di Gabriele Ottaviani
Amalia aveva due strade davanti a sé: arrendersi o lottare. Cedere, dare per terminato seduta stante il suo pellegrinaggio sulla Terra e lasciarsi andare, oppure radunare forze celate chissà dove e vivere per la figlia e nel ricordo del marito. Le erano arrivate le carte sbagliate: l’una peggio dell’altra. Eppure non potevano toccare sempre tutte a lei. Per quello non riusciva a capacitarsi del fatto che, dopo la morte del marito, fosse arrivata anche la malattia della figlia. Ci cavillava ogni volta che, seduta sul suo letto, la guardava dormire. Immersa nel sonno, aveva un’aria sana, felice; sembrava sul punto di svegliarsi e chiedere la colazione. Avevano rubato alla sua bambina i baci che non avrebbe mai dato e le giornate in spiaggia. Amalia smise di credere in Dio; fu un distacco graduale, seguito a lunghe riflessioni e infiniti discorsi con Lui. La domanda era sempre la stessa: «Perché?» La risposta, anche. «Che cosa Ti ho fatto? Da piccola facevo la brava, sono stata a scuola dalle suore, studiavo sempre, ho cominciato a lavorare alla pensione che ero giovanissima, sono arrivata vergine al matrimonio, andavo sempre a messa. Perché mi lasci senza niente, nemmeno una speranza, Ti prendi mio marito e riduci mia figlia a un’invalida? Che cosa Ti ho fatto? Guardala, così giovane, bella e delicata, condannata a restare per sempre tra queste quattro pareti, a morire prima di me… Non capisco perché mi metti alla prova in questo modo, non capisco il metro di giudizio che usi.» Alla fine, Amalia scelse di vivere, se non per se stessa, per la figlia. Cambiò la disposizione delle camere: quello che era il salone diventò la camera di Cristina, sempre colma di sole e di luce e addirittura di speranza. Comprò un letto nuovo, da principessa, tappezzò i muri di fiori e lei si sistemò nella piccola stanza accanto. Cristina aveva perso l’uso della parola da quattro anni; comunicava con la madre solo grazie agli occhi e a qualche cenno. Amalia però capiva ogni cosa, sapeva quando voleva restare sola, quando preferiva compagnia e quando aveva voglia di sentirla parlare, allora dalla cucina le diceva di aver incrociato Guillermo, il rappresentante del terzo piano, che la professoressa di francese aveva sempre più studenti o che al sesto di sinistra era arrivata una giovane coppia, due giornalisti televisivi. «Due giornalisti della televisione, amore, ci credi? Proprio in tivù, dove non fanno altro che gridare e litigare. E pensa, qualche giorno fa sono scesa con lui in ascensore e si è messo a canticchiare la canzone che ti piace tanto. Mi sa che mi sentono anche dal cortile. Penseranno che sono matta.» A volte, quando Cristina dormiva, Amalia crollava. Si rimetteva a sfogliare le sue guide di viaggio, ormai certa che non avrebbe mai visto i posti dove sapeva, al di là di ogni dubbio, che sarebbe stata felice.
L’anno senza estate, Carlos del Amor, Nord, traduzione di Patrizia Spinato. A quanto pare, con buona pace del riscaldamento globale, che è sempre più una tragedia planetaria di cui tutti dicono di occuparsi ma in realtà non lo fanno, non essendo disposti a sacrificare nemmeno in parte qualcuna delle inquinanti abitudini che ne connotano lo stile di vita, l’estate che deve arrivare sarà incredibilmente fredda e piovosa. Cachinni elevati al cielo da parte di commercianti e proprietari di stabilimenti, gioia più o meno sfrenata per uno stropicciato giornalista alle prese con il suo primo romanzo. Almeno in teoria. Naturalmente tra la pratica e la teoria in mezzo scorre il fiume, e uno bello grosso. Già il Manzanarre di manzoniana memoria può andare, in fondo, visto che stiamo a Madrid. E che non fa per nulla fresco, anzi. Previsioni più fallaci non se ne vedevano da tempo. E così agosto nella capitale spagnola, nel bel mezzo della Meseta, è l’inferno di cristallo, il caldo rende il povero reporter stremato e il suo cervello è più annacquato di un vino d’infima lega. Le idee però sono come l’amore, soprattutto quelle buone: capitano quando meno te l’aspetti, quando ci hai messo una pietra sopra, quando hai smesso di pensarci, quando pensi che per te sia destino che non debbano arrivare mai e poi mai. Il palazzo è pressoché disabitato, e rinvenire fortunosamente, in pratica calpestandolo, il mazzo di chiavi della portinaia, che permette legittimamente di penetrare, avvalendosi della distrazione della custode, in quello che è il più fertile dei bacini per chi voglia scrivere, ovvero le vite degli altri, attraverso le luci delle loro case, che fanno brillare le finestre, è una tentazione irresistibile, a cui non si può non cedere. Inizia quindi un viaggio attraverso le esistenze di personaggi straordinari, commoventi, emozionanti, veri, credibili, mai banali, teneri e fragili, tenuti su in equilibrio instabile dalla colla delle bugie che si ripetono per sentirsi meno soli e tristi. E come ogni viaggio, come ogni avventura, l’inchiesta condominiale del giornalista spalanca le porte all’inatteso, che lui è disposto ad accogliere, e al mistero. Perché mai Simón, l’inquilino del terzo piano, da trent’anni, ogni venti di settembre, fa pubblicare sul giornale una lettera per Ana, la moglie morta troppo presto cadendo (Come? Perché?) dal balcone? Trovare la verità diventa uno scopo, un obiettivo, la strada obbligata per ritrovare l’ispirazione. Amore, gelosia, debolezze, ossessioni: e la forza della vita, che è più potente della letteratura, e al tempo stesso ne ha bisogno, perché l’esistenza è inestricabilmente intrecciata alla possibilità e alla capacità di raccontarle. Un romanzo che è come l’edera, dove s’attacca muore, resta per sempre, grazie a una scrittura semplice, maestosa, raffinatissima, erudita. Splendido.