una fetta di torta di ciliegie. «La torta qui è deliziosa. Ciliegie vere, scure, niente stronzate al maraschino.» Yuki annuì. «Non sei molto loquace, eh?» Neanche lei se lo ricordava come un chiacchierone. Anzi, era stato a disagio, nervoso, e senza quella punta di scherno nella voce. Lo preferiva in quel modo. «Yuki, giusto?» «Giusto.» «Eddie.» Le sorrise. «Credevo che ti chiamassi Edison.» «Anche.» «Posso chiamarti Edison?» gli chiese. «La vita è già troppo facile per quelli con nomi normali.» «Dubito che la vita sia facile per chiunque. Ma va bene.» Edison non era attraente come Lou. Si imbarazzava ancora a pensare che Lou fosse attraente; ma lo era almeno, per lei.

Innocua come te, Rowan Hisayo Buchanan, Codice, traduzione di Fabio Viola. Sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, quello per antonomasia breve, a detta degli storiografi, ma certo non meno che intensissimo, Yukiko decide di non rientrare da New York in Giappone con i suoi genitori ma di restare a bearsi di quell’atmosfera rutilante. Passano i decenni e nel duemilasedici il suo trentacinquenne figlio, proprietario di una galleria d’arte, rimasto orfano di padre è costretto a tessere nuovamente una trama di legami con lei, che lo ha abbandonato quando era praticamente in fasce. Scoprendo inimmaginabili sfumature di verità… Solenne e profondo, è un romanzo solido e bellissimo.

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“La tecnologia che siamo”

415BJLsx2RL._SX332_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

In un lavoro recente (Parisi, 2019) ho avanzato l’ipotesi per cui estensione e incorporamento debbano essere analizzati affiancando una prospettiva temporale alla consueta prospettiva spaziale. Farlo significa porre il problema non considerando le categorie di dentro e fuori, ma quelle – meno antropocentriche – di prima e dopo. Se ci pensiamo bene, estensione e incorporamento tradiscono un atteggiamento di priorità dell’organismo, in virtù del quale noi giudichiamo un processo come estendente o incorporante in funzione di un presunto limite – diciamo, la pelle – che marca un confine: come illustrato nel precedente paragrafo, tutto ciò che sta oltre la pelle è estensione, tutto ciò che si intrufola sotto di essa, fisicamente o funzionalmente, è incorporamento. Ma questo modo di rappresentare il fenomeno è parziale, oltre che viziato da un atteggiamento antropocentrico, perché solo adottando una prospettiva temporale possiamo osservare lo sviluppo di un individuo nel suo ambiente.

La tecnologia che siamo, Francesco Parisi, Codice. La tecnologia è dappertutto, lo diamo èper scontato, anche solo il semplice sostenerlo ci pare una pleonastica banalità: ma in realtà siamo certi di conoscere davvero ciò di cui con tanta facilità, e forse dunque anche faciloneria e approssimazione, parliamo? Perché non si tratta solo, con ogni evidenza, di telefoni o computer, bensì di molto, molto altro, qualcosa che indaga anche la nostra relazione più intima e profonda con tutto ciò che, a vario titolo, ci circonda. Il saggio di Parisi è illuminante: da leggere.

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“Il libro dei numeri”

download (1).jpgdi Gabriele Ottaviani

La ventola del computer pigolava all’unisono con il ventilatore nella stanza, con la stessa frequenza di rotazione. Ero convinto di aver messo da parte qualche video porno, qualche rimasuglio ottenuto d’impulso e dimenticato a cui non accedevo da tempo immemore e, stando alla tecnologia, stando alla psicanalisi, tutto è un transfer(t), tutto si può trasferire. Il significato letterale della parola metafora è “trasporto”, ma la tecnologia non ragiona per metafore. Per similitudini, semmai, che sono come o identiche alla matematica. In ogni caso gli originali, ammesso fossero mai stati originati, dovevano essere sopravvissuti all’ultima configurazione del mio computer. Era ora di scuotere il passato. Di risvegliare i fantasmi senza vesti. Aprii una finestra, ma non quella vera nella stanza, quanto un’apertura sull’altro, una forma di alterità, una soglia sulla mia parte oscena. Feci delle ricerche interne orientandomi in base a un frasario pieno di tutte le desinenze e i suffissi in sperma e sborra che potessero venirmi in mente – pompino in soggettiva, cowgirl al contrario, cowgirl al contrario adolescente araba indiana pachistana, fica al curry, fica piccante, cameriera francese proctologia accento da collegiale inglese gattina urlante, ma nessun risultato. Poi feci una ricerca in base alla tipologia di file: .avi, .flv, .mpeg, .mpe, .mpg, .mov, e mi tuffai pure sui .jpeg, .jpg, .tiff, e .gif, .png e .raw. Zero (0) risultati. Mi ero modernizzato troppo in fretta, avevo adottato altri formati prima del tempo, non avevo mai preservato la mia volgarità nella memoria, mi ero affidato troppo allo streaming. E quanto avrei avuto da scaricare. Emailai Aaron: mandami del porno via email. Emailai Caleb: mandami del porno via email. Emailai Finnity: mandami del porno via email. Emailai tutti loro una seconda volta, ma senza cc, solo ccn, le copie nascoste erano le mie preferite. Provai con alcuni profili sui social, i Tetset: il riquadro identificativo di Lana, che mostrava solo un paio di foto professionali frontali e un video traballante di una lezione tenuta in pubblico, veniva associato al riquadro appartenente a una curatrice del Met proveniente dalla Patagonia, che sebbene fosse troppo vecchia per farmelo venire duro era abbinata virtualmente con il riquadro della figlia dai lineamenti scuri, che sebbene fosse troppo giovane per far sì che ce lo avessi ancora duro era abbinata virtualmente con i riquadri delle cugine o delle amiche di età intermedie le cui immagini di libero accesso spaziavano dalle ultime vacanze in primavera all’escursione a base di MDMA nello scorso fine settimana culminata in una pomiciata di massa in mezzo al Pulaski Bridge. Mi diedi una strattonata al cavo, mi (s)caricai un po’. Poi si aprì un’altra finestra, destinata a chiudere la mia: la preghiera dell’alba, il Fajr. Non c’è Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo sterminatore di erezioni.

Il libro dei numeri, Joshua Cohen, Codice, traduzione di Claudia Durastanti, grande scrittrice e formidabile nell’immergersi in quest’opera mondo restituendone ed esaltandone la piena policromia e l’incommensurabile bellezza, che sfugge a ogni definizione e a ogni categorizzazione tassonomica di genere. È questa la storia dello scrittore newyorkese fallito Joschua Cohen che un giorno viene contattato da Joshua Cohen, il misterioso fondatore della più importante azienda tecnologica del mondo, affinché gli faccia da ghostwriter per la sua autobiografia: ma non ha la benché minima idea del gorgo perigliosissimo nel quale si stia andando a tuffare. E… Monumentale e magistrale.

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