Libri

“Catalogo della casa di Gianni”

catturadi Vincenzo Pacifici

GIUSEPPE TRIPODI, Catalogo della casa di Gianni e altri racconti calabri, Roma, Il seme bianco, pp. 131. €13,90. Secondo un recente, centrato editoriale di Sabino Cassese, i “partiti politici sono nati con un piede nella società e l’altro nello Stato. Hanno conservato il secondo e perduto il primo con una grave crisi di legittimità”. Il qualificato ed autorevole studioso, già accademico e giudice emerito della Corte Costituzionale, individua a ragione un altro segno della crisi “nella sostituzione delle vecchie macchine con un “uomo solo al  comando””. Un ulteriore segno della decadenza della forma partito fondatamente è colto “nella sostituzione dei programmi con gli schieramenti”. Una volta – aggiunge il costituzionalista di Atripalda  – i programmi dei partiti erano libri dei sogni, contenevano molte promesse non mantenute, ma indicavano un percorso, spesso aspirazioni, comunque il disegno di una società futura”. Le prime osservazioni delineano cause e ragioni della crisi attuale dei partiti, in realtà crisi ed avvilimento della politica, la terza trova nel lavoro di Tripodi la realizzazione tangibile. Infatti sia nella prima quanto soprattutto nella seconda parte del volume le tensioni, le aspirazioni, le mosse hanno come fine ultimo ed incontestabile, la difesa dell’ideale e la contestazione dura più che la confutazione dialettica delle idee altrui, nella massima parte dei casi respinte senza speranza. Questa, curata da Pino Tripodi, rappresenta una raccolta di racconti, ripartita in due parti. La prima, narrata in I persona, e la seconda, fondata su un lungo racconto “forte, efficace ed aderente alla realtà calabrese”, anche vivace e partecipato dall’autore, episodi della vita di una serie nutritissima di personaggi, partecipi o protagonisti di momenti, condizionati o provocati da un impegno e pubblico e politico, serio e convinto, ora, come ha segnalato Sabino Cassese, irriso e confinato nella memoria arida e nella nostalgia patetica. È una sorte, che accomuna le due fazioni, allora “l’una contro l’altra armate”, oggi ai margini del quadro politico, vuoto, amaro quanto profondo, di idee e di valori.

Standard
Libri

“Catalogo della casa di Gianni”

catturadi Emanuele Ventura

Giuseppe Tripodi, Catalogo della casa di Gianni e altri racconti calabri (Roma, Il Seme Bianco): Appunti per un’analisi linguistica.

Nella sua nuova fatica letteraria, Giuseppe Tripodi ci conduce ancora nel mondo della Calabria grecanica, raccontato qui attraverso la figura dell’orologiaio Gianni e dei personaggi che di volta in volta finiscono per frequentarne la casa: un mondo del quale l’autore, è bene rimarcarlo sin d’ora, riesce ad evocare i sentimenti più profondi e le sfaccettature più varie, restituendo alla memoria collettiva personaggi di un passato che ha ancora molto da raccontare (e altrettanto da insegnare), non fosse altro che al fine di sottrarre le vicende umane al passare inesorabile del tempo («L’oblio annebbierà la nostra vicenda umana e, nel giro di una o due generazioni, nessuno ricorderà chi eravamo, da dove siamo venuti. Parleranno dei politici di rilevanza nazionale, dell’emigrazione, della Cassa per il Mezzogiorno, della ndrangheta. Ma nessuno si ricorderà di Cola Ieropoli e del vostro conta fiabe»: p. 10).

Ponendoci dinanzi alla realtà popolare della Calabria di alcuni decenni or sono, Tripodi torna alle sue origini, alla terra lasciata e periodicamente ritrovata: costruisce, così, un micro-mondo intessuto delle sue quotidiane micro-storie, le quali stanno anzitutto a ricordarci quanto Pavese avesse ragione quando, nel suo ultimo romanzo La luna e i falò (che è poi soprattutto un viaggio nei ricordi, come quello di G. Tripodi), affermava, con parole di grande suggestione, che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Il lettore non dovrà sicuramente prestar troppo credito alle parole incipitarie dell’autore, che nell’esordio ci informa di come «la [sua] capacità di stesura si [sia] rivelata assolutamente inadeguata», tanto da approdare, a suo dire, non alla creazione di «un romanzo di formazione», bensì soltanto di «alcuni raffazzonati grumi narrativi sconnessi» (p. 9): possiamo senz’altro ricondurre tale dichiarazione a quello che, nella retorica antica, sarebbe stato identificato come un cleuasmo; seppur di semplici grumi narrativi si trattasse, infatti, essi hanno il potere di trasportarci in una lettura di notevole godibilità.

Muovendosi sui binari di un realismo fantastico, Tripodi narra l’epica quotidiana di un mondo lontanissimo dalla frenesia d’oggigiorno (il paese di Precacore «era stato Itaca di tante piccole iliadi e altrettanto piccole odissee»: p. 31): nelle pagine dei sei racconti che compongono il libro ritroviamo la ricchezza della cultura contadina e l’orgoglio delle radici in una terra difficile, ma anche, di riflesso, l’eco della storia nazionale e delle sue radicali trasformazioni socio-economiche, rievocate tramite una gustosa aneddotica e accompagnate da riflessioni talvolta amare sulle conseguenze di cambiamenti tanto repentini («Cresciuti in un tempo in cui non c’era la radio o la televisione, e tanto meno i libri e i lettori per conto terzi delle più raccomandate prescrizioni pedagogiche neoroussoviane, abbiamo molto patito per carenza di fiabe e di racconti […]. Se ci rivolgevano ai nonni altrui […], se ne uscivano con racconti non più lunghi di due righe che sarebbero stati apprezzati al tempo della twitter-scrittura ma che poco o punto soddisfacevano la nostra ‘fame’ di storie»: Vecchi p. 23).

Volendo qui circoscrivere la nostra attenzione sugli aspetti linguistici del libro, sarà opportuno muovere anzitutto dal ruolo essenziale in esso giocato dal dialetto: un marchio che ci consente di riflettere sulla storica vitalità della letteratura dialettale “riflessa” e sulla sua rilevanza nella storia culturale italiana, al fine di riscoprire quella fittissima tramatura di tradizioni locali, regionali, municipali che contraddistingue il nostro Paese. Il dialetto, qui come in molti precedenti illustri della nostra letteratura, è in primo luogo la lingua delle emozioni, di ciò che difficilmente potrebbe essere espresso con altrettanta forza e vitalità per mezzo della lingua nazionale; a tal riguardo si ricordino, fra i tanti esempi utili, le parole di G. Gozzano in L’altare del passato: «Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell’italiano (adoratissimo!) […], il mio dolce parlare torinese, l’unico nel quale penso e l’unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto …». Tali considerazioni valgono ancor più ai giorni d’oggi, dal momento che di rado capita di osservare un uso altrettanto vitale e convincente del dialetto, anche cercando nella narrativa contemporanea di maggiore visibilità: quell’energia che può albergare in una lingua “altra”, al contrario, tende spesso a perdersi, poiché il problema della lingua è ridotto al semplice inserimento di tessere vernacolari all’interno di una compagine che, per il resto, risulta interamente italiana; la voce del narratore, al contrario, come ben dimostra Tripodi, deve essere in grado di adattarsi alla voce dei personaggi, instaurando con essi una convivenza credibile. Come spiegava con fini metafore il compianto Andrea Camilleri in un’intervista concessa a Tullio De Mauro (Andrea Camilleri/Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole), non si tratta semplicemente «di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane».

Nel libro di Tripodi la parola dialettale diviene anche uno dei mezzi più efficaci per rafforzare la componente comico-giocosa che attraversa tutti i racconti: la vena ironica del narratore emerge a ogni pagina e alimenta costantemente il riso del lettore; un’ironia, peraltro, che sfugge del tutto il politicamente corretto (ponendosi, anzi, in contrapposizione a qualunque istinto di pruderie), toccando i suoi vertici nei temi, ricorrenti nel testo, della passione politica e della sessualità incontrollabile di certi personaggi (cfr. p. 84). A questi si aggiungono gli impulsi di antireligiosità di altre figure, cui si oppone la singolare posizione del protagonista, comunista e cristiano, anzi nato prima cristiano che comunista, come egli stesso precisa nel racconto, esaltando la vicinanza fra messaggio evangelico e ideale comunista (Perché Dio non è quello che ci raccontano il papa, il vescovo, don Paolo e i loro sciacquabèrtuli: p. 64; Gesù è stato il primo comunista e la buona novella che voleva portare a tutti era l’uguaglianza: p. 65).

Il dialetto dei personaggi, improntato a uno schietto mimetismo, è tuttavia soltanto una delle componenti linguistiche che caratterizzano il testo: a colpire il lettore, infatti, sarà soprattutto la complessa polifonia dei registri che costantemente s’intrecciano, rivelando, per così dire, tutte le anime dell’autore. Alla scrittura cólta e arguta che contrassegna normalmente il livello diegetico si accompagnano:

  1. a) i numerosissimi dialettismi e regionalismi del narratore, dai quali, come detto, si riesce a cogliere la perfetta sintonia con il dialetto totale messo in bocca ai personaggi: rigghiòccolo di abitazioni (p. 16); guallera che aveva grande quanto una còfana del pane (p. 24); covoni di grano ntimognàti intorno all’aia per la trebbiatura (p. 31); mio padre … mi aveva dato una passata di curriàte con la cintura di cuoio (p. 32), Giamberambeddu (p. 39), si era annodato il maccatùri stretto intorno alla nuca (p. 40); mogli che prima llunchiàvanu i ndrànguli (p. 57); un bastàsi era diventato il figlio (p. 80); nel sarvaticuda successivo all’urto lui era scappato con il sacco (p. 82); annacandosi in solitudine come fosse a una sfilata di Armani (p. 84; ‘affrettarsi o tergiversare allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo spostamento’, secondo la spiegazione offerta da Roberto Alajmo in L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia); aveva smiriato un bel corpo di donna (p. 103); l’aveva perciato poco a poco (p. 103); caronfolosa fronte pensatrice (p. 115); alle volte l’autore viene in soccorso al lettore per mezzo di glosse che facilitano la comprensione del dialetto: a forza di nfungàri, cioè di affondare le mani nella pasta, dovevamo farla assorbire (p. 40); l’intercalare “Stìcchiu! Stìcchiu!…” parola che, a chiarimento dei non calabri, indicava il sesso della donna (p. 74); il marito era un vero “schugghiàtu”, cioè castrato (p. 118), ecc.; frequenti sono anche le inserzioni di stampo paremiologico: Chi quando lu fundu pari, non c’esti cchiù nenti i fari!; Cu peli figli si ‘mmazza / morirà sutta a ‘na mazza, ecc.
  2. b) la continua sperimentazione linguistica e il gusto spiccato per la ricerca lessicale: possiamo a buon diritto far nostro l’appellativo di ‘meccanico delle parole’, che al nostro autore ha attribuito Claudio Cavaliere in una recensione apparsa sul Corriere della Calabria; ancor meglio calzerebbe, tuttavia, quello di vero e proprio ‘artigiano delle parole’, che restituisce l’idea di un gusto per la lingua che non è semplicemente quello del compulsatore di dizionari, bensì quello del fine studioso e amante delle lingue, antiche e moderne. Assistiamo, così, all’introduzione di termini provenienti da molti campi diversi, alcuni dei quali molto vicini all’esperienza quotidiana dell’autore: i) giurisprudenza: la decisione sul quesito peritale (p. 15); avrei proposto che la controversia si estinguesse con non luogo a procedere (p. 19); l’abigeato era il reato più diffuso (p. 68); ii) scienze: asintotico anonimato della vecchiaia (p. 74); atrabiliosa reprimenda (p. 106: lessico ippocratico); disturbi cocleari (p. 108) iii) lessico mafioso: pungiuto (p. 8); iv) lessico della filologia: archetipo (p. 62), interpolavano il padre Dante facendogli dire che l’Italia era serva degli americani (p. 110); v) termini dell’antica tradizione poetica italiana: Peppareddhu abentava solo quando parlava con lei dalla finestra (p. 100: < abento ‘riposo, pace’, adattamento toscano di antica voce siciliana, che rimanda ai versi di Cielo d’Alcamo: Per te non ajo abento notte e dia); vi) originalissime perifrasi dotte, introdotte in chiave ironica e derivate soprattutto dal campo storico-filosofico: allievi di Clio ‘storici’(p. 14), esemplare omeomerico ‘pinolo’ (con metaforica allusione alle ‘omeomerie’ del filosofo greco Anassagora: p. 27); effluvi oculari ‘lacrime’ (p. 61); sceglieva il suo obiettivo agiologico ‘santo oggetto di imprecazione’ (p. 79); un capolavoro di ironia si legge, poi, nella perifrasi adottata per designare il gesto apotropaico della “grattata” vòlta ad allontanare le lucrose mire di un impresario di pompe funebri (Anna […] proponeva scherzosamente di rappresentare sul piano cartesiano quel gesto del padre con una curva asintotica perfetta: il minimo rivolto alla linea delle ordinarie, sulla quale era rappresentata la distanza del cassamortaro dal grattante, e i massimi sull’ascissa a significare l’intensità iniziale della grattata, la sua decrescenza all’avvicinarsi del monattone e l’impennarsi successivo al suo allontanamento: p. 104).
  3. c) i forestierismi (soprattutto germanismi), anch’essi impiegati in chiave puntualmente ironica: Zi Leu…era un tombeur di pigne (p. 27); il paragrafo dedicato alla formazione del protagonista presso la casa di Gianni è intitolato, con termine tedesco, Ausbildung (p. 53); multiforme ingegno nei giochi delle carte napoletane, stuppa e calabresella über alles (p. 75); target (p. 80), leasing: in paese nessuno conosceva quel contratto e tutti facevano ironia dicendo che Pagghiazzu si procurava le automobili con la ‘lisi’, che era poi l’ampelodèsma con cui i contadini fabbricavano dei rozzi cordami (p. 81); dopo la digressione su Trùscia junior, all’ ”UrTruscia” dobbiamo tornare (p. 90); funzionali allo spirito comico sono le battute in calabro-tedesco di Ciccio il tedesco, personaggio la cui triste sorte è quella di risultare incomprensibile, al medesimo tempo, tanto ai tedeschi (a Osnabruck dicevano di non comprenderlo perché parlava italiano) quanto agli italiani (perché parlava calabrese), e perfino ai suoi compaesani calabresi (perché parlava tedesco: eu taliànu sugnu! Al cento per cento…io ferstande chi tu si comunista e tifi per l’Urse. Ja, dasistgute, cazzu! Ma che tifi pe la Germania, sciaissaufdicchi… No pozzu deeeeenken das! No pozzu!.: pp. 111-112), ecc;
  4. d) il latino e i latinismi: corampopulo (p. 8); l’apertura erga omnes della casa (p. 54); casus belli (p. 68); l’automotricità dell’eques (p. 54); la senectus che, come diceva il filosofo, quando è avanzata, di tutti i mali è sicuramente il peggiore (p. 74;) sursum corda (p. 90); era disposto a soddisfarne qualsiasi petitum (p. 124); gli erotici interna corporis della moglie (p. 126); la sua “vocatio ad rotam” (p. 127); appellativo liminare (p. 18), gli imbarazzati vettori (p. 54); pulsante ‘che spinge (una carrozzella)’ (p. 55); tale era il nome del germano gerarca (p. 68)/germano fuggitivo (p. 72); proventi delle prime violenti ablazioni ‘rapine’ (p. 80); vaniloquio antiprandiale (p. 108); più lui concionava … (p. 96); coniugio (p. 102); “Sì!” Cachinnava qualcuno di mente poco plotinica (p. 115), ecc.;
  5. e) i grecismi: idromachia (p. 15), cronosofie, cenobio (p. 55); contro-nemesi (p. 76); comparazione oropotamica (p. 109); con fortissima istanza ironica, al fine di descrivere un rapporto omosessuale, in un passo come il seguente: era stato il suo andreionne, chiuso a riccio senza dar alcun segno di vita, a mandare all’aria il sinallagma (p. 75); ecc.;
  6. f) i neologismi: mezzosopranica domanda di mia nonna “Cu è?” (p. 33); senechiàvano fino all’esasperazione i mariti (p. 57)/il quotidiano senecheggiare della consorte (p. 80); billiballare (di derivazione dialettale < billiballi ‘ballo sfrenato’); semaforeggiava (p. 117); veronicando (p. 117), ecc.

In un’opera che attinge, come visto, a così tante suggestioni linguistiche e letterarie, non possono mancare, infine, alcuni richiami danteschi, collocati sempre sul binario di un’ironia manifesta e talvolta dissacrante: così, i traditori del partito meriterebbero, agli occhi di Cola Ieropoli, un decimo cerchio dantesco nel buco del culo dell’inferno […] appena oltre Antenora (p. 7); una grande e bella foto tipo tessera di Gianni ritratto dalla cintola in su, come Dante aveva visto Farinata nel canto decimo dell’Inferno (p. 50); quel corpo umiliato e offeso, se solo avesse potuto sollevarsi dal suo avello come Farinata degli Uberti di fronte a Dante […] (p. 106).

Nel concludere la nostra breve rassegna, non possiamo che ribadire come l’uso sapiente di tutti i principali registri linguistici contribuisca alla creazione di un prodotto letterario di notevole maturità e sperimentazione: nel suggestivo mélange che ne deriva, il dialetto funge da collante che compatta e rinvigorisce la lingua del narratore, senza compromettere la leggibilità dei racconti.

Standard
Libri

La tripodazione di Colaierofanopoli

CatturaCola Ierofani che mostrava il “sacro” delle vite novecentesche nel 2014 diventa, nel gurgite vasto della ricostruzione immaginativa, rammemorativa e antropologica Cola Ieropoli, sintesi letteraria e microstorica di un processo di vicinanza al mondo-paese e al mondo-città. Sembra   “Il catalogo della vita di Gianni”, che trova in Cola Ieropoli un importante elemento di mediazione, la continuazione (prosciugata, selettiva, ulteriormente razionalizzata nei personaggi e negli stili ) di Cola Ierofani, fantasmagorico effetto moltiplicatore di volti, realtà, passioni, ragioni, luoghi, contraddizioni, speranze, fantasie in un secolo breve e profondo; ma ne sembra anche la fase storicamente e sentimentalmente preparatoria, documenti di ricerca, motivati impulsi alla sistemazione nelle maglie della memoria. Ma, più attendibilmente, “Il catalogo…” si pone come cartina di tornasole, come sintesi che è in grado,  cannocchiale usato in un senso e nell’altro, di ingrandire il piccolo e rimpicciolire nitidamente il grande, con al centro il paese, la dimensione umana dell’urbano, la microstoria dei micromondi, il locale che richiama rispecchia riplasma il globale. E lo fa con registri linguistici sempre più consapevoli, collaudati, smaliziati che fanno tutt’uno con la multiforme vivacità di azioni e agenti.

Nel calderone dei nostri ricordi… tutte risultavano accomunate dall’entropia, dalla loro irreversibile tendenza a confondersi e a scomparire dentro il caos o, per usare un’efficace espressione biblica, a ritornare nella polvere delle origini. I ricordi e i racconti della vita di Cola avevano smosso involontariamente vite coeve e parallele, vite dei suoi, in parte anche miei, compagni di strada e di ventura (…). La nostra capacità di stesura si è rivelata assolutamente inadeguata. Non un romanzo di formazione dunque ma solo raffazzonati grumi narrativi sconnessi.”(p. 11)  “L’oblio annebbierà la nostra vicenda umana e, nel giro di una o due generazioni, nessuno ricorderà chi eravamo, da dove siamo venuti e come siamo vissuti. Parleranno dei politici di rilevanza nazionale, dell’emigrazione, della Cassa  per il Mezzogiorno, della ‘ndrangheta. Ma nessuno si ricorderà di Cola Ieropoli e del vostro contafiabe“ (p. 12).

Dal Proemium iocosum zampillano 4 racconti ricognitivi e segnaletici  (Controversia peripolana – Vecchi – Fuga – Pani di casa) che sfociano nel delta munificamente ramificato del “Catalogo della casa di Gianni”, popolato delle ricche filiazioni di personaggi, situazioni, caratterizzazioni, motivazioni, rappresentazioni – da  Cacatina di mosca a Maestro di ballo attraverso  Ausbildung Cronosofie Polifunzioni Perdizioni Pertica Maru don Filippo Mutilati Murcu Pagghiazzu Pedi i zoppa  Trusceide Pontefici e passatori Olè -.

“Cola Ierofani” era un romanzo di formazione e “Il catalogo della casa di Gianni” utilizza solo alcuni raffazzonati grumi narrativi? Oppure, pur apparendo in tempi sfalsati e in modalità apparentemente tradizionali (racconti calabri), ne costituisce non – come a prima vista si potrebbe ritenere – il presupposto ispirativo e documentativo, ma l’ulteriore elaborazione, la raffinata partenogenesi letteraria, sentimentale, microstorica. Come si verrà dicendo in seguito a proposito del modello linguistico, anche qui la struttura del romanzo appare in fieri, si fa nel tentativo sostanzialmente fruttuoso di accostare, far interagire, infine  integrare ambienti, personalità, situazioni, motivazioni, rappresentazioni, strutture e grane linguistiche. La paratassi delle specificità  e dei particolarismi diventa sintassi di vite, sentimenti, ragioni, mondi locali

In funzione globale. Romanzo di ri-formazione.

Fuoriuscendo dal labirinto affabulatorio (p. 28), un continente di sentimenti e una galassia di emozioni (p. 40)  hanno modo di esprimersi e palesarsi nei racconti, nelle descrizioni di atti, di realtà e di foto (documenti spesso richiamati non solo come folgorazione di realtà, ma anche come metodo  di descrizione prensile, appunto di catalogazione del farsi e disfarsi delle cose e delle vite), nell’interminabile drammaturgia della calabresella (p. 76) e non solo o del teatro telecronacato (p. 42). Meravigliosa questa arte del divagare (p. 76) che non perde di vista i punti nodali, dolenti e/o ridenti o irridenti. “Acqua di fonte per chi avesse sete di conoscere le vicende di uomini che, dietro l’asintotico anonimato della vecchiaia, celavano esperienze giovanili dalle tragiche cuspidi ormai decantate dal tempo e mitizzate nella memoria locale”(p. 76). E il narratore, puparo e demiurgo, muove, lucido e infervorato, qua e là commosso, ironico, sarcastico, tendenzialmente esaustivo, i fili delle realtà narrate e delle vite macinate come farina di pane, col garbo, il sapiente mestiere  e la cura del regista, come attestano anche di tanto in tanto precisazioni e postille: per amor di completezza (p. 19); ma dopo la digressione, dobbiamo tornare… (p. 92); l’ultimo frequentatore di cui voglio narrarvi (p.122); direbbe il lettore (p. 125).

Cola Ieropoli è vicino al paese, vicino alla città. Il paese era stato Itaca di tante piccole iliadi e altrettanto piccole odissee (p. 33). I personaggi sono topoi non solo della microepica della comunità peripolana. Emblematico e significativo il racconto “Pani di casa” (pp. 39-46) che comincia con l’immortalare le foto del nonno Fermusignu che  “in mezzo a tanti compaesani malvestiti e palesemente denutriti, sollevava un cartellone di protesta rivendicante la costruzione di casi per i crischiani, no pagghiàra! (p. 39) e della mamma di Cola: ”Il viso spuntava da un cappotto nero, chiuso sotto il lungo collo modiglianesco da un bottone a forma di conchiglia. Osservava l’obiettivo un po’ di traverso, quasi di tre quarti. L’orecchio destro non si vedeva per nulla. I capelli erano neri, raccolti a tuppo dietro la nuca. Una punta di venere, perfettamente perpendicolare alla linea del naso, della bocca e del mento, congiungeva i due archi rampanti della capigliatura stirata all’indietro; archi che si allargavano e discendevano verso le orecchie formando una specie di cornice, simile a due mezzelune congiunte, che divideva simmetricamente a metà la fronte spaziosa. Le sopracciglia, a forma di semiellissi allargate verso i fuochi, delimitavano la fronte verso il basso e facevano la guardia a due occhi neri velati da una profonda malinconia. Alla base del naso due piccole increspature anch’esse discendenti, preannuncio di rughe poi destinate a non compiersi, facevano risaltare la calotta delle guance. Un sorriso esaltava la nivea dentatura dell’arcata superiore, l’unica che si vedesse, e faceva convergere verso l’alto gli angoli della bocca“. (p. 40).  Si diffonde poi in una incalzante drammaturgia di “fari lu pani”, in cui movimenti, atti, tempi, sentimenti sono cadenzati con affettuosa, insindacabile precisione di rito e minuetto, integrando battute e chiose in italiano e in un teatralissimo dialetto calabrese: “Cazzu nonna! insomma,s’avi a ‘nfungari o non s’avi? Impastàti,  impastàti e dati u culu” (p. 43). ”Erano le guastelle che io e Cola non mangiavamo da una vita. Erano più saporite della  “manna chi cala d’u cielu” “Lei scostava il lenzuolo e, affondando prima una mano poi l’altra sotto ogni pane, lo sollevava con la delicatezza di una puerpera che dovesse prendere in braccio un neonato dal collo non ancora ben fermo” (p. 44). “E rimase lì, impalata come un ussaro, a sgagliare ogni tanto la placa e a richiuderla dopo aver controllato lo stato della cottura”. “Mamma mia ch’esti bellu, za Nina!” s’era fatto scappare di bocca Cola quando aveva visto il pane che si era sollevato” “E bellu u cazzu, Colinu! Ancora nci voli! Stati zittu chi mu docchi, santa Madonna!” aveva imprecato per scaramanzia. Poi, a cottura ultimata, si era fatta fotografare da Cola a lato della bocca del forno, con dentro il miracolo dei pani alti e colorati d’oro” (p. 45). “In una delle foto fatta e regalata da Cola, Milissina è in posa davanti al forno. La praca è di lato e si vedono i pani gonfi e allineati all’interno. Ha il viso rasserenato dalla certezza che il malocchio non ha colpito. Un ramo di pero estirpato dopo la sua morte, con le sue foglie verdi e con qualche frutto giallo, fa da quinta alla parte destra del capo. La pala è dietro di lei, accostata al piano di appoggio antistante la bocca del forno. Una cullura di pane è poggiata a fianco della pala. Il fazzoletto è sempre legato dietro la nuca ma i capi le scendono sul petto da una parte. Ha gli occhi grandi e sgranati. Una sorta di consumata malinconia traspare dalla bocca chiusa in un sorriso mancato” (p. 46).

Un teatro di vita in cui fermentano la esemplarità del documento storico, l’interesse antropologico, la vivezza del dato memoriale, la profondità ancestrale del sentimento del vivere e del durare, il profumo dolcemente penetrante del pane, la sobria ricchezza della cultura contadina.

    

Come qua e là si è avuto modo di anticipare e notificare con riferimenti e prelievi testuali itineranti, variegatissimi e pregevoli risultano gli aspetti e le risorse del testo. L’autore, sontuosamente maturato da forti e ricche esperienze di vita, di professioni, di studi, di lettura e di scrittura, padroneggia con grande sicurezza gli strumenti linguistici, varia e catalizza  i registri, trova soluzioni espressive e comunicative funzionali, mette a frutto, personalizzandoli, modelli ed imprinting, sviluppa con autonomia ed originalità le fasi descrittive, narrative, documentaristiche e critiche. La ricerca e la sintesi linguistica non è mai fine a se stessa, ma funzionale a caratterizzare con piglio e maestria situazioni, ambienti, personaggi: “Nel generale fluire delle pozioni e nel variegato funzionamento mascellare, porgeva la chitarra a Ciccio… (p. 63);

“Daaammi Cccccà Carmeeeelèddu “aveva sibilato il Palazzitanu “Ca, si no eeeerunu cadùtu, li Creuzzi non si l’èeeerunu passata liscia!” (p. 75). “Sollevava i covoni e li ficcava con forza nella bocca della macchina che emetteva sordi muggiti per il carico eccessivo. Poi, a triturazione compiuta, la trebbiatrice emetteva un rumore secco, come di una scorreggia che liberasse lo stomaco saturato e rigonfio di gas della digestione” (p. 80). “Che florilegio ragazzi: le coordinate culturali del bestemmiatore erano bibliche (il serpente), romanze e carolinge (“magonzese “ era chiaro anche se refusico riferimento al traditore di Roncisvalle), coraniche a arabiche (canimortu e saracinu), veterinarie (parassita) e vagamente regionalistiche (bucaiolo e figghiu di r…); scannacrapi e nghiuttimuschi  erano invece espressioni ascrivibili al colorito lessico dell’ethnos indigeno” (p. 81).

Puntuali, espressive, storicizzanti le descrizioni: “Quando ne aveva in mano un mazzo non sapeva resistere al desiderio di manipolazione: le dimezzava, le piegava sul dorso facendo pressione con gli indici  e i pollici delle mani e poi accostava gli spigoli delle due metà. Le carte emettevano una musica sfricoleggiante e si incastravano l’una nell’altra sotto lo sguardo ammirato degli astanti” (p. 87).

“Anna che di calcolo infinitesimale si intendeva proponeva scherzosamente di rappresentare sul piano cartesiano quel gesto del padre con una curva asintotica perfetta: il minimo rivolto alla linea delle ordinarie sulla  quale era rappresentata  la distanza del cassamortaro dal grattante, e i massimi sull’ascissa a significare l’intensità iniziale della grattata, la sua decrescenza all’avvicinarsi del monattone e l’impennarsi successivo al suo allontanamento. Una accelerazione apotropaica direttamente proporzionale al quadrato della distanza media tra pindacciato e  pindacciante (p. 106).

“Ogni tanto erano loro i morti, che uscivano dalle tombe di notte e scendevano fino ad essa per scrutare le stradine irregolari del paese vecchio nonché le case, abbarbicate sul pendio da secoli e ormai in procinto di ruinare. Cercavano, con i loro occhi un po’ offuscati, parenti e discendenti che, anche nel vestire oltre che nei pensieri erano diventati per loro irriconoscibili (p. 107).

“Si vestivano di nero, quelle donne: sognavano i figli morti nella freschezza dei loro vent’anni oppure, laceri e feriti nei deserti di fango, mentre chiedevano l’elemosina di un bicchiere d’acqua o d’un tozzo di pane; e ripetevano fino alla follia che avrebbero preferito elemosinare loro, di casa in casa, e prendere “ogni porta una maschiata”, cioè un ceffone, pur di poter liberare gli sventurati figli del malodestino che avevano passato. Le più fragili trasformavano il loro desiderio in allucinazione. Ritrovavano il figlio morto in qualsiasi giovane, parente o amico, che ne ricalcava qualche vaga rassomiglianza o, altre volte, si inventavano un’ombra con cui dialogare, di nascosto dagli altri e talvolta in loro presenza (p. 109).

“Si diceva in giro che Cecio Sibilla fosse un gran mediatore , che sapesse come sbrogliare le situazioni difficili che erano maturate nei vari locali dell’associazione, che gli toccasse spesso fare per gli affiliati lo speaker delle enigmatiche e nondimeno chiare decisioni che il crimine ristretto prendeva in ordine alle vicende più controverse che si trovava a dipanare. Insomma era famoso per la favella sciolta, per il parlare allusivo e metaforico, per la gestualità contenuta che accompagnava le sue perorazioni, per il modo in cui sussumeva ogni caso concreto che gli veniva sottoposto dai capintesa a una delle regole sociali del codice che lui e tutti gli affiliati tenevano serbato nel loro cuore senza bisogno di farlo stampare dalla casa editrice Giuffrè. (p. 123).

“Quando faceva l’amore Brizzida aveva cura di non porsi mai  nella “posizione del frate”, da cui difficilmente avrebbe potuto sfuggire alle puntate ingravidanti del marito; preferiva il more ferarum dal quale era più facile sottrarsi  quando sentiva il tremolio orgasmico del partner che preannunciava l’imminente eruzione spermatica. E si sfilava, lasciandolo a mugolare e a disperdere il ben di Dio nelle fogge che più gli aggradavano, purché la dispersione avvenisse lontano un palmo dal pericolo di reiterazione della filiazione. (p. 125)”.

E come degna, magnifica conclusione, la descrizione capillare e vibrante del “sonu” (pp. 127 – 131). Parlata compiuta e melliflua che incantava e magnetizzava l’uditorio (p. 97)

Periodare secco, franto dalla punteggiatura principale e frastagliato, attaccato alle cose e ai  sentimenti, paratassi che tenta e sviluppa una propria sintassi perspicua ed espressiva, significativa e rivelatrice di ambienti e caratteri. Un calcolato fiume in piena con le sue distese, gorgoglii, misure, rapide, correnti, sonorità, colori, capacità di abbeverare, nutrire, rinfrescare, pulire. Parole che comunicano e trascinano, tradunt e tradiscono storie di parole, contributi alla storia di luoghi, persone, problemi, contraddizioni, vie d’uscita e di fuga, funzioni di compensazione. Nella ricchissima grana espositiva ed espressiva si rimescola  ed affina un crogiuolo, un risolto cimento di ricerca, messa a punto, calibratura di tipo semantico e lessicale che trova nella ricorrenza di forme, espressioni, evidenziazioni, cuciture sentimentali affidate alle matrici calabresi elementi spiccati di personalizzazione e storicizzazione. Nel tourbillon espressivo e denotativo prende rilievo talvolta la immaginifica ricerca lessicale, l’utilizzo di prestiti linguistici di varia provenienza  disciplinare e settoriale, la combinazione di linguaggi in funzione  della caratterizzazione  di personaggi e situazioni. Valgano come esempi e richiami curiosi e puntuali una serie di citazioni a pioggia: incroscavano tra di loro (9), brocciatella (10), rigghioccolo di abitazioni (18), guallera (26), rotuliato (29), coglioneggiature (30), covoni di grano ‘ntimognati  intorno all’aia per la trebbiatura (33), un fantali azzurro, un casciuni di appoggio, colletto sostituito dalla pistagnina, la praca è di lato, una cullura di pane è poggiata a fianco della pala (46), sciacquabertuli (58), le forche caudine delle mogli che prima ‘llunchiavanu i ndranguli al messaggero e poi senechiavano fino all’esasperazione i mariti per la convocazione ricevuta (59); era stato il suo andreionne, chiuso a riccio senza dare alcun segno di vita, a mandare all’aria il sinallagma (77); bastasi 882); buttaneggiare (83); ampelodesma (83); “Si!” cachinnava qualcuno di mente poco plotinica dopo il naufragio del regime “E ora pàssanu d’a còppula d’u cazzu!” (117).

Un bellissimo libro, da leggere con piacere, da scandagliare nelle sue verità e  nei suoi misteri, da rimuginare e digerire  per una buona salute  culturale e civile.

Gianni…Piu

Maggio 2019

Standard