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“Radical”

416-uKkOikL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Ma cosa potevo dire a quell’uomo per alleviare il suo dolore quando non riuscivo neanche a trovare un modo per confortare me stesso? Poveretto, è il prossimo; almeno io ho ancora qualche minuto per me. Proviamo ad aiutarlo. “Calmati, fratello mio”, sussurrai dolcemente. “Devi essere forte ora. Ricorda che sei qui fee sabeelillah. Sarai giustamente ricompensato per il sacrificio che ti aspetta”. Il prigioniero numero quarantuno continuò: “Ma non so se ce la farò. Non so se riuscirò a cavarmela”. Era doloroso, straziante, sentire un uomo orgoglioso devastato fino a questo punto. I suoi singhiozzi erano il suono di una persona su cui al-Gihaz aveva operato il suo perfido incantesimo. Era un relitto ormai. L’unica cosa che potevo fare per lui era recitare un passaggio dal Corano, nella speranza che gli infondesse il coraggio di cui aveva disperatamente bisogno. Lentamente, e sempre sottovoce, in modo che solo lui e io potessimo sentire, costrinsi la mia voce a pronunciare i suoni delle parole di Allah. Era un rischio, lo sapevo, soprattutto perché il nostro turno era vicino. Se fossimo stati sorpresi a parlare, saremmo stati accusati di collusione e qualsiasi punizione ci fosse in serbo, sarebbe stata molto, molto peggiore delle altre. Quello che gli recitai lì, in quel giorno di tortura, prima che fosse chiamato a sacrificarsi fee sabeelillah, è un passaggio chiamato al-Burooj: un’antica storia che parla di un ragazzo e di un re. È particolarmente pertinente per coloro che devono mettere alla prova il loro eeman. Il re chiede a tutti gli abitanti di un villaggio di venerarlo. Un ragazzo, che si è convertito alla fede nell’unico vero Dio, rifiuta. Il ragazzo tiene fede al suo credo e viene perseguitato dal re per questo. Come gli altri abitanti del villaggio che resistono nell’unica vera fede, il ragazzo viene gettato in una fossa e bruciato vivo. Mi ci vollero tutte le mie energie per far uscire la voce…

Radical – Il mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia, Maajid Nawaz, Tom Bromley, Carbonio. Traduzione di Alberto Cristofori. Quando ha sedici anni Maajid, inglese di origini pakistane, imbocca una strada ben precisa. Quella del fondamentalismo. È tutta la vita che subisce. Decide che quello sarà il suo riscatto. Non ne può più di essere segnato a dito. Escluso. Emarginato. È vittima di razzismo da sempre. Ora ha detto basta. È stufo di sopportare, di lasciar correre, di porgere l’altra guancia. La propaganda attecchisce facilmente in situazioni come queste, sboccia in un lampo come un seme in una terra resa fertile dalla fragilità, dalla frustrazione, dalla vana promessa di un avvenire migliore: come si suol dire, si radicalizza, entra a far parte di un gruppo rivoluzionario, diventa lui stesso reclutatore. Finché a ventiquattro anni, arrivato in Egitto, non viene arrestato e rinchiuso nel penitenziario di Torà, presso Il Cairo, famigerato per l’uso della tortura. Ci resta quattro anni. Quando esce, grazie ad Amnesty International, è un uomo nuovo. Profondamente cambiato. Che ritiene giusto esattamente il contrario di ciò in cui credeva nella sua prima gioventù. Ed è un nuovo proselitismo quello che cerca di edificare, per una pace vera e comune. Questa è la sua storia. Da non perdere per nessuna ragione. Per conoscere, riflettere, capire, imparare.

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