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“Ridere”

di Gabriele Ottaviani

All’improvviso si voltò verso di me, e mi guardò senza dire una parola…

Ridere, Lucio Aimasso, CasaSirio. Vivere è un conto, sopravvivere un altro: per la seconda opzione non serve un grande sforzo, per prendere in mano la propria esistenza, invece, bisogna guardarsi dentro, affrontare la realtà, superare paure, ostacoli, debolezze. Vittorio era un comico, ma è miseramente fallito, e Rebecca invece, nonostante non sia che una bambina, ha già scelto con attenzione le parole da non dire, perché la logora un’ansia cupa e costante: le loro solitudini non possono non incontrarsi, e salvarsi. Con delicatezza Lucio Aimasso emoziona, commuove e induce a meditare, con un’opera travolgente e intensissima, bellissima sin dalla copertina.

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“Un avanzo di troppi risvegli”

di Gabriele Ottaviani

E fu così che…

Un avanzo di troppi risvegli, Valentina Morelli, CasaSirio. Poetico sin dal titolo e dalla copertina, il volume di Valentina Morelli, voce narrativa sensibile e piena, ricca di sfaccettature melodiose, racconta di due vite che paiono inestricabilmente connesse e al tempo stesso comunque costrette a rimanere separate da un diaframma, pur lieve ma impenetrabile: Saro sogna di fuggire da quella Catania che gli leva il fiato, e pensa di farlo attraverso lo studio, strumento d’elevazione sociale in cui s’immerge anima e corpo come un pescatore di perle fa nel mare anelando d’imbattersi in un tesoro che imprima alla sua esistenza una svolta decisiva. Saro però il suo tesoro ce l’ha già, o perlomeno così crede: Agata, quella ragazza che ama più di quanto non voglia bene a sé. Ma… Maestoso.

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“La notte comincia piano”

7107XkwjDqL._AC_UL436_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La griglia bloccava la caviglia di Attilio. Nella caduta il suo piede destro si era incastrato nello spazio tra una saldatura e l’altra e lui non poteva liberarsi più. Non riusciva a ricordare da quanto tempo si trovava bloccato nella vasca di sedimentazione, aveva solo l’orribile coscienza che si trattasse di ore. Il livello delle acque reflue era molto più basso quando aveva preso la scorciatoia sul ponticello metallico che tagliava in due il bacino. Nonostante le assi scivolose, era riuscito ad arrivare incolume ben oltre la metà della passatoia, poi, accecato dal sole della tarda mattina di quella giornata fredda ma tersa, aveva perso l’equilibrio. Forse aveva avuto un giramento di testa, oppure si era semplicemente distratto, fatto sta che in un attimo si era ritrovato catapultato in acqua. La valigetta che stava portando al magazzino galleggiava a molti metri di distanza da lui, impossibile da raggiungere.

La notte comincia piano, Daniele Titta, CasaSirio. C’è chi non può parlare mai del nonno e si ritrova con la lingua gonfia e secca come una lumaca sconvolto dalla rassegnazione della madre mentre le tempie pulsano e dolgono e il Mietitore falcia vittime; il giorno del suo tredicesimo compleanno Patrizio invece scopre una sirena. Attilio è bloccato mentre le acque salgono e il macinino di Piero sobbalza per le buche del sentiero che percorre, ma su un giornale compare un’inserzione che parla di una coppia benestante, cultura universitaria, cerca ragazza max ventidue anni per vacanza in barca e giocare insieme. Rispondere inviando foto a figura intera (no ginecologica) e allegare numero di cellulare per contatto diretto. Annuncio serio e reale, solo interessate e no perditempo, e Caterina, mossasi a stento attraverso la nuvola nera della depressione e il potere lenitivo delle droghe dopo il diploma, troppo intelligente perché le basti non essere triste, bensì desiderosa di essere felice, e ormai talmente abituata a stare completamente nuda sin da quando sono salpati da Anzio che dal canto suo non ricorda nemmeno dove abbia stipato i pochi vestiti, evidentemente, sventurata?, ha risposto. C’è chi vive a Monteverde nell’appartamento affittatogli da un’amica scenografa condividendo il terrazzo con un signore settantenne che suona il sax e che forse concima con troppi fondi di caffè le piante dei suoi vasi, che infatti boccheggiano, e chi fa scherzi citofonici alla Montagnola per ammazzare la noia dei lunghi pomeriggi trascorsi stravaccati sulle scalette del deposito dell’Ama: infine, qualcuno rievoca la fabbrica di pupazzi dove ha lavorato… Tra Bildungsroman, commedia nera e non solo, Il mare di spighe, La sirena, Un problema di tempo, Benedici i resti, Quei pomeriggi a Villa Pamphilj, Guardando il futuro con ottimismo e, appunto, La notte comincia piano sono sette storie magnifiche che raccontano l’alterità fragile. Imperdibili.

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“Sul fondo sta Berlino”

unnamed (1)di Gabriele Ottaviani

In questa deriva emozionale Sophie manteneva la barra su un solo, imprescindibile punto cardinale: mai per nessuna ragione al mondo avrebbe abortito. Pensò all’uomo che amava, così bello, sicuro di sé e sfuggente. Non riusciva mai a sbirciare nei suoi pensieri, a capire cosa gli passasse per la testa. Proprio lei, abituata fin da ragazzina a far sbavare uomini trasparenti come lastre di vetro, uomini con cervelli elementari e pensieri come scritte al neon sulla fronte: “ti voglio scopare prima di adesso”, “riducimi a un rottame”, “dai un senso alla mia vita”, “la metà del mio regno per un pompino” e così via. Lui, invece, era completamente opaco, e questa sua impenetrabilità ostentata l’aveva trascinata in un amore costellato di cliché. Lei stagista, lui project manager nella stessa azienda; lei giovanissima e attraente, lui quarantenne brizzolato con moglie e figli; lei una francese naïf e sognante, lui un italiano taciturno e con i piedi per terra. Quando Sophie gli aveva detto di essere incinta, lui aveva reagito in un primo momento con freddezza e distacco, poi con grande tenerezza e comprensione. Repulsione, accoglienza, quale tra le due reazioni era stata la più istintiva, la più vera? Ogni volta che prendeva quel coso bianco in mano, le veniva voglia di chiamarlo; ma temeva di stargli troppo addosso. Un rapporto, soprattutto agli inizi, è come una partita a scacchi: tutte le mosse vanno soppesate e ragionate, e quando un pezzo si muove è perché nella testa il giocatore si è già prefigurato un ipotetico arabesco di pro e contro. L’unica cosa da non fare mai e poi mai è agire d’istinto. Però. Però c’era da considerare che lui stava per andare a Berlino e non le aveva né telefonato né scritto un messaggio per salutarla. In questi casi che si fa: si resiste aspettando, o si cede chiamando?

Sul fondo sta Berlino, Sirio Lubreto, CasaSirio. Felice lo è di nome ma non di fatto. È un manager. Non è vecchio ma non è nemmeno giovane. Ha una moglie con cui non parla. Due figli che sono praticamente due estranei, fra di loro e nei suoi confronti. Ha messo incinta la giovane stagista francese che collabora con lui. Ha un vecchio amico a Berlino, la città nella quale ha studiato, che lo chiama e che rappresenta per lui l’occasione di svolta, il punto di partenza, il cambio di rotta, l’ancora di salvataggio. Prende l’aereo e si prepara a lasciarsi alle spalle i problemi: che però, com’è noto, sono piuttosto restii a farsi ignorare, anche perché gli interessi del professionista entrano in breve tempo in conflitto con quelli di altri personaggi, che sullo sfondo della medesima e magnifica città, raccontata con credibilità e passione da un autore che la conosce a menadito e che costruisce una trama avvincente, vivono, temono, sperano, sbagliano, fingono, fuggono. Da leggere.

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“L’ultima volta”

Doug Johnestone_L'ultima volta_CasaSirio Editoredi Gabriele Ottaviani

Un estraneo che frugava in casa sua, in mezzo alle sue cose, era una delle cose più invasive che Mark avesse provato. Quasi un abuso. A Lauren non sarebbe piaciuto. Era raro avessero ospiti a casa nell’ultimo periodo. La nascita di Nathan aveva fatto appassire le possibilità di socializzare, e quello che aveva passato Lauren subito dopo era stato il colpo di grazia. In più, la maggior parte dei loro amici si era trasferita altrove. Ognuno preso dalla propria vita, ognuno intento a nascondersi nella sua conchiglia in un luogo protetto dal mondo esterno. Adesso invece c’era un’agente di polizia, una donna che aveva superato da poco i vent’anni, che passava da una stanza all’altra; Mark provò a osservare l’appartamento attraverso i suoi occhi, i punti consunti della moquette dell’ingresso, le nuvole di polvere sotto il letto di Nathan, le macchie di cibo bruciato sui fornelli. Era come mettere le loro vite in mostra.

L’ultima volta, Doug Johnstone, CasaSirio. Traduzione di Alessandra Brunetti. È scomparsa. Di nuovo. Lo aveva già fatto. Ma questa volta è diverso. Stavolta il figlio è grande. Quantomeno abbastanza per capire. Per rendersi conto. E infatti capisce, si rende conto. Percepisce chiaramente che è successo qualcosa. Sua madre se n’è andata. E nessuno pare prendere provvedimenti immediati. Nessuno tranne suo padre. Perché la polizia gli dice di aspettare. Ma lui sa che invece il tempo corre. Fugge. Scappa. Vola via. Non torna indietro. Non inverte il flusso, la corrente. Non cambia direzione. Una volta passato non torna, per quante macerie possa lasciare dietro di sé. E allora Mark inizia la sua forsennata e terrorizzata ricerca. Per lei. Per sé. Per suo figlio. Per loro. Thriller e insieme vibrante e straziante meditazione sull’amore e sulla perdita, è da non perdere.

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“Lavoro sporco”

Copertina MuchoMojo_Lavoro Sporcodi Gabriele Ottaviani

Susie Dross si è già ricomposta quando metto la scatola laccata di fazzoletti sul solido tavolino di quercia davanti a lei. La solidità dei mobili è un altro motivo per cui non ho ridecorato la stanza. Arrivi ad apprezzare un mobile ben fatto dopo che hai distrutto un paio di pezzi schifosi dell’Ikea solo perché ti ci eri seduto sopra per farti fare un pompino. Sembra essere tornata completamente alla sua solita severità, e io non vedo l’ora di farla finita. – Signor Wainscot, mio marito merita il meglio. Sicuro, una commemorazione da martire, è quello che penso. – E spero che lei non prenda in considerazione la sua misera pensione quando mi darà indicazioni per la cerimonia – si vede che è esaltata dall’opportunità di soffrire in modo nobile. – Non c’è bisogno di preoccuparsi per una cosa del genere. Sono sicura che Dio ha avuto un motivo se ha permesso a mio marito di lasciarmi giusto con il necessario per coprire le spese della cerimonia. È che proprio non può resistere alla tentazione di tirargli delle frecciate, anche mentre è in lutto. Non ha mai guadagnato abbastanza soldi, ecco quello che dovrei sentire, quindi sono perfettamente in grado di badare a me stessa anche senza di lui, come ho fatto per tutta la vita. La colpa è mia se ho sposato un uomo di così bassa qualità e carattere da non preoccuparsi nemmeno di badare a me, per poi andarsene lasciandomi senza nulla.

Lavoro sporco, Mucho Mojo Club, CasaSirio. Deaver, Harvey, Johnstone, Gardner, Smith, Meikle, Ayres e Howe, nelle magnifiche traduzioni di Seba Pezzani, Carlotta Spiga, Fernando Masullo, Alessandra Brunetti e Martino Ferrario. A cura di Martino Ferrario e Libreria Mucho Mojo. La crime fiction è un genere letterario formidabile, e come tutti i generi, così come in un tempo antico, soprattutto lungo le sacre sponde dell’Ellade, ha saputo essere per esempio l’elegia, di volta in volta, a seconda dei casi, funeraria, politica, amorosa e via discorrendo, è un contenitore per le più diverse tematiche, declinate in base alla sensibilità di ognuno, veicoli di profondi messaggi ricchi di sfaccettature. Il tema di questi otto racconti mozzafiato in cui si fanno strada, caratterizzati sin nel più minuto dettaglio, così come del resto ambienti, situazioni ed emozioni, serial killer, criminali  sulla via del pentimento, delinquenti in cerca di vendetta, lenoni traditi dalla memoria, becchini, pugili e molti altri ancora è quello da cui prende le mosse il titolo dell’antologia, quel lavoro sporco che qualcuno deve pur fare perché ha in sé i connotati della necessità, e senza il quale, come in un’eraclitiana unione dei contrari, non si potrebbe nemmeno definire ciò che invece sporco non è… Un’occasione, per tutti gli appassionati e non solo, per addentrarsi nei meandri della coscienza: da leggere.

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“Lamentation”

31ULX-FBmhL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Il Travel Centre era subito fuori la Turnpike, una delle vie più utilizzate dai trasportatori del New England meridionale che dovevano raggiungere il Canada. Era un po’ più dritta della I-93, e molto meno congestionata, cosa che la rendeva perfetta per chi doveva guidare per lunghe tratte. La Turnpike entrava di poco nei confini di Ashton, giusto un paio di curve a nord est. Il TC aveva una pessima reputazione e periodicamente si alzavano proteste perché venisse chiuso, ma dato che negli ultimi anni erano fallite parecchie fabbriche e stabilimenti, e che da solo rappresentava una delle maggiori entrate del Comune, ogni chiacchiera sulla sua chiusura si spegneva sul nascere. Molti sceglievano di ignorarne l’esistenza. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Il TC era il quartiere a luci rosse di Ashton, una sorta di lato oscuro della città. Il che poteva anche andare bene, finché la marmaglia se ne restava nascosta. Sinceramente, a chi può fregare qualcosa di un camionista che si fa fare un pompino da un tossico sdentato? Vivi e lascia vivere. Ma un omicidio, persino quello di un tossico di merda, era la scintilla in grado d’innescare una rivolta. La neve spazzata dalle strade era stata accumulata vicino ai lampioni, in mucchi alti due metri e mezzo, forse tre, in tutto e per tutto simili a gigantesche montagne di patate schiacciate.

Lamentation, Joe Clifford, CasaSirio, traduzione di Alessandra Brunetti.  C’è gente che non sa fare altro che lamentarsi. Perché così può giustificare le sue sconfitte, non andare a fondo del problema, accontentarsi, scaricare su altri le responsabilità che invece con ogni evidenza gli appartengono, cantarsi una monocorde e consolatoria elegia. Ma non è questo il caso. Anche se la vita di Jay Porter non sarebbe affatto dovuta andare così. Le premesse – e le promesse – erano ben altre. Era destinato a fare grandi cose e ad abbandonare Ashton e la bigia tristezza della provincia, assolutamente. Ma poi i genitori sono morti, la sua donna se n’è andata, suo fratello è diventato un tossico e ora è finanche scomparso e sembra davvero che si sia messo in guai serissimi e assai più grandi di lui. Ma Jay non ci crede. E non è disposto ad arrendersi. A lasciarsi andare. A far finta di niente. A voltarsi dall’altro lato. Perché ha ancora qualcosa da perdere. Qualcosa per cui lottare. Qualcosa per cui vivere… Brillante, travolgente, potente.

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“Grande Madre Acqua”

download.jpgdi Gabriele Ottaviani

L’orfanotrofio respirava appena, regnava una paura sconosciuta e terribile. La vita nell’orfanotrofio era diventata impossibile, e più il tempo passava, più faticavamo a sopportarla. L’unico posto in cui potevamo godere un poco del nostro tempo libero era il cortile, che già conoscete, e il sentiero che correva tutto intorno alle mura. Quest’ultimo, nonostante appartenesse di fatto alla pianta generale dell’orfanotrofio, era per noi parte integrante del muro. Era proprio qui, su questo fazzoletto di terra, che si riunivano quasi tutti i bambini. D’altronde questo era anche il luogo di caccia preferito dal Piccolo Padre, quello della caccia grossa, dove – come amava ripetere – le prede erano cotte prima ancora di essere catturate. Era là che facevamo gli affari migliori, chiudevamo i contratti, emettevamo i giudizi. Alcuni avevano persino progettato di far saltare il muro. Era là che si prendevano le decisioni importanti, quelle che poi avremmo applicato nella nostra vita vera. C’era un contrabbando sacro, si commerciava qualunque cosa, dal bottone all’ago. Negli ultimi tempi, l’articolo più ricercato era “La Vergine”. Si trattava di una piccola foto, di cui ignoravamo la provenienza, nella quale era raffigurata in diverse posizioni una donna molto attraente. Che io sia maledetto, era sesso puro, da far battere i denti. Bastava uno sguardo, un solo sguardo, perché le mani cercassero rapidamente le tasche. Guardando quella foto, anche noi topolini sollevavamo le nostre code. Che piacere guardare il sesso! C’era qualcosa di seducente e bellissimo in quella donna dal seno scoperto e voluttuoso. Era vero sesso, parola d’onore, e ancora oggi in molti si sfregherebbero le mani al solo pensiero. Cosa non fece il Piccolo Padre per scovare quella foto! Ci obbligò a vuotare ogni tasca, ci confiscò tutto quello che osavamo scambiarci, ma non riuscì mai ad arrivare alla Vergine. Schiumavano di rabbia, lui e tutta la Direzione, volevano trovarla a ogni costo. Ma la Vergine era qualcosa di troppo prezioso, di sacro, e dovevamo custodirla come la luce dei nostri occhi. Su questo eravamo tutti uniti, l’unica cosa davvero importante era che dovevamo proteggerla. Quante volte capitò che il Piccolo Padre arrivasse all’improvviso, dopo averci spiato invano. I bambini si rintanavano nei loro gusci non appena appariva, e il sesso così era salvo. Scompariva sotto terra. Poi la piccola conchiglia si riapriva e ciascuno se ne andava per la sua strada. Spesso ci incollavamo al muro e ci grattavamo la schiena come cani randagi. Che io sia maledetto, cosa non passava in quel momento nei nostri pensieri! Dov’era allora la nostra testolina? Non certo qui, appoggiata al muro… Era da qualche parte, lo giuro, fuori da quel dannato orfanotrofio.

Grande Madre Acqua, Živko Čingo, CasaSirio. Caso letterario in Francia, tradotto dal macedone, arriva finalmente in Italia grazie a Carolina Crespi e Jessica Puliero. Lem e Keïten sono due orfani vagabondi nella Jugoslavia di Tito. Accalappiati dalla strada come se si trattasse di veri e propri cani randagi, vivono in un ex manicomio che funge da brefotrofio e che è circondato da mura altissime che lo separano dal mondo, concentrando e amplificando tutto ciò che accade all’interno dei loro angusti confini, e che possono essere montalianamente perforate solo attraverso l’arte e la risata: solo così infatti si può vincere il terrore, coltivare il sogno e la speranza, ricongiungersi alla natura, alla Madre Acqua. Lirico e allegorico, nero eppure vitalissimo, è da non perdere per nessuna ragione al mondo.

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“Mucho Mojo Club”

piatto-di-copertina-web12-213x300.pngdi Gabriele Ottaviani

Julian puntò la pistola. Il ragazzo era ancora a una decina di metri. – Non puoi farcela! Continuò a caricare, il coltello alzato sopra la testa e un urlo primordiale che riempiva il corridoio. Julian premette il grilletto. Il proiettile lo colpì al polso portandogli via l’arma e buona parte della mano. Il ragazzo gridò e cadde in ginocchio premendosi il moncherino sanguinante contro il petto con l’unica mano che gli era rimasta, poi perse conoscenza. Julian si voltò, l’energumeno che aveva colpito per primo si mosse verso di lui. Gli puntò la .45 alla fronte e spostò lo sguardo su Lucy, ipnotizzata e ansante, la mano affondata tra le cosce. – Fallo – ansimò. Un’altra esplosione assordante e altro sangue, materia cerebrale e brandelli di cranio eruttarono sulla parete schizzando sul viso e sul collo di Julian. Fece un passo indietro e ammirò la carneficina. Un filo di fumo vorticò via. Abbassò la pistola lottando per trattenere una qualche forma di sanità mentale, qualche brandello di lucidità. C’è una libertà intossicante nella violenza. Fu solo allora che realizzò di stringere ancora il rosario nella mano libera. Osservò i grani, poi di nuovo Lucy, le mani che ancora lavoravano furiosamente tra le gambe. – Scopami, Julie. – Rivoglio Marie. – Non può venire da te – sbottò, la voce che si alternava tra il suo tono normale e uno più profondo, simile a un ringhio. – Sei tu che devi andare da lei. Il crocifisso oscillò lentamente, come un pendolo. – Fallo, allora. Il bianco dei suoi occhi divenne cremisi, il sangue sgocciolava lentamente sulle guance fino alle labbra ancora aperte in un sorriso odioso. I lamenti soffocati e le urla agonizzanti di quelli ancora nel negozio crebbero alle sue spalle, coprendo la profonda e tonante risata di Lucy. – L’hai appena fatto tu. Julian sbatté le palpebre, le orecchie che gli ronzavano ancora per l’esplosione dello sparo. Quando gli si schiarì la vista, i morti erano tutti lì, immobili come prima; Lucy però era tornata alla sua solita forma. O forse non era mai cambiata davvero. Forse Lucifero non lo fa mai.

Mucho Mojo Club – Racconti, CasaSirio. Traduzioni di Sergio Altieri, Alessandra Brunetti, Nicoletta Chinni e Stefano Galliani. A cura di Martino Ferrario e Libreria Mucho Mojo. Il Mucho Mojo Club, infatti, come viene riportato nel testo, è un club letterario creato da Mauro Falciani, libraio indipendente fiorentino e proprietario della già nominata libreria Mucho Mojo. L’iscrizione costa cinquanta euro all’anno, e questi soldi sono impiegati con un unico scopo, ossia per portare autori stranieri a Firenze per incontrare gli iscritti al club e realizzare  presentazioni di libri, corsi di scrittura, cene, bevute e via discorrendo, consentendo ai lettori di poter stare assieme agli scrittori. Autori come Blauner, Clifford, Connolly, Cook, Edgerton, Gifune, Iglesias, Johnson, Oswald, Willocks e Zeltserman, una compagine – non a caso sono undici: chi mettereste a centrocampo e chi in difesa? – strepitosa di autori di thriller. Emma Sue, Caccia continua, Jenny, Favori, Kitty, La fuga di Billy Micklehurst, Il borseggiatore, La tempesta, Lurleen, Il sangue dell’agnello, L’incertezza dell’oscurità: racconti uno più bello dell’altro, che descrivono con perizia formidabile e senza infingimenti o pruderie l’abisso dell’abiezione umana. Da non lasciarsi sfuggire per nessuna ragione al mondo.

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“La notte in cui suonò Sven Väth”

daa2593b08di Gabriele Ottaviani

Quella che si muove sopra di me da mezz’ora è la Zozza. Tutti la chiamano così ma il suo vero nome è Viviana ed è anche mia cugina, anche se l’ho scoperto per caso, quando già avevamo iniziato a rotolarci sotto le lenzuola di casa sua. Ha gli occhi chiusi, annuisce come se mi stesse dando ragione e intanto si impegna per non far scivolare fuori il mio uccello. Si muove strana, ondeggia e mugola. Sembra una bambola ubriaca. Le tette ballano su e giù, sono morbide, le strizzo come se volessi tastarne la consistenza e quando lo faccio lei guaisce ancora più forte. Lo fa sempre, come se avesse il mal di pancia. Muove la testa bionda e so che alla fine mi ritroverò con un pugno di suoi capelli, simili a fili di paglia, incollati al torace. All’inizio l’idea di essere cugini mi eccitava; le prime volte venivo subito e lei doveva aspettare che fossi pronto per ricominciare, ma adesso ho il problema opposto: dopo pochi minuti niente mi eccita più. I nostri movimenti si fanno sempre più annacquati e lenti, come se ci trovassimo in un sogno pieno di fango. Quando finiamo? – Fammi girare – mormora. Lascio che si sfili da sopra e che si metta a novanta di traverso sul letto a due piazze. Forse è già venuta, ma con la Zozza non lo capisco mai. A volte dice: “Mi fai godere”, ma non so se sia vero. Ci muoviamo all’unisono in avanti e indietro, come i pistoni di una strana macchina umana, sempre più concentrati sull’atto che sta diventando meccanico. Osservo il suo culo bianco aprirsi sempre di più. Mentre il sudore mi cola negli occhi, un raggio di sole filtra verso di noi e si va a posare proprio sul neo in rilievo che le divide le scapole a metà, come una chiazza di caffè in un mare di latte. Vorrei grattarlo via per vedere cosa succede. Il sangue colerebbe giù, lasciando una bella striscia rossa in tutto quel bianco. Invece le abbranco le braccia carnose lasciando segni con le dita. – Aaah, oggi sei una bestia – rantola. Quando la sento di nuovo gemere, mi limito a spingerle il viso verso il cuscino, continuando a tirare colpi con il bacino. Mi rendo conto con un pizzico di ansia che non riesco proprio a venire e che avrei solo voglia di sfilarlo e tornarmene a casa. Mi è già capitato altre volte e ho scoperto che mi eccito se penso di scoparmela insieme a qualcun altro, così immagino Denis che glielo mette in bocca ed è talmente reale che riesco a sfilarmi poco prima di eiaculare, quasi senza accorgermene. Poche gocce sulla sua schiena. Bianco su sfondo pallido. Con la Zozza non c’è poesia neanche negli orgasmi.

La notte in cui suonò Sven Väth, Lucio Aimasso, CasaSirio. Non è vero che i cosiddetti “ragazzi di oggi” sono aridi. Ignoranti. Materiali. Incapaci di sognare. Sono ragazzi come tutti. Come sempre sono stati. E come sempre saranno. Banalmente, si relazionano in modo ogni volta diverso con un mondo di volta in volta differente. Hanno tante cose, e soffrono la carenza di altre. E poi, in particolare, a quelli di questa generazione è stato scientemente rubato il futuro. Si trovano a brancolare in un buio profondo e gelido, oscillando tra la noia e l’autodistruzione, assordati dal loro stesso disperato urlo, dalla richiesta d’attenzione che rivolgono a una società che li ignora, che non ne ha cura, che non li sente. Non vuole sentirli. Finge di non sentirli, e tira avanti dritto per la sua strada. Federico ha sedici anni e appare senza speranza. Sa solo che non vuole essere come suo padre. Che gli sbatte la testa nel tavolo e gli dà del fallito. Lui, però, in realtà, ha delle aspirazioni. Sembra forte, ma è fragilissimo… Anche lo squallore in questo romanzo si tinge di accenti lirici, perché è umanissimo il ritratto di un insieme di personaggi bramosi di trovare il proprio posto nel mondo, di raggiungere la felicità. Straziante, chirurgico, metallico, lacerante, disturbante, esplosivo. Lucio Aimasso, al suo secondo romanzo, dopo una vita ricca di mestieri, esperienze e passioni, spiega la voce stentorea e policroma della sua narrativa dinnanzi al lettore, lo coinvolge e conquista.

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