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“L’uomo con la vestaglia rossa”

di Gabriele Ottaviani

«Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, sempre che non ne sia innamorato». Questo bel paradosso del porte-parole di Wilde, Lord Henry Wotton, non valeva per il rapporto fra Samuel Pozzi e sua moglie Thérèse – a meno che non si voglia dare una nuova definizione alla parola «felice», intendendola come «capace di muoversi bene nella società». Ma a un certo punto, alla fine del secolo, Pozzi incontra Emma Fischoff, con la quale – tutto lo farebbe presupporre – potrebbe essere felice. Nata a Vienna, Emma Sedelmayer era la figlia di un mercante d’arte di Parigi il quale, fra i tanti, aveva esposto anche Sargent. Di sedici anni piú giovane di lui e anche lei con tre figli – per combinazione due maschi e una femmina come il medico –, Emma era una donna colta, sicura di sé, ricca e appassionata di acquisti intellettuali e decorativi. Il marito Eugène, anche lui ebreo, anche lui nato a Vienna, era membro del Jockey Club e proprietario di Dandolo, uno dei cavalli da corsa piú famosi di Francia. Il nome derivava da un doge veneziano il quale, durante il saccheggio di Costantinopoli del 1204, aveva spedito a Venezia i cavalli di bronzo che da allora adornano la basilica di San Marco – fatta eccezione per il periodo in cui, sottratti da Napoleone, rimasero a Parigi dal 1797 al 1815. Per qualche anno Pozzi aveva viaggiato da solo per motivi di lavoro o per piacere, ma anche in compagnia di qualche amico; come quella volta, nel 1896, quando Colette lo aveva riconosciuto a Bayreuth in compagnia del poeta Catulle Mendès. L’anno dopo, tuttavia – giusto per renderci piú difficile la lettura di quel suo matrimonio –, aveva portato Thérèse a Bayreuth a vedere il Lohengrin. Catherine, la figlia quindicenne che amava la musica e invano li aveva pregati di portarla con loro, non era felice – infastidita di essere trattata come una bambina quando era già una jeune fille.

L’uomo con la vestaglia rossa, Julian Barnes, Einaudi, traduzione di Daniela Fargione. Il dandy vergognosamente bello che l’attrice Sarah Bernhardt, una delle tante donne da lui curate e amate, appellò come Doctor Dieu, e che fa splendida mostra di sé nel celebre dipinto di John Singer Sargent, è il dottor Samuel-Jean Pozzi, intraprendente figlio di un pastore di provincia che diviene, grazie a pionieristiche intuizioni e formidabili abilità, il ginecologo di fama chiarissima e internazionale (quando nel milleottocentoottantacinque si reca a Londra insieme al conte Robert de Montesquiou-Fezensac e al principe Edmond de Polignac tutti pendono dalle sue labbra, e il trio, decisamente vario nell’assortimento – basti solo pensare al fatto che gli altri due sono aristocratici e gay –, è il più richiesto nei salotti à la page) dell’alta società della Parigi della frenetica, violenta, decadente, narcisista, erotica, nevrotica, irresistibile Belle Époque, in cui con maestria sopraffina, fra falso, vero e verosimile, fra Gustave Flaubert e Oscar Wilde, fra Edmond de Goncourt e Marcel Proust, al cospetto di Henry James, Richard Wagner, Paul Valéry, Dante Gabriel Rossetti, Alma-Tadema e tanti altri, Julian Barnes, come l’Allen di Midnight in Paris, ci conduce e fa sognare, inducendo alla riflessione sulla complessità della condizione umana. Mirabile.

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“Il pedante in cucina”

9788806244057_0_221_0_75di Gabriele Ottaviani

«Aiuto! – cominciava l’e-mail. – Cosa vuol dire un tuorlo d’uovo da venti grammi? Come lo peso? E se è troppo pesante, lo taglio a metà?» Sapreste indovinare quale autore di libri di cucina ha fatto scoppiare questo piagnisteo nella mia casella di posta? Esatto, è Mr Heston Blumenthal. Leggete le sue ricette tutte le settimane? I titoli, almeno, li leggete? Meringa Sbriciolata e Polvere di Pistacchio con Maionese di Salsa di Soia? Vi stimola alla sfida o vi fa sentire terribilmente inadeguati? Sentite titillare le ghiandole salivari e avete i piedi che scalpitano in direzione della cucina, o vi trovate a contemplare il neon blu delle seducenti insegne di Pizza Express? Non fraintendetemi. Io vado in estasi per Mr Blumenthal. Una volta ho cenato al suo ristorante di Bray, The Fat Duck, e pur essendo molto prudente in ciò che ordinavo ho gustato un pasto squisitamente esotico. È un discepolo di El Bulli, il ristorante a nord di Barcellona che ha portato l’innovazione a livelli sbalorditivi, e ci vuole coraggio per fare una scelta simile nelle Home Counties…

Il pedante in cucina, Julian Barnes, Einaudi, traduzione di Daniela Fargione. La cucina è un’arte. Un rito. Una liturgia. Un legame. Una forma di rispetto. Di amore. Di relazione. Di condivisione. Un uso. Un costume. Una tradizione. Una cultura. Un’eredità. Una forma mentale. C’è chi va “a occhio”, in base all’estro del momento, e chi segue scrupolosamente le ricette. Ma quei precetti possono anche essere sbagliati, o imprecisi (del resto, solo il padreterno, per chi vi crede, non conosce fallacia): perché di fatto, poi, alla fin fine, tutto ruota sempre e comunque, e un grande scrittore, che è anche un po’ Pellegrino Artusi, un po’ il Furio di Verdone e un po’ il barberyano Monsieur Arthens, sa coglierlo al volo, attorno alla parola, strumento e prova d’intelletto. Barnes spacca il capello in quattro, e quel “quanto basta” diventa un imprescindibile “non basta mai”, tanto è irresistibile la sua articolata metafora del nostro tempo sempre più precario e bisognoso di riferimenti. Nelle giuste dosi. Da non perdere.

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“Con un occhio aperto”

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Erano trascorse due ore vissute nelle più atroci riflessioni quando…

Con un occhio aperto, Julian Barnes, Einaudi, traduzione di Daniela Fargione. Tra il milleottocentocinquanta, quando la letteratura in America viveva gli albori del suo cosiddetto rinascimento con i capolavori a firma, tra gli altri, di Melville, e il millenovecentoventi, col mondo ridotto a un cumulo di macerie fumiganti dalla guerra, si forma nell’arte il canone occidentale che è alla base della nostra contemporaneità e della percezione che abbiamo di essa: Julian Barnes, autore dalla prosa finissima e profonda, tesse un dialogo intenso, emozionante e sinestetico, che avvolge, avvince, diletta, insegna e conquista.

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“Guardando il sole”

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Di tutte le ragazze di Gregory, Rachel era sempre parsa la più improbabile.

Guardando il sole, Julian Barnes, Einaudi. Traduzione di Daniela Fargione. Scrittore britannico campione del postmodernismo e pluripremiato in lungo e in largo in giro per il mondo con numerosi riconoscimenti, Julian Barnes, cui si deve Il senso di una fine, poi diventato un film con Charlotte Rampling, anche critico cinematografico, fratello di uno dei più importanti studiosi di filosofia di lingua inglese e autore pure, come Dan Kavanagh, dal nome della moglie scomparsa undici anni fa, torna in libreria con un’opera straordinaria, che si fonda sulle domande di fatto di poca importanza e senza risposta che si pone una donna, che conosciamo bambina, ragazza, adulta, anziana nel corso di un secolo di vita, più o meno, che attraversa l’esistenza con inquieta noncuranza e al tempo spesso testimonia la consapevolezza della necessità di saper ben osservare il mondo nella sua interezza, finanche il sole, che rende ciechi se non ci si scherma opportunamente, per godere del sempre nascente miracolo della bellezza inaspettata e salvifica. Da non perdere.

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“Prima di me”

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Quando pensava a Graham, ora, aveva due immagini di lui. Nella prima era impennato su di lei mentre facevano l’amore la notte del loro ottavo anniversario di matrimonio. In quelle occasioni gli permetteva di tenere la luce accesa. Accucciato sopra di lei, spingeva svogliato con movimenti che parevano comunque soddisfarlo, quando a un tratto lo sorprese a guardarle i seni. Di per sé, la cosa era del tutto normale: in parte era quella la ragione per cui acconsentiva che la luce rimanesse accesa. Il punto era il modo in cui li guardava. Non era vero e proprio disgusto ciò che coglieva nella sua espressione, né mancanza di coinvolgimento. Era qualcosa di persino più offensivo: la scintilla dell’interesse c’era ma, benché abbastanza benevola, risultava umiliante per quanto era flebile. Altre volte aveva visto quello sguardo. Era l’espressione di chi, al reparto surgelati del supermercato, non ha bisogno di comprare niente di preciso ma getta comunque una rapida occhiata di rito.

Prima di me, Julian Barnes, Einaudi. Traduzione di Daniela Fargione. Ha trentotto anni. È sposato da tre lustri. È nel mezzo del cammin della sua vita. Ha un mutuo sul groppone. È un docente universitario di storia a Londra. Probabilmente al posto del sangue nelle vene ha del tweed infeltrito. La discesa per lui, Graham, è già iniziata. Poi un giorno incontra Ann. E tutto cambia. È giovane. È effervescente. Diventa la sua amante. Per lei Graham molla la moglie. Si risposa con Ann. Poi un giorno vede un film in cui la fanciulla ha recitato. Una pellicola tremenda con un ruolo tremendo. La pupetta del gangster. E lui dà di matto. Da principe degli anzitempo bolsi diventa Otello, il moro di Venezia… Nulla è più inutile al mondo della gelosia (non ha mai fatto rimanere nessuno vestito, anzi, semmai ha fatto venir voglia di guardarsi intorno, per respirare e prendersi una pausa dalle rotture di scatole immotivate) specie se retroattiva, ma il dubbio, si sa, è un tarlo che rode incessantemente… Una commedia nera banalmente superlativa, che si legge in un battito di ciglia. Da non perdere.

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“Il rumore del tempo”

julian-barnes.jpgdi Gabriele Ottaviani

Non era mai successo, ovviamente. Ždanov li aveva indottrinati da far sanguinare le orecchie, ma era troppo intelligente per permettere che le sue dita grassocce dissacrassero tanto una tastiera. Cionondimeno, la storia guadagnò credibilità a ogni ripetizione, finché qualcuno dei compositori in teoria presenti al fatto non arrivò a confermare che, sì, le cose erano andate esattamente in quel modo. D’altronde una parte di costui avrebbe voluto che quel colloquio in cui il Potere si era arrogato il diritto di utilizzare l’arma dei propri avversari avesse avuto luogo davvero. In ogni caso, non ci mise molto a finire nel canzoniere dei miti attendibili che circolavano al tempo. Quel che importava non era tanto se una certa storia era del tutto vera, quanto ciò che la storia significava. Senza contare che la veridicità di un racconto aumentava di pari passo col suo diffondersi.

Julian Barnes, Il rumore del tempo, traduzione di Susanna Basso, Einaudi. O bere o affogare. È un proverbio, e come tutti i proverbi nasce dalla realtà quotidiana. Dalla vita vera. Tu vorresti solo fare quello che ti piace, che ti fa sentire bene e libero, quello per cui hai talento, e che quindi puoi fare bene, per te e per la società. Perché fare pienamente il proprio dovere, svolgere il compito che è stato assegnato o che si ha avuto la possibilità, la fortuna e il privilegio di scegliere, rendere un servizio agli altri, fosse anche la condivisione di un’emozione, qualche cosa di immateriale, di nessuna o scarsa utilità pratica ma salvifica per l’anima, è la base per un mondo migliore. Tu vorresti. Ma non te lo permettono. Talvolta. Non vuol essere una giustificazione per i propri fallimenti, e certo il protagonista della nostra storia non è né un santo né una tremebonda donzella da salvare arrampicandosi sulla sua stessa treccia per farla uscire dal castello in cui è segregata. Ma talvolta non te lo consentono. Semplicemente. Banalmente. Freddamente. Squallidamente. E tu, uomo – artista: ma come possono coesistere arte e totalitarismo? – con tutti i tuoi limiti, che non sei tenuto a essere né hai desiderio di farti martire, perché tieni alla tua vita, che di tanto in tanto ti pare però vacua, e al tempo stesso tieni anche alla tua coscienza, straziata come il cadavere di Ettore dal feroce Achille, soccombi. Accetti. Oppure lotti. Ti impegni. Non ti arrendi. Sarà anche vero che il potere logora chi non ce l’ha, ma essere considerato nemico del popolo dalla sera alla mattina, topo stritolato in ingranaggi kafkiani, dopo che tutti ti hanno sempre esaltato per anni solo e soltanto perché la tua musica non è piaciuta – l’ha chiamata caos – al compagno Stalin e ai suoi baffoni è prova ardua a superarsi. È la vicenda di Sostakovic quella che Barnes racconta, con intensità straordinaria. Da non perdere per nessuna ragione.

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