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“L’invenzione del ribelle”

L'INVENZIONE DEL RIBELLE - TRIPODI cop 1di Gabriele Ottaviani

Ritornato dal confino Bruno fu impegnato nella battaglia legale per riavere la disponibilità delle cave e nella ricerca dei finanziamenti che l’impresa di estrazione del caolino avrebbe richiesto. D’altra parte quella dei capitali era la questione più rilevante dato che, come recita un modo di dire calabrese, Bruno «era sempri muru cu muru c’u spitali», cioè non disponeva di somma alcuna e, meno che mai, di quelle di cui l’impresa abbisognava. L’esperienza della Società Vetraria e il turbinoso rapporto con Placido Corigliano, il cui esito giudiziario sembrava aver raddrizzato la vicenda, lo spinsero a cercare fuori dalla Calabria ciò di cui aveva bisogno

L’invenzione del ribelle – Vita tortuosa di Bruno Misefari (1892-1936), cosiddetto “anarchico di Calabria”, Giuseppe Tripodi, Città del Sole. All’archivio centrale di stato di Roma e di Latina, così come negli augusti locali capitolini della fondazione Lelio e Lisli Basso, giace una messe di documenti sui quali si è depositata neghittosa la polvere del tempo, e che, non essendo mai stati indagati, non contribuiscono – fortunatamente questo volume, scritto con la passione e cura a cui con gioia ha abituato i suoi lettori Giuseppe Tripodi, di Condofuri, avvocato, docente, divulgatore ed espertissimo di cose calabre e non solo, colma con schiettezza intellettuale la lacuna – alla narrazione ortodossa, e quindi giocoforza parziale, di una figura che ortodossa non è stata mai, anzi, certamente fuori dagli schemi, quella di Bruno Misefari, conosciuto anche con lo pseudonimo, che altro non è che un anagramma, Furio Sbarnemi, filosofo, poeta, ingegnere, all’anagrafe Bruno Vincenzo Francesco Attilio Misefari (il cognome è celebre in quel di Reggio), ricordato da una targa, invero un po’ male in arnese, sulla sua casa natia a Palizzi, fratello dello storico, poeta e politico comunista Enzo, del biologo Florindo e del calciatore – fu attaccante – nonché dirigente e allenatore Ottavio. Noto come anarchico, per la sua fede, che poi abiurò, cercando per la realizzazione dei suoi progetti industriali l’appoggio del regime fascista, subì numerosi patimenti, ed è senza dubbio una figura da scoprire e riscoprire.

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“Io e gli altri”

415fkoefX9L._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

L’incoscienza, senza l’anima, è architettura precaria…

Io e gli altri, Jeannette Nuñez Catalan, Città del sole. Poesie con testo a fronte. Traduzione di Giuseppe Tripodi. Sono fratelli, cugini, amici, amanti, parenti l’italiano e lo spagnolo, due rami dello stesso albero, due profumati fiori della stessa multiforme pianta che nasce da più innesti e che genera mille frutti, dialogano da un lato all’altro, dai margini adiacenti delle pagine contigue di quest’antologia di quarantuno componimenti di una poetessa cilena dalla voce lirica caleidoscopica, sensibile e forte di cui Tripodi traduce i versi con raffinata cura ed estrema fedeltà allo spirito che vi è incarnato, che diventa concreto, tangibile, fatto di pelle, carne, sangue, passione umana e civile, che si esprime nel canto e controcanto della marginalità, dell’alterità, della speranza, della purezza, della bellezza, della condivisione. Da leggere e rileggere, lasciando sedimentare nell’anima e sbocciare.

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“267, Elizabeth Street Nuova York”

51pnKyq5vYL._AC_US218_.jpgdi Giuseppe Mario Tripodi

Saverio Orlando, 267, Elizabeth Street Nuova York, Città del Sole edizioni, Reggio Calabria 2019.

267, Elizabeth Street Nuova York, di Saverio Orlando (Città del Sole edizioni, Reggio Calabria 2019) è un testo a metà tra storia e letteratura: «saga familiare narrata con i toni dei lunghi racconti accanto al braciere: quando i vecchi, aggiungendo particolari ai ricordi ricostruivano, insieme alle vicende dei singoli, la trama dell’intera comunità» ( Maria Franco, “Zoomsud”, 8 febbraio 2019).

La comunità di riferimento è quella di Melito Porto Salvo, una cittadina con poco più di due secoli di vita e circa diecimila abitanti (una buona sintesi di storia melitese è in  Agazio Trombetta, MEMORIA E RICERCA, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Reggio Calabria 2008); ma l’impianto urbano odierno, digradato dai primi insediamenti collinari di fine Seicento fino a raggiungere la ferrovia, risale al periodo fascista quando venne costruito il Viale delle Rimembranze con le scuole elementari, l’ufficio delle imposte, la pretura e la sede del comune (una bellissima balconata in ferro battuto che si affacciava su un mare di agrumeti sacrificati nei decenni scorsi sull’altare dello sviluppo edilizio) e il Viale Garibaldi che dai piedi della collina raggiungeva la stazione ferroviaria.

Partendo dalle vicende ottocentesche della sua famiglia, e parlando di esse, Saverio Orlando  ripercorre i tre quinti di questa vicenda bisecolare ove, tra emigrazione e Grande Guerra, tra fascismo e II guerra mondiale, si finisce per dare alla città e ai suoi abitanti una storia comune di cui si sentiva veramente la mancanza.

Melito infatti, che ha primeggiato almeno dall’unità di Italia in poi sui comuni dell’entroterra e su quelli limitrofi attraendone ed assorbendone discrete ricchezze economiche e un vitale turn-over antropologico, ha avuto, fatte salve le dovute eccezioni, classi politiche mediocri. D’altra parte,  le classi medie intellettuali sono state da sempre preoccupate del loro ristretto ‘particulare’ familiare e poco accorte alla cultura della città e, in genere, agli studi storici.

Ma ciò, se si è concretizzato in un limite dell’auto-rappresentazione urbana, ha preservato i melitesi da quell’ipertrofia della propria storia cui si sono acriticamente dedicati molti intellettuali originari dei paesi limitrofi, di quelli cosiddetti ‘grecanici’ in primis.

Quindi il libro di Saverio Orlando si concretizza in un precipitato storico-letterario che sana laicamente questi vizi delle «ideologie» locali facendo risaltare, nelle vicende dei suoi «maggiori», la piccola borghesia melitese che è stata, fino a qualche decennio fa, l’elemento sociale aggregante nel tessuto commerciale, professionale e persino urbanistico della città.

E un melitese sessantenne riesce, magari consultandosi con la moglie e/o il vicino di casa, a scoprire chi era Rocco,  compagno di Bobby nelle attività commerciali liminari svolte a Napoli a ridosso della fine delle ostilità, o «la Marchesa» che ospitava i commercianti di Melito nel capoluogo campano lucrando qualche utilità indispensabile alla sua sopravvivenza in quei tempi molto grami, oppure il giovane antifascista, poi medico-sciamano della comunità, che in piena crisi etiopica chiedeva a Sciavé-Sammy il caffè originale che non riusciva a procurarsi per via delle sanzioni; o, ancora, il camionista che trasportava merci nella Valle del Tuccio e che fu poi meccanico molto richiesto con officina affacciata sul Corso Garibaldi.

Su tutte le comparse del racconto svetta Saverio ‘Sammy’ Orlando, nonno dell’autore, che fu protagonista di un’ascesa sociale i cui capitali di avvio provenivano dalla ripetuta emigrazione transoceanica di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, la cui accumulazione era costata lavori pesanti che toglievano le stringhe dalle spalle.

Ed anche Andrea Orlando detto «Bobby», figlio e padre dei due ‘Saverio Orlando’ che sono l’alfa e l’omega del libro (alla cui narrazione si rimanda il lettore per scoprire l’esilarante origine del soprannome), è a suo modo il rappresentante, con le sue inquietudini erotiche e lavorative, di una classe media imprenditoriale che a  Melito era rilevante fino a qualche decennio fa e che ora è estinta per l’egemonia di imprenditori mafiosi e paramafiosi che sono orientati esclusivamente al saccheggio delle risorse e giammai allo sviluppo economico di lungo periodo.

C’era in Bobby una grande disinvoltura nel passare da un’attività ad un’altra (impiegato comunale a Reggio,  raccoglitore di mandorle e di olive, commerciante intrallazzista, motocarrista, tassista abusivo, fabbricatore di gassose e infine esercente attività di Bar e ristorazione, oltre ad altri e più precari mestieri per i quali si rimanda al testo) e, soprattutto, l’intuizione microscopicamente neocapitalistica che per iniziare un’attività economica è indispensabile ricorrere al credito bancario (le famose cambiali) quando non si hanno risorse da accumulazione familiare.

Molto apprezzabile lo stile: la lingua è un italiano essenziale, scientifico e algebrico verrebbe da dire in considerazione del fatto che l’autore è stato ingegnere di lungo corso presso una grande azienda di telecomunicazioni, in cui i fatti vengono raccontati nella loro ‘nudità’ senza abuso di aggettivi e metafore e senza scadere nella retorica che è vizio ultrasecolare universalmente diffuso nella cultura meridionale.

Anche gli inserti dialettali, usati spesso nei dialoghi per aumentarne l’efficacia comunicativa, ricalcano modi di dire tipici della popolazione melitese.

Il libro, infine, è esente da quella deriva ‘ndranghetologica’ che caratterizza da lunghi decenni la letteratura calabrese. Non esiste romanzo o racconto di autore calabro, specie meridionale, che non faccia riferimento esplicito alla presenza della ndrangheta e alle sue prevaricazioni sociali.

La presenza della mafia nella società calabrese è un cardo amaro ma giornalisti e scrittori lo rendono ancora più amaro.

Tutti scrivono di ‘ndrangheta sperando che il solo discorso aiuti a diventare autori di best seller, privilegiati partecipi ad una sorta di brand narrativo che garantisce il successo e l’accesso all’olimpo delle patrie lettere.

Nel libro non ci sono richiami o preponderanze tematiche legate alla criminalità organizzata: pochi i riferimenti  e, se ne venissero espunti, nessun lettore sentirebbe la mancanza; un testo quindi che, non sappiamo quanto consapevolmente, prescinde dal senso comune culturale e letterario fondato di una egemonia mafiosa sulla società calabrese.

Questa sovraestimazione del peso specifico mafioso può andar bene per una relazione di polizia, per la sentenza di tribunale, per il comizio di un politico che non ha null’altro da dire ai suoi elettori: ma per la letteratura e la storia ci vuole ben altro.

Saverio Orlando ha scritto un libro originale ed anticonformista, onesto nelle intenzioni e meditato nel ductus narrativo, leggibile e godibile in ogni pagina; non so se sarà o meno un modello per altri narratori di Calabria ma io, per quello che ciò vale, lo colloco tra i miei preferiti e lo consiglio a ogni melitese che voglia conoscere la storia della sua città, a ogni calabrese amante della propria terra e del proprio lavoro, ai bibliofili di qualsiasi latitudine.

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Intervista, Libri

Giuseppe Mario Tripodi e i suoi Ritratti

41c6ilW8xAL._SX345_BO1,204,203,200_di Gabriele Ottaviani

Con Ritratti in piedi ha raccontato le vite e le opere di Saverio Strati, Otello Profazio, Rosario Villari e la sua: Convenzionali intervista Giuseppe Mario Tripodi.

Perché scrivere questo libro?

Non è un libro progettato e realizzato in conformità. È una raccolta di saggi che hanno avuto una vita autonoma prima di essere raccolti in questo volume.

Chi sono per te i protagonisti di queste biografie?

Saverio Strati è lo scrittore calabrese che ho letto con più sistematicità. Ho iniziato con ‘Noi lazzaroni’ che è del 1972 e poi ho letto a ritroso i libri già pubblicati e quelli che sono venuti dopo. Alcuni romanzi li ho fatti leggere ai miei figli  e adesso sto rileggendo, assieme a mia nipotina, ‘Tibi e Tascia’ che è una delle migliori  opere sull’infanzia di tutta la letteratura italiana. Naturalmente la resa letteraria di Strati non è costante, ma io l’ho amato molto. Lo ho incontrato un paio di volte in contesti che non permettevano grandi scambi di idee. Lui comunque era uomo di poche parole.

Otello Profazio, di cui invece posso vantare l’amicizia, è un ‘personaggio’ eccezionale, molto vivace intellettualmente. Ancora, a ottantatre anni, è molto curioso del mondo e degli uomini. È un grande affabulatore e mi scialo di ascoltarlo anche quando ripete cose che ho sentito tante volte. È, come Strati, persona di una grande dignità, ironico ed autoironico. Non lesina le critiche, anzi! A volte si  accanisce contro le persone di potere, specie quando sono prive di altre qualità. Io ero così da adolescente e da giovane; poi, man mano che i decenni passavano, è subentrata un po’ di ‘falsa politica’,  cioè l’arte con cui gli ‘ndranghetisti si rapportano ai loro nemici, la dissimulazione su cui si è soffermato molto Rosario Villari. A volte solo per stanchezza. Profazio non si stanca mai di essere sé stesso e non sa cos’è la dissimulazione.

Rosario Villari è stato mio professore di Storia Moderna all’Università di Messina. Poi si è trasferito a Firenze e l’ho rivisto solo di sfuggita in rare occasioni. Ho insegnato per tanti anni ai miei allievi utilizzando il suo manuale che era di una chiarezza inconsueta. Sono stato abbonato alla rivista ‘Studi storici’ nel periodo in cui l’ha diretta lui ed ho letto tutti i libri che ha pubblicato. Dopo  ‘Un grido di libertà’ ho sentito un bisogno impellente di scriverne. È un capolavoro della storiografia occidentale, degno di stare a fianco di pilastri  come ‘Filippo II e la Franca contea’ di Lucien Febvre,  ‘Lo Stato di Milano e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V’ di Federico Chabod,  ‘Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II’ di Fernand Braudel.

Qual è il modello a cui ti sei ispirato?

I ritratti di Strati e di Profazio sono apparsi sulla rivista ‘Belfagor’ che è stata fondamentale per la mia formazione. Ho cominciato al leggerla negli anni dell’Università su segnalazione di Paolo Alatri, mi laureai con lui nel 1971, che aveva sostituito Villari nella Cattedra di Storia Moderna a Messina. In ogni numero della rivista  c’era la rubrica ‘Ritratti critici di contemporanei’, 15-20 pagine per presentare un protagonista della storia e della cultura. Ovviamente li ho letti tutti. Nella primavera del 2009 i giornali parlarono delle difficoltà economiche di Strati. Scrissi di lui con molta ironia e mandai le cartelle a Carlo Ferdinando Russo, direttore di ‘Belfagor’ che mi rispose positivamente  a stretto giro di e-mail; lui che di solito era scrupoloso fino alla pignoleria su ogni rigo della rivista. Insomma il modello dei ritratti è quello della rubrica belfagoriana.

Il titolo poi lo cavai da un romanzo di Gianna Manzini, scrittrice pistoiese che pubblicò nel 1971 un ‘Ritratto in piedi’ di suo padre Giuseppe Manzini, vero e proprio ‘cavaliere dell’ideale’ dell’anarchia. Profazio è sicuramente un anarchico, Strati era socialista e Villari comunista: tutti e tre sono vissuti in gran coerenza  con i loro pensieri. Strati è anche morto con grande dignità. A Villari e Profazio auguro ancora lunghi anni di lavoro e di letizia, ‘come vuole il loro cuore’ si diceva una volta per buon augurio. E sono sicuro che vivranno  ‘in piedi’,  come hanno fatto finora.

A cosa è dovuta la scelta di voler raccontare anche una parte di te?

Anche lì sono partito da una rubrica belfagoriana intitolata appunto ‘Minima Personalia’ (ma prima c’era stata la breve serie ‘Nascita di uomini democratici’); uomini di cultura della generazione che ha preceduto quella alla quale appartengo. Certo i miei Minima Personalia, con tutta la benevolenza di Carlo Ferdinando Russo, su ‘Belfagor’ non potevano finire. Non avevo i titoli. Sicché li ho scritti, con molta autoironia e a beneficio degli allievi del Liceo Classico di Tivoli, sugli ‘Annali’ della scuola; me ne feci stampare alcune centinaia di estratti e li ho donati alla lunghissima parentela che, oltre che in Calabria, è dispersa nelle terre di emigrazione (Australia, Stati Uniti e America del Sud).

Cosa rappresenta per te la Calabria?

Ho un rapporto ancestrale con la mia terra di origine. Me ne sono andato appena laureato, a ventidue anni! Non ci sono tornato definitivamente perché ho capito che non vi era pane per i miei figli, come non vi era stato per me! E i viaggi su e giù per la penisola, a volte anche più di due ogni anno, hanno rappresentato una sorta  di ‘coazione a ripetere’ il trauma dell’emigrazione. Ma ci ho costruito una casa per trascorrervi, salvo imprevisti, gli ultimissimi anni della mia vita. Intanto ci passo le vacanze assieme ai miei figli e alle mie nipoti. Mi aveva colpito la storia di un cugino di mio padre che morì disperato a Zagarolo, vicino a Tivoli, perché non poteva tornare in Calabria dove non aveva più la casa. Voleva morire nel suo paese ma finì i suoi giorni all’Ospedale di Palestrina. Non so se il mio progetto di rimpatrio pre-mortuario riuscirà ma, almeno, ci sono le condizioni.

Com’è cambiata la scuola italiana nel corso degli anni?

C’è stata una evoluzione sia degli alunni che degli insegnanti. La mia generazione aveva meno strumenti. Basta analizzare i libri di testo di allora: le letterature erano monocrome, fatte di carta non adeguata, senza illustrazioni; il manuale di storia dell’arte, D’Ancona-Wittgens-Gengaro, era in bianco e nero. E costavano molto per i redditi di allora. La mia famiglia vendette i dieci maialini che aveva figliato la scrofa, e meno male che era stata una figliata numerosa, per acquistarmi i libri della quarta ginnasiale dove c’erano i quattro vocabolari. E alcuni, le cui famiglie non avevano scrofe gravide, finivano nei seminari dove i libri erano gratis. Poi, al penultimo anno, si spretavano e facevano la maturità fuori. E diventavano ferocemente anticlericali per reazioni alle condizioni di vita semicarcerarie che avevano trovato in quelle scuole.  Anche gli insegnanti, a parte qualche illustre eccezione, erano meno preparati dei professori di oggi.

Ora ci sono viaggi di istruzione sin dalle scuole elementari. Allora solo chi aveva la media più alta alla fine del secondo trimestre partecipava gratuitamente al viaggio di istruzione che si faceva alla fine dell’anno. A noi da Melito Porto Salvo ci portavano a Gambarie, che era una stazione sciistica, dove non c’era assolutamente nulla. E vomitavamo sistematicamente perché la strada, quasi cinquanta chilometri, era assai impervia e con tante curve. In terza media ci portarono a Reggio Calabria, dove io non ero mai stato, e al ristorante rimasi meravigliato dalla sontuosità delle posate.

Nel libro racconto di aver scoperto lo sciacquone in prima media, perché non solo a casa mia, in campagna, non c’era l’acqua corrente ma non c’era neanche nella scuola elementare che frequentai.

Qual è il maggior problema culturale italiano?

La diffusione della scolarizzazione di massa, fatto assolutamente positivo, ha spostato in avanti, rectius in alto, il livello generale della cultura media. Ma con il tempo chi veniva dalle classi disagiate è stato distratto da una sovrabbondanza di forme culturali approssimate, banali, semplificate (televisione, tifo sportivo, stampa, social media), confezionate dalle classi egemoni per perpetuare la subalternità dei poveri. Da qui un vero e proprio abbrutimento culturale cui sono dannati i giovani delle borgate, delle periferie, del Mezzogiorno intero. E i titoli di studio, medio-superiori ed universitari, conquistati a prezzo di grandi sacrifici anche familiari, non si trasformano in occupazione e presto diventano addirittura un peso per chi è destinato alla disoccupazione di lungo corso o a lavori precari, dequalificanti e alienanti. E questo senza che conoscano il teatro, la musica colta, le arti figurative, la letteratura cui anche i manovali o gli artigiani cresciuti a ridosso del ’68 erano stati in qualche maniera iniziati.

Da dove nasce il tuo interesse per l’etimologia e il dialetto, quello che Gozzano definiva come la lingua del sentimento più immediato e innato, ché certe cose non si possono dire in italiano?

Il dialetto calabrese è stata la mia lingua ritrovata; dopo i lungo noviziato scolastico e universitario, nel quale ho appreso ad usare la lingua italiana, a leggere i classici e a insegnarli, ho ritrovato le parole della civiltà contadina, tramite involontaria anamnesi, in occasionali calchi nei libri di letteratura, di filosofia, di storia, di diritto, di linguistica, di teatro.

Nel frattempo la scomparsa dell’economia agricola aveva  determinato l’eclissi del lessico (legato alle stagioni, agli arnesi, alle tecniche) e del vulcanico laboratorio espressivo collegato alla vita comunitaria e fatto di imprecazioni, soprannomi, folclore, apparati paremiologici.

Riesumare queste parole può rispondere ad un disegno di archeologia linguistica (‘Scavi linguistici nella Magna Grecia’ intitolava, nel 1933, una silloge delle sue ricerche Gerard Rohlfs) o anche ad una esigenza emotiva combinata con qualche rimasticatura teorica nella convinzione che, in molti casi, il linguaggio ha una innegabile capacità evocativa del tempo delle origini ed assume una grande importanza affettiva e conoscitiva.

Quelle parole dialettali, semanticamente molto ricche, rimandano alla storia dei popoli che, conquistatori momentanei in attesa di turn-over, nei secoli hanno abitato la Calabria: greci, romani, bizantini, normanni, arabi, angioini, aragonesi hanno lasciato rilevanti testimonianze glottologiche sedimentate in un precipitato originale che solo per caso, e per mancanza di cannoniere per usare una nota metafora di Umberto Eco,  non è diventato lingua letteraria.

Nel 2007 ho pubblicato presso l’editore Rubbettino un dizionarietto antropologico-dialettale, ‘Straci’, che è stato apprezzato da chiunque lo abbia letto.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Spero di riuscire quanto prima a ripubblicare una edizione accresciuta degli ‘Straci’ alla quale sto lavorando dal 2014, anche mediante pubblicazione periodica delle voci su riviste e periodici on-line. Poi terminerò la  biografia di un ingegnere calabrese, un anarchico vissuto dal 1892 al 1936, che ritenevamo un uomo ‘senza macchia e senza paura’ e che, dagli studi archivistici, è risultato non poco compromesso col regime fascista.

Qual è il valore etico della letteratura?

Quando ero giovane leggevamo che la letteratura o era volta al diletto, alla ricreazione del lettore, o doveva servire, formando le avanguardie,  a preparare la rivoluzione. Ora a quella schematizzazione sono subentrate molteplici e disarticolate finalità. Tra cui il sogno, per molti, di vivere di letteratura. Che è analogo al sogno di migliaia di ragazzini che sperano di sfondare nel mondo del calcio. Infondato e velleitario. Nemmeno uno su mille ce la fa. La democratizzazione della bibliourgia, il fatto cioè che moltissimi si fanno stampare, a pagamento e  da case editrici improvvisate, la silloge di poesie o il romanzo  o, in altri casi, auto-producono libri che nessuno compra e che pochissimi leggono, può essere un viatico per accedere a quella che una volta si chiamava la repubblica delle lettere ma, spesso, non è altro che una forma di alienazione per persone che aspirano alla gloria letteraria senza voler affrontare i sacrifici enormi, l’artigianato anonimo e di lunga durata che, soli, possono portare a produzioni di qualità.

Io ho esordito a sessant’anni e so che carmina non dant panem. Mi sono dato l’orizzonte del rispettabile dilettante, uno cioè che prova piacere a scrivere e a esercitare la memoria. Formalmente inseguo una scrittura polifonica, in cui cioè vengono impegnati apparati lessicali provenienti dai diversi registri linguistici e disciplinari (diritto, filosofia, storia, lingue colte e dialetti romanzi) che ho praticato e che, finora, mi hanno fatto vivere dignitosamente e senza grandi alienazioni.

Quanto ai contenuti, infine, vorrei occuparmi della cultura e dei sogni di chi, nell’arco di tutto il Novecento, ha creduto nella lotta per l’emancipazione delle classi subalterne; lotta che, ormai è palese a tutti, ha subito un grave scacco e che, soprattutto perciò, rischia di estinguersi senza lasciare tracce.

I vincitori sono sempre brutali e, in questo caso, anche molto bene armati. Hanno rischiato di essere sconfitti e sono decisi a non fare prigionieri. Desertum faciunt et pacem appellant.

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“Ritratti in piedi”

41c6ilW8xAL._SX345_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La ndrangheta che Strati disseziona nel “ciclo di Torrerossa” è quella che i sociondranghetologi definiscono “arcaica” e che era legata alla povera economia agro-pastorale dell’Aspromonte. In questo mondo rappresentava un elemento “positivo” in senso comtiano…

Ritratti in piedi nel Novecento calabrese – Otello Profazio, Saverio Strati, Rosario Villari – In appendice Minima personalia, Giuseppe Tripodi, Città del sole. Otello Ermannno Profazio, nato a Rende, in provincia di Cosenza, il giorno di Santo Stefano di ottantuno anni fa, è un cantautore e cantastorie folk. Ha realizzato un numero impressionante di album, reinterpretando e rielaborando buona parte della tradizione meridionale, nonché le poesie in lingua siciliana di Ignazio Buttitta, poeta e militante antifascista e comunista, nativo di Bagheria e anche vincitore del Premio Viareggio per la poesia (Io faccio il poeta) nel millenovecentosettantadue, lo stesso anno, ricco di ex aequo, nel quale tra narrativa, saggistica, opere prime e premi del presidente si aggiudicarono il prestigioso riconoscimento – e del resto pure a Prefazio, nel suo campo, non sono mancati – nomi del calibro di Bilenchi, Lombardo Radice, Sanvitale, Debenedetti, De Vita, Ferrero, Marotta jr, Sereni e Salvalaggio. Celebre e amato, Otello Profazio è legato a titoli come Cristoroforo Colombo, Qua si campa d’aria, U briganti Musulinu, La canzone del ciuccio, La barunissa di Carini, Stornelli calabresi, Carcere e villeggiatura, Guvernu talianu. Ha dato voce agli ultimi, ha cantato la loro melodia. Saverio Strati (La marchesina, Mani vuote, Gente in viaggio, Il codardo, Il diavolaro, Terra di emigranti, Piccolo grande Sud, Il selvaggio di Santa Venere), di Sant’Agata del Bianco, vicino ad Africo, Bruzzano Zeffirio, Caraffa del Bianco, Casignana, Ferruzzano, Samo e San Luca, era uno scrittore che ha abbandonato gli studi – poi ripresi – dopo la licenza elementare per cominciare subito a lavorare come muratore, e ha saputo impregnare di impegno civile anche le trame delle sue favole. Rosario Villari, di Bagnara Calabra, presso Reggio, storico e politico italiano, parlamentare del PCI nel corso della settima legislatura della storia repubblicana, fratello di Lucio Villari, anch’egli studioso di chiara fama, non ha mai dimenticato nelle sue opere di porre l’accento sulla questione meridionale, contestualizzandola nel più ampio bacino delle vicende che ancora oggi, cambiando quel che dev’essere cambiato, caratterizzano alcune fra le principali problematiche del nostro Paese specialmente per quel che concerne il suo sviluppo economico, sociale, culturale, politico, il drammatico tema della sempre crescente sperequazione sociale, che è terreno fertile non solamente per la criminalità ma pure per l’attecchimento di un diffuso senso di disumanità nei confronti di chi appare diverso e quindi nemico, non un debole da aiutare ma qualcuno che dovrebbe starsene lontano dagli occhi e dunque dal cuore. A questi ritratti in piedi, e non potrebbe essere altrimenti, visto che si tratta di personalità che mai e poi mai hanno piegato la schiena o sacrificato la propria impagabile dignità a un altare vano, l’autore, Giuseppe Mario Tripodi, per decenni insegnante di storia e filosofia, aggiunge un’appendice autobiografica gustosissima e autoironica: il libro è rigoroso, narra vita e opere con acribia da filologo e brillantezza aneddotica, divulga, fornisce dati, regala emozioni. Le immagini non sono mai bidimensionali, l’approfondimento è vivace, e si coniuga efficacemente con il recupero e il controcanto di  un paesaggio e di un mondo che appaiono scomparsi, celati dalle brutture contemporanee, eppure ancora presenti, se non altro nelle radici di chi vi ha vissuto, un patrimonio da eternare oltre l’inesorabile sbiadire della memoria.

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“Memoria del cuore”

downloaddi Gabriele Ottaviani

Le donne delle zone di guerra erano simili a piante passate da una temperatura fredda in cui seguono il corso naturale della loro vita, in una stanza caldissima: si mettono allora ad allungare rami e steli, vivono e ingialliscono in pochi giorni; così tutta quell’umanità, soltanto a guardarla e a scambiarvi una parola si consumava, si corrompeva, si trasformava; se ne vedevano esempi ogni giorno.

Corrado Alvaro è uno dei grandi nomi della letteratura italiana. Poeta, sceneggiatore (Casta diva, Terra di nessuno, Solitudine, Fari nella nebbia, Noi vivi, Carmela, Febbre, La storia di una capinera, Resurrezione, Caccia tragica, Riso amaro), giornalista, scrittore, nato a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, e sepolto a Vallerano, in provincia di Viterbo, dove aveva una casa venduta poi dagli eredi a Libero Bigiaretti (La scuola dei ladri, I figli, Disamore, Il dissenso), cacciato a quindici anni da Villa Mondragone a Frascati, ora di proprietà dell’università di Tor Vergata ma all’epoca, nel millenovecentodieci, collegio gesuita diretto da Lorenzo Rocci, il nome che tutti gli studenti del liceo classico hanno visto stampato sul proprio vocabolario di greco o su quello del compagno di banco, perché sorpreso a leggere l’Inno a Satana di Carducci, firmatario nel millenovecentoventicinque del manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, fondatore del Sindacato Nazionale Scrittori e della Cassa Nazionale Scrittori, noto militante di sinistra, autore del celeberrimo e magnifico Gente in Aspromonte e di Quasi una vita, con cui, con ottantuno voti su duecentosessanta, vinse lo Strega nell’anno millenovecentocinquantuno, succedendo a Pavese e prima di Moravia, il cui Conformista fu sconfitto da Quasi una vita in un’edizione in cui concorrevano anche tra gli altri Carlo Levi, Domenico Rea, Mario Soldati e, al di fuori della cinquina, Barilli, Buzzati, Comisso e Ortese, a lui si deve anche Memoria del cuore – Racconti della guerra 1915-1918, a cura di Anne-Christine Faitrop-Porta per Città del sole. La bellissima edizione raccoglie testi in origine sparsi fra pagine di quotidiano e antologie varie, e offre una panoramica dettagliatissima sulla condizione umana, sul senso della vita, sui valori della pace, sull’abiezione del conflitto, sempre, purtroppo, attuale. Da non perdere.

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“Mente glocale”

Layout 1di Gabriele Ottaviani

Sono stato un frutto

oscillante da un ramo più alto di un acero

e quell’immagine, dicevano, aveva il potere di nutrirli.

Mente glocale, Gianni Piu, Città del sole. La glocalizzazione in realtà nasce in Giappone con un altro nome, poi passando anche attraverso Zygmunt Bauman è diventata un concetto di uso abbastanza comune per mezzo del quale le istanze della globalizzazione, che è forse ormai la vera e propria ossatura portante della nostra contemporaneità, sono messe in relazione con le realtà locali. Si verifica quindi una interazione tra più livelli tematici e gnoseologici, una commistione di generi e linguaggi: che è quello che avviene, mutatis mutandis, a livello sia contenutistico che formale nella bella raccolta di vari e multiformi componimenti (trenta) di Gianni Piu, la cui esperienza politica ed esistenziale è trasferita con nitore scintillante all’interno della cornice dei versi, i quali, classici e insieme modernissimi, inducono alla riflessione sulle storture del mondo e per antifrasi sulla sua incomparabile beltà.

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“Mente glocale”

mente-glocale-piu-cop-imp.jpgRecensione a cura di Giacomo De Marzi, già professore di Storia Moderna all’Università di Urbino, autore di saggi su Piero Gobetti e Benedetto Croce, su Adolfo Omodeo, sulla Restaurazione in Francia, sulla cultura nel periodo fascista.

Ma non è un libro “ermetico”! Anzi, mostra la sua natura di libro aperto, chiarissimo e se non proprio di facile lettura, certo di lettura piacevole per chiunque ami rendersi conto di speciali problemi sulla storia della cultura  e della poesia …. oppure è un libro “ermetico”? Sono versi, quelli di Piu, legati alla tradizione poetica, per evidenti legami con Fortini, con Montale, con Pasolini, con il carissimo “compagno di passeggiate viareggine” Giorgio Caproni,  ma anche versi che «se ne distaccano e vanno oltre ….  Il linguaggio a volte è da decifrare». Difficile (e non so quanto utile), trovare norme fisse e stabili per  reperire una collocazione che sia definitiva, o andare alla ricerca di una definizione …. anche se a qualcuno si potrebbero confondere le carte in tavola. In effetti l’“ermetismo” è «la tendenza della letteratura italiana contemporanea, che intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che tanto vale in quanto riesce ad esprimere l’intuizione lirica nella sua originaria purezza, senza l’intervento di preoccupazioni razionalistiche, strutturali, tecniche, metriche, senza l’introduzione di motivi logici, narrativi, esplicativi, senza alcun nesso di socialità, di tradizione, di cultura, e affidandosi interamente alla suggestione fonica della materia verbale…»: quasi … quasi …

     Per cui ancora una volta si rendono necessari l’intervento di Croce e la sua critica della dottrina dei generi letterari, della loro produzione ed evoluzione, delle  storie e delle storture, dell’uso e della impossibilità di determinarli: «Basta accennare, in esempio, al continuo impaccio da essa posto ai poeti e agli scrittori con l’inibire l’uso di certe parole perché forestiere, dialettali, di nuovo conio e insomma non registrate nei vocabolari e di certe flessioni di parole, perché non accolte nelle morfologie e nelle sintassi e di certe forme di dramma e di commedia o di lirica perché contrastanti coi generi ammessi e con le forme a questi assegnate. Né con ciò si veniva soltanto a calunniare e a screditare opere belle, ma si affliggevano le coscienze degli stessi scrittori e poeti…».

     In questo caso si tratta di un libro che soggiorna fuori da ogni classificazione ufficiale, libro dalla vera ispirazione nel quale persino l’ironia gioca su motivi profondamente umani. Difficile anche per un lettore esperto riuscire a discernere il vivo e, se c’è,  il men vivo … che non c’è! La Prefazione di Tripodi, di fronte al dilagare di una eccessiva specializzazione delle produzioni, che solo raramente divengono cultura poetica, mostra come «2000 versi allineati a sinistra e articolati a destra negli ondeggiamenti frattali del verso libero», acquisiscano un valore di rottura, offrendo inoltre un piacevole quadro d’insieme. Mano a mano che si prosegue nella lettura, si viene scoprendo  il difficile gusto elitario dell’Autore, raro poeta di istinto, pronto al continuo richiamo che gli viene dall’intimo. In questo caso una maggiore ricchezza giunge non solo dal riferimento critico, ma anche da un approfondimento linguistico.

     L’evidenza di questo lavoro nasce proprio dalla singolarità del suo linguaggio, così come le immagini hanno buona riuscita per l’effetto della sorpresa causata dal contenuto originale, originalissimo, laddove l’incanto nasce dalla materia, inaudita, e dalla qualità dell’espressione. Sono immagini sorprendenti e di indubbia ricchezza, conversazioni forse ingrandite dalla preoccupazione di rinnovare il linguaggio poetico e dalla necessità di dargli un contenuto non banale (Mi accorgo di fare ricorso troppo spesso ai puntini di sospensione. Ora non è che si vogliano bandire; molti  scrittori li sanno adoperare benissimo con fare allusivo, intelligente e furbesco, per altri sono solo segni grafici piuttosto inconcludenti; sarà sufficiente, allora, armarsi di una buona educazione letteraria che ne giustifichi la presenza ed il buon uso).

     Gianni Piu: liceo prestigioso a Sassari, laurea in filosofia, insegnante, sindaco, amministratore comunale; Tripodi parla di un suo «sardismo filtrato attraverso l’esperienza gramsciana». L’isolamento insulare potrebbe aver contribuito a proteggere Piu da tentazioni di sbandamenti e di avventure. Può darsi. Basta, però, che non si parli di «folclorismo», brutta parola che in arte e in antropologia culturale è venuta assumendo significato ancora più brutto. L’ambiente, i costumi, le usanze del popolo sardo non sono un pretesto, ma un sentimento assai vasto e profondo. È indiscutibile il profondo interesse che presenta, in materia, l’opera di Piu, che tenta, felicemente, una via ben diversa da quella seguita dalla poesia paludata, ma pur non avvantaggiandosi della presenza dei larghi, malinconici, gioiosi, sorridenti ritmi, dei dolci e usuali versi amorosi e facendo mostra, piuttosto, di una forma costante di dolore e di malinconia, intenerisce e dona una ebbrezza all’anima del lettore.

     «Gianni, poeta di lotta e di governo»: a volte gli ossimori sono utili! Ora tengo d’occhio il nome di Piu con maggiore attenzione, operazione necessaria per il sottoscritto che non avanza di un solo metro senza aver avuto il necessario consenso di Croce e senza aver consultato il pensiero del filosofo sulla poesia …. Ma questo libro mi ha catturato in toto, ha superato la lezione di don Benedetto, per cui  mi si perdonerà se non insisto con la sua presenza risolutrice, oltre tutto gli sarebbe sicuramente piaciuto … Tutto ciò per mettere in chiaro la reale difficoltà che il  sottoscritto, sostenitore della concretezza  del fatto storico, ha trovato nell’addentrarsi nel bellissimo pandemonio poetico di Piu … qualche illuminata invenzione vocabolariesca si è resa necessaria e quasi sempre è giunta ad ingioiellare il testo, ad operare abbellimenti intorno alle parole.

     In questi versi non si porge orecchio alla tradizionale poesia d’amore, all’attrattiva verso la natura vergine e men che meno alla rima convenzionale. Insomma il poeta non è interessato al lembo di cielo che si scopre levando l’occhio dalla pagina, non lo rallegra un’apertura di verde campagna. Le sue sono rime varie d’interesse e di valore, ma prive dei lieti abbandoni comuni al formalismo poetico: chiunque cercasse riferimenti all’avvicendarsi delle stagioni, ai pleniluni, alle albe e ai tramonti, alle montagne, all’arcadia, all’ebbrezza della leggera felicità della natura, resterebbe deluso: non li si cerchi in questo libro, dove piuttosto si trova l’insolito accostamento Moana Pozzi/Popper  che entrano ambedue a far parte di una galleria di mostri/morali.

     Ma qui trovo anche l’haiku e con saccenteria tutta professorale, recito la definizione di componimento poetico giapponese di 17 sillabe, di tono lirico e contemplativo, ed allora inserisco Piu in un elenco virtuale, insieme con Calvino (… se sapessi il giapponese mi basterebbe descrivere questa scena in tre versi di 17 sillabe in tutto e avrei fatto un haiku….) con Arbasino (…. Le 17 sillabe della composizione poetica più illustre, l’haiku …..) con la Cederna ( …. Gli ospiti saranno appassionate declamatrici di haiku, poesie di 17 sillabe, non una di più, non una di meno ….) in opere da smontare e quindi rimontare con lo stesso materiale del medesimo autore, ma con un significato diverso …

     Di fronte a composizioni dal verso libero, ancora non è stata abbastanza avvertita la vanità della odierna critica sillabica della poesia, intesa a rendere difficile il facile, arcano e oscuro  il chiarissimo. E risultato n’è l’inaridimento. Se scende dalla sua cattedra il dotto ad offrirci endecasillabi, settenari talora sdruccioli, novenari, ottonari, sonetti, strutture, regole, tensioni, non ci resta che scacciarlo lontano … non lo si lascerà svolazzare entro le nostre sillabe … C’è chi coltiva in ombra la propria poesia, a conforto della sua vita raccolta, dei suoi studi e pur frequentando il presente, vive spiritualmente accanto ad alcuna gente del passato, da cui trae incitamento ed esempio all’opera propria. Di siffatti  poeti,  si va riducendo sempre più il numero, ma ve ne sono ancora … Palazzeschi dà molta importanza al verso libero, dal quale trae estensione che diviene gioco ed ironia, che acquisisce pieghevolezza, levità e rapidità esemplari. Il suo uso è diventato, in pochi anni, se non generale, molto diffuso, sferrando uno scossone alla metrica delle forme chiuse. Già da una prima lettura dei versi di Piu, lo si può riconoscere come esempio di modernismo pensante e certo uno dei più raffinati: in effetti tutto il filo del suo discorso, è tenuto su un piano di pura melodia, pur se non si lascia andare laddove le forme del suo lirismo sono tenute molto a freno.  La traccia  degli anni apocalittici che ritroviamo nel libro, si viene svolgendo come in certi diari, come in un intreccio musicale, ma senza la crudezza esacerbata di una ferita. Sono poeti che si collocano tra la memoria e l’invenzione, che dal fantastico scendono al ricordo e quindi dal ricordo risalgono al fantastico.

     Delle narrazioni poetiche presenti nel libro, quella che serve a svelare l’Autore ed il suo legittimo estro poetico, il suo mondo e il suo tempo, si deve cercare certamente tra le Dediche. La notazione diaristica si avvicenda alla rievocazione, all’ironia, in un intreccio di bizzarrie nel quale Piu è felice di trovarsi.  Il suo nitore, la simmetria, la pacatezza hanno molto della presenza del pittoresco: ogni sentimento è dominato, ogni parola è ben disposta, la penna avvolge e riavvolge vite a volte decorose, a volte nascoste  da un certo velo di fiabesco. Curiose dediche, piene di semplici analisi complicate, di abbandoni, di affetti, sempre colme di propositi e di ricordi, senza la presenza fuorviante delle reticenze: a volte sembra quasi che siano le persone a lui più vicine a portare turbamenti. E Piu, avendo vasta esperienza d’arte e  pratica diretta della letteratura, propone, con grande originalità, dediche in versi. Dopo la lettura, si recepisce un’impressione forte che resta in noi; ecco Peppe calze lunghe …  Una cugina squadrata …  Angelino …. La scuola elementare … La preside …  Piero, storico d’archivio …. Lucia … Salvatore ….. l’amicizia è vista sotto l’aspetto della sensibilità, celebrata calorosamente e posta al centro degli interessi e degli affetti del poeta; sono pagine che rispondono ad una esigenza profonda e che svelano molto del suo atteggiamento verso questo sentimento. Nobiltà e delicatezza suscitano felici pensieri in una lingua schietta, il cui vigore non esclude una certa leggerezza del tocco ed una fresca grazia di innegabile  eleganza.

     Ma, per caso, Peppe calze lunghe non avrà anche un nome e un cognome? Non sarà colui che «ha ispirato e ispira pensieri ed emozioni»? Avrei dovuto capirlo dal benevolo intento del poeta! Peppe: «umanista multivalente … abbarbicato nelle tradizioni … amico di cultura editore … nell’onestà cristallina del suo fare … nella terra piena di vento di Condofuri … che incendia con la fiamma pura …. portiere in erba …. dagli stracci impreziositi…»: Mi sento di apprezzare anche «Graziana, sempre più impelagata in pedagogiche scaramucce» oppure la «preside Porcu, piccola pensionata, Penelope pervicace…», che pure non conosco. Sta di fatto che mi si para dinanzi una bibliografia di citazioni, purtroppo non goduta pienamente per la non conoscenza degli «eroi», cosa che in nessun modo mi toglierà di mano gli elogi alla perfezione stilistica del poeta.  Qui il vero valore di quegli argomenti avanza da solo … senza il bisogno della presenza di un qualche tedioso ammonitore degli errori e delle colpe degli uomini …!

     In mezzo a tanta umanità, non è raro il caso di ritrovarsi sorpresi davanti a espressioni nuove, a parole rivelatrici, ad aggettivi per niente dettati dall’abitudine letteraria, ma obbedienti a determinare una persona, una istituzione, un amico, una scuola che così espressi, acquistano il diritto alla presenza poetica. In questa rassegna mi sembra di poter affermare  che Piu distingua perfettamente tra l’ingegnosità dell’invenzione letteraria e la potenza della fantasia creatrice: non per niente riesce a dominare i materiali che la sua assai vasta “erudizione” gli offre.

     Che cosa significa questo? Che, leggendo Piu, bisogna tener conto di quel complesso di voci che, sicuramente sbagliando e facendo di tutta l’erba un fascio, definisco “minori”. Ed è proprio nell’accostarsi a queste figure “minori”, che si trovano i segni lasciati dalle intenzioni, dalle inclinazioni, arrivando così quietamente al giudizio con quelle forme allusive, a volte piene di finissima malizia. L’arte di Piu è arte raffinata per la varietà d’invenzione con cui rappresenta il suo tema sotto nuovi scorci colti nel vivo, per i personaggi bel delineati, per la leggerezza  e insieme per la precisione del tocco, per lo stile per niente semplice ma sempre saporito ed esatto. Fin dall’inizio ci si trova davanti a personaggi aggruppati in atteggiamento tragico, eppure, la tragedia non arriva mai, personaggi senza un terreno sul quale incontrarsi ed urtarsi, la loro tragicità è soltanto lirica. Bisogna riconoscere che Piu presenta dei versi che a volte somigliano ad un gioco di evocazioni, presenti uno spirito ed una vivacità veramente singolari, per non dire preziosi. Egli vuole essere scanzonato e le cose più belle  ce le dà dissodando la terra di Sardegna, disseppellendone le memorie.

     La seconda parte del libro ci porta verso alcunché di affine, ad un tempo, e di diverso.  Ma ora ho imparato a leggere questi versi, quindi ho il piacere di camminare più svelto e così incontro A Zanzotto, i versi onomatopeici  del Vecchio pastore, una sorta di delicatezza  nelle forti espressioni di Vedove, ed ancora L’insalata di riso sardonico, fino ad un titolo che è un grido di vittoria: Se ne vanno! Gli americani andreottiani se ne vanno! Per lasciare il posto a Sbalestrati, a Messaggio cardiaco (…. Il cuore di Cuccu come cuculo pigola in altro petto ….), verso le poche parole di Emerite, utilizzate per descrivere Cossiga,  oppure il dolore che non riposa mai de la Plaza de Mayo fino alla disperazione che si prova per le bombe naziste che nel 1940 “coventrizzarono” la città, risorta in Biblioclastia. È una poesia, quella di Piu, di pura intelligenza, non ci si deve  lasciare trarre  in inganno da criteri apparentemente difficoltosi (Osanna Bin Leghen). Amori e delusioni, bellezza e sacrifici, affetti domestici, gioie, pene e dolori, amicizia, gratitudine e pietà, lavoro, studio e pensiero, virtù confortatrici e rasserenanti  della poesia, senza  le angosce del dubbio, del gelo, dello smarrimento, del rimpianto, dello scoramento, ma bellezze della vita e del mondo nei vari tempi, e luoghi, gaudiosi e belli, ritmi sorridenti, perennemente sorretti e percorsi da una magica ironia, da un inconsueto acume di osservazione di ambienti, di cose, di anime, di fatti, di colloqui, presentati al ritmo di una sorridente (scanzonata) poesia.

     Tale potrebbe essere una delle diagnosi del poeta che è Piu. Da molte delle sue poesie, apparentemente di una psicologia intellettualistica, balzano personaggi  scultorei che, malgrado l’uso di un linguaggio d’avanguardia, si possono racchiudere  in una cornice classica, con un vigore e con un rigore storici. Si notano sovranità e necessità dello stile, anzi, del culto dello stile. Qui il poeta sente il bisogno di fermare un poco  le sue inquietudini, spogliarle del tempo e dell’ansia, vederle così nel loro segreto. Mi sembra di poter dire che l’animo di Piu sia consegnato in queste pagine che sono la sua ricchezza e la perennità della sua vena. Certo, qualche volta c’è la compiacenza  della bella forma, ma un respiro suo c’è e si caratterizza per una continua aura di sogno.

     Ho dunque letto un’opera nuova, dettata dal ricordo di occasioni, di incontri, di personaggi che hanno lasciato il segno nell’essere di Piu. Ho riassunto un poco sommariamente, ma penso che pur da questo rapido volo, sia possibile scovare i termini di una interpretazione della poesia  e dei suoi aspetti spesso trascurati. Non spetta a me offrire novità, prendo solo nota di una inquietudine che ha travagliato la sensibilità creatrice di Piu. In queste sue felici sollecitazioni della memoria, il lirismo raggiunge timbri di assoluto rilievo, coadiuvato da una vitalità che confligge  con l’aridità dei tempi presenti. Ho cercato il segno più alto della poesia di Piu isolando alcune delle sue pagine, distaccandole dal contesto; l’operazione non mi è riuscita, in quanto tutti i suoi messaggi sono in grado di dire e di dare qualcosa all’animo del lettore. L’universo di Piu è fantastico e surrealistico, ma sempre verosimile e vicino ad una realtà accettabile; in quelle pagine è presente una lezione, nemmeno tanto sottintesa, del professore Piu, impartita  attraverso una ironia sottile e insinuante, mai amara e grave.

     Volendo riassumere, ho incontrato una storia un po’ pensosa, un po’ crepuscolare, dai toni per niente smorzati, dalle aperture intimistiche non sempre velate, nelle quali l’Autore descrive in versi le svolte essenziali di una vita. In presenza delle poesie paludate, quelle che ricevono tanti premi letterari, quelle in cui la rima è sempre perfetta, ebbene, in loro aiuto si possono invocare le stelle brillanti, la primavera col suo tepido risveglio, l’intervento stagionale  che risolve ogni problema, che incamera la loro persuasione di appartenere  ad una civiltà letteraria che evita di rimettersi in discussione tutti i giorni, che non si nutre di diversità, ma di certezze nel pensiero come nella vita sociale, che segue schemi, regole e quant’altro ecc. … ecc. … ma tutto ciò non risiede qui, non in questo lavoro, come ho già avuto modo di anticipare!  Quella di Piu è una storia dei tempi nostri, di un mondo solo apparentemente lontano dalle ingannevoli tentazioni. È presente una ossimorica tecnica audacemente tradizionale con la quale Piu affronta descrizioni e introspezioni.

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Libri

Gianni, poeta di lotta e di governo

Layout 1di Giuseppe Mario Tripodi

Gianni Piu presenta il più limpido dei ‘cursus honorum’ intellettuali: il diploma di maturità nell’esclusivo liceo-ginnasio Domenico Alberto Azuni di Sassari [allievi illustri: Sebastiano Satta (18671914), poeta e scrittore, Attilio Deffenu (18901918), intellettuale e giornalista, Antonio Segni (18911972), presidente della Repubblica, Mario Berlinguer (18911969), politico e avvocato, Camillo Bellieni (18931975), politico e storico, Palmiro Togliatti (18931964), segretario del Partito Comunista Italiano, Stefano Siglienti (18981971), politico e banchiere, Giacomo Delitala (19021972), giurista, Salvatore Satta (19021975), giurista e scrittore, Enrico Berlinguer (19221984), segretario del Partito Comunista Italiano], laurea in filosofia a Cagliari, insegnamento per un buon quarantennio nelle scuole secondarie del suo paese, Pozzomaggiore, di cui, per un decennio, è stato anche sindaco e amministratore comunale.

L’insegnamento dunque è stato il ‘mestiere’ in cui Gianni è vissuto ma della della sua profonda vocazione pedagogica hanno beneficiato, e beneficiano ancora, tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incrociare i suoi passi.

Una estesa e profonda cultura, la paziente capacità di ascoltare le ragioni degli altri, la duttilità antropologica nel rapporto con il prossimo, il rigore di idee chiare e messianiche a lungo coltivate e non ancora dismesse (la sete di giustizia, il sostegno agli ultimi, la lotta illuministica contro le ‘prigioni dell’oscurantismo e del pregiudizio’, il sardismo filtrato attraverso l’esperienza gramsciana), la paziente tessitura dell’amministratore mai immemore del mandato popolare: queste sono le qualità fondamentale di Gianni che ricorrono piacevolmente ad ogni incontro e si ritrovano in ogni suo verso.

Il corollario di questa poliedrica tempra umana è la piena sintonia con la ‘Madreterra sarda’ e i suoi abitanti nonché la condivisione con essi di sogni realizzati e di cocenti sconfitte.

Sicché le esperienze comunitarie (vita e morte, lavoro e tempo libero, lotte e ripiegamenti, malattie e sofferenze) sono le occasioni in cui, da sempre, l’ispirazione di Gianni si attiva e fa tracimare versi tornitissimi e a lungo rimuginati.

Una poesia umana, troppo umana, ci vien da dire ripensando al profeta di Röcken; anch’essa, come la filosofia nietzschiana, satura della tradizione canonica che si incontra nei manuali di letteratura, italiana e occidentale, con l’aggiunta del background poetico isolano (in lingua sarda e in lingua nazionale) che Gianni ha profondamente metabolizzato anche attraverso la dimestichezza con le voci primordiali del canto popolare a tenores e degli agoni in ottava rima.

Versi dunque che, pur legati alla tradizione poetica, ne distaccano e vanno oltre; non vi si trova la poesia d’amore, capitolo rilevante di ogni antologia che si rispetti, non il legame ancestrale con la natura (le piante, il paesaggio, gli animali con le conseguenti, e spesso abusate, metafore); l’uso della rima è non convenzionale e risulta a volte  parsimonioso, a volte insistito,  a volte carsico e da decifrare; ma, oltre la rima e le assonanze, c’è una musicalità ricercata che percorre  e governa ogni verso.

Questa sonorità pervasiva era stata sottolineata da Ricardo Herrera che, antologizzando Gianni insieme ad altri due autori italiani del calibro di … aveva parlato di “escritura de Piu toda penetrada de una ininterrumpida conmociòn ritmica (prueba fehaciente del caracter genuino del dictado poetico)” (“Hablar de poesia”, Anno III, n. 5, Junio 2001)  

Le assenze e le anomalie di cui sopra sono forse dovute ad una sorta di ritrosia verso ogni forma di soggettivismo; o, detto altrimenti, a una deviazione, intenzionale o profonda che si voglia, della pulsione narcisistica verso ‘l’altro da sé’, verso il ‘noi’, cui la generazione di Gianni è stata variamente educata dalla più rilevante e denigrata ideologia della cultura novecentesca: quella umanistico-comunitaria, o più precisamente comunista, che ha fatto da basso continuo a diverse stagioni della vita, sua e di tanti altri compagni di viaggio.

Esiti a stampa

Psicologia della deriva. Poesie 1970-1994 (Tivoli, 1995, tradotto nel 2003 per le edizioni Melusina di Mar del Plata) ed Epigrammelot in punta di cronaca (Cagliari, 2006) sono gli antecedenti a stampa di Mente glocale e ne possono essere considerati studi preparatori.

I temi per lo più ‘privati’ del 1995 (poesie per pensionamenti, nascite, epitalami) sopravvivono nella prima sezione di questo volume, Dediche, allargandosi in ampi quadri rammemorativi in cui il poeta riassume le sue ‘esperienze dell’altro’, spesso diramate attraverso familiarità antiche e consolidate per più generazioni; con l’aggiunta, questa veramente inusuale, della recensione libraria in versi.

E il verso assume a volte le forme dell’epicedio accorato come in Pietro Maestro, in Ninna nanna e in Piante officinali, veri e propri canti di Orfeo che paiono evocare dagli inferi, sia pure per il solo tempo della lettura, i viatores scomparsi e fungono da ambrosia e unguento per le ferite insanate dei sopravvissuti.

Moana Popper è anch’esso epicedio cumulativo dedicato alla regina del porno Moana Pozzi e al filosofo falsificazionista Karl Raimund Popper: vite asimmetriche accomunati da cognomi assonanti e dalla morte, ossimorica e quasi contestuale, poco più che trentenne la prima ultranovantenne il secondo, nel settembre del 1994: sicché il “Timore del caos, la polifonia/   …  / il dogma o il mito come / cammino artificiale per penetrare / l’ignota esplorazione del mondo / alla ricerca delle regolarità” del primo fanno da controcanto alla “filosofica antica utopia / delle case dell’amore / la democrazia dei rapporti / pansessuali e civili piaceri / del rispettarsi sano” dell’altra: la tabula rasa è piena / la tabula piena è rasa.

La vocazione epigrammatica torna in questo libro nelle venti pagine dell’Insalata di riso sardonico, in cui la cronaca micro-criminale si mescola a quella macro-politica in grumi di versi ricolmi di ironia dolorosa, da centellinare a mente serena e disposta all’impegno.

Haiku Lunghi

I versi di Gianni risultano tanto pregni della tradizione poetica che, ad un certo punto sembrano, traboccarne: legami evidenti con Franco Fortini, Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici nonché, dal lato della letteratura europea, Bertold Brecht e Wislawa Szymborska.

I nomi indicano gli ‘ascendenti’ più rilevanti di una poesia molto sedimentata, ma le conoscenze di Gianni sono veramente enciclopediche; sicché può capitare che in un conversare pomeridiano (e quanti se ne fanno e di che qualità nell’ampia casa avita di via Grande a Pozzomaggiore, spesso dopo convivi multiformi in cui Gianni è instancabile factotum di robusti menù, complicanze di cibi e complicanze di verbi!) qualche commensale menzioni un poeta locale di una qualsiasi regione italiana; ed ecco che il signore del luogo va nella stanza della sua poderosa biblioteca e cava fuori cinque o sei volumi contenenti i versi dell’ignoto de cuius.

Questo cibarsi dei versi altrui, selettivo e universale ad un tempo, traspare nella sezione di questo volume intitolata Specie di Haiku Lunghi.

Gli ‘haiku’ di Gianni, sei in tutto, esclusa già nel titolo la ‘brevitas’ canonica, rappresentano ognuno l’approccio simbiotico ad un altro poeta (l’altra ‘autocoscienza fenomenologica’, verrebbe da dire parafrasando Hegel!), una sorta di ribaltamento critico, una ‘rivoluzione copernicana’ ermeneutica in cui il testo di un’opera altrui viene ‘smontato’ e ‘rimontato’ in una sintesi costituita dai materiali, i versi, dello stesso autore diversamente assemblati.

Il tetto s’è bruciato / ora / posso vedere la luna!, verrebbe da dire con Mizuta Masahide (1657-1723), dove ‘luna’ sono i versi degli altri, meditati e metabolizzati negli haiku lunghi di Gianni. E ‘gli altri’ sono, in questo caso e tanto per continuare con genealogie e fratellanze, tre poeti isolani stravaganti rispetto al canone (Antonello Zanda, Lina Unali e Marcello Fois) e due ‘continentali’ ‘canonici e laureati’ come Sandro Penna e Andrea Zanzotto che vi compare con Sovrimpressioni (Mondadori, 2001) e Conglomerati (Mondadori 2009).

Locale e Globale

Le ultime due parti di questo libro, Piuttosto locale e Piuttosto globale, sono solo nominalmente antitetiche: in realtà in entrambe c’è un tentativo di ridurre in versi il Kaos del mondo il cui il locale, l’isola, la Sardegna, si è ritrovata il mondo nelle sue strade (non solo gli odierni cinesi e rumeni ma, molto tempo prima, la flotta americana a La Maddalena  e “… 35.000 ettari sono servitù militari / Frasca Teulada Chirra installazioni /poligoni acquartieramenti stazioni …”) e il mondo (l’Argentina soprattutto), cui il poeta guarda con animo di viaggiatore profondo non da turista, si scopre affetto e rigonfio di particolari (italiani metà dei cognomi bairensi).

Nell’impossibilità di rendere conto di ognuno dei componimenti scegliamo di soffermarci sui due, Paese mondo cane? e Magro, El Querandi, Cano,  che rappresentano veri e propri Cantos generales in cui prevale l’epicità della vita quotidiana, la lotta contro la non trattenuta entropia che annichilisce nel tempo le persone e il loro comune sentire, le lingue e le case ( … pietre geologicamente / rastremate e inventariate nelle case / antiche a presidiare i passi / o imbellettate da tecniche aggiornate …), gli ecosistemi e i paesaggi; entropia contro la quale, purtroppo,  anche il verso del poeta risulta solo medicina palliativa.

Quasi duemila versi, allineati a sinistra e articolati a destra negli ondeggianti frattali del verso libero, interpunzione ridotta al solo ‘punto fermo’ per fare riprendere ossigeno al lettore, l’intermittenza della lingua sarda in Paese mondo cane? e di quella argentina in Magro, El Querandi, Cano, citazioni essenziali ed esplicite incastonate nel testo (De Martino e Pavese) ed altre solamente accennate o criptate, l’allitterazione parsimoniosa per descrivere il disordine belluino globale (BruxellesBataclanCiadTurchiaPakistan, quasi una raffica di mitragliatrice glottologica), la fraternità della lingua castigliana ( … voces superpuestas, incomprensibiles retumbantes / Da ese momento una parte / del todo una parte del arte / una entre muchas cabezas / una entre muchas munecas), il disagio antropologico [ … paisà di paesi (Paesi) spaesati …], l’assemblaggio di ascendenti per  un artista ( -Eluard Segovia, Edith Piaf Tenco Neruda), lo scherno di incivili steccati civilistici ( … la proprietà privata provata / dalle accuratissime staccionate/) o, ancora e chiudiamo (ma il lettore saprà scoprire molti degli altri tesori stilistici nascosti tra i versi), l’abbondanza di morfemi dentali per esprimere … la ricchezza dell’offerta gastronomica nella città di Cordoba :

Città retroversa, artigianale familiare

Europa dell’est anni sessanta

attenta ad impettite cerimonie del patriota

Josè San Martin rigurgitanti ristoranti

mentre spande profumo accattivante

il capretto immolato negli spiedi confitti.

Migranti, immigrati, emigranti // Volkswanderungen, invasioni, solitudines //, Öffnungen, mediterraneità, maltitudini: il Chaos globale che Gianni, raffinato Creso di versi e platonicamente refrattario ad ogni oro, ha trasformato in poesia.

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Libri

“Cola Ierofani”

cola_ierofanidi Gabriele Ottaviani

A Leningrado arrivarono di mattina presto e vennero alloggiati all’Hotel Drushba, poco distante dalla stazione Finlandia. Di giorno faceva un caldo discretamente umido e talvolta pioveva. La sera e la mattina presto la temperatura si irrigidiva. Cola dovette acquistare un maglione di pessima lana in uno dei negozi per turisti dove si usava solo valuta occidentale. A Kiev era stato sostanzialmente ligio agli appuntamenti della comitiva ma a Leningrado aveva deciso di sdirrazzare e di girare in solitudine per la città.

Cola Ierofani, edito da Città del Sole e scritto da Giuseppe Tripodi, è la storia di carne e politica del militante che dà il nome al libro. Politica perché il sogno della rivoluzione è raccontato nei dettagli: battaglie, impegno, volantini, manifestazioni, lotte per l’uguaglianza sociale che in tante parti d’Italia, nel Novecento, è ancora di là da venire. L’alienazione di cui tanto ha parlato e scritto Marx si fa nemico concreto, tangibile, che ha tanti volti: una sanità pubblica che non funziona, l’obbligo di lasciare la propria terra per cercare un minimo di benessere, ingiustizie, soprusi, angherie, disoccupazione e delinquenza che, con la miseria, prosperano. Eppure c’è un certo romanticismo in quel di Peripoli, estremo sud dello stivale, dove il dolore e la frustrazione cercano compensazione nel sesso, nella passione, negli amori, nel piacere che certo non si attiene ai dettami degli insegnanti del seminario dove Ierofani, cognome sacro ma anima profana, è stato per un certo periodo. Un personaggio, Cola, che davvero, come i più importanti della letteratura, riesce a coniugare in sé più dimensioni, felice sintesi di chiavi di lettura diverse e interessanti. Selezionato per il Premio Berto, il libro, caratterizzato da una prosa semplice, variegata, autentica e intensa, avvolge e coinvolge.

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