di Gabriele Ottaviani
Simona Baldelli è l’autrice di Vicolo dell’Immaginario: Convenzionali ha il grandissimo piacere di intervistarla.
Che romanzo è Vicolo dell’Immaginario?
Non saprei dare una definizione. Fin dal primo, Evelina e le fate, i miei romanzi sono accompagnati dalla definizione di “realismo magico”. Mi va bene, benissimo, e me la tengo cara. Mi piace mescolare concretezza a immaginazione. Dopotutto, la nostra vita è composta di azioni e pensieri, emozioni, sentimenti, solitamente privi di corpo, tridimensionalità. Io ho trovato questa maniera per raccontarli: do loro materia e mi permetto così di farli agire, offro loro spazio e capacità di interazione con i personaggi e la storia, senza correre il rischio di appesantire le pagine con interminabili, e spesso noiosi, contorcimenti dell’animo. Mi aiutano a definire la psicologia dei protagonisti evitando sequele di aggettivi, spesso soggettivi, se mi passi il piccolo gioco di parole. Ecco così che sono nate le fate di Evelina, i fantasmi di Mr. Giovedì, la nuvola d’oro di Caterina, i personaggi che escono dai quadri per Rossini e, nel caso di questo Vicolo, la piccola ombra che accompagna Amalia.
Vicolo dell’Immaginario è una storia che affronta il rimorso e il rimpianto, politico e privato: io ho voluto affrontarli raccontando il viaggio di una macchia nera, la piccola ombra, appunto.
Che anni sono stati i Settanta?
Ero bambina, allora, e ricordo un gran fermento, un dibattito vivace, fazioni opposte, un’aria di rivoluzione che investiva tutto e tutti. Le donne che correvano in massa a prendere la patente, si liberavano di orpelli che ne impedivano i movimenti, l’autoritarismo che si poteva mettere in discussione. E colori, tanti colori.
Certo, ci sono stati anche episodi terribili di lotta armata e stragi di cui, ancora oggi, aspettiamo una risposta. Uno dei capitoli di Vicolo dell’Immaginario, riporta l’episodio della strage di Piazza Fontana e i suoi morti ancor oggi senza giustizia, e racconto gli echi della lotta armata e delle rivendicazioni sindacali. Non aver fatto, in seguito, una seria riflessione su questo pezzo di storia, aver evitato un confronto collettivo, ha fatto sì che, tutt’oggi, noi si continui a sentirci su barricate opposte, dove anche le più piccole conquiste individuali sono vissute come privilegi (che ci sono, intendiamoci, ma hanno forma e sostanza diversa da come ci vengono raccontati; e il più delle volte sono invisibili). E, soprattutto, non siamo più capaci di ragionare in termini di comunità, ma solo individualistici. E, da soli, dove mai possiamo andare?
Ma queste sono riflessioni che mi hanno accompagnata nell’età adulta. In quegli anni mi colpì molto l’austerity e le domeniche con le strade zeppe di pedoni, biciclette, pattini. Ma ricordo che l’improvviso ritorno di una povertà collettiva, non spaventava, o almeno così mi pareva fosse vissuto. C’era comunque uno sguardo fiducioso sul futuro. E un forte senso di collettività, che oggi si è perso.
Chi sono Clelia e Amalia?
Sono due donne simili per molti versi, forse persino sovrapponibili. Certamente entrambe intrappolate nei rimorsi e nei rimpianti di cui parlavo poc’anzi. A cui occorre un atto di ribellione, anche da un punto di vista intimistico, emotivo, famigliare. La società è composta di individui e, io credo, non è possibile ottenere una collettività sana se i singoli sono malati, sofferenti. Clelia decide di lasciarsi alle spalle le zavorre, Amalia raccoglie il testimone insegnandole che, se vuole aprirsi al domani, deve perdonare il passato e occuparsi del presente.
Nel tuo romanzo c’è chi resta laddove è nato e chi invece cambia orizzonte: che valore hanno le radici, il viaggio, la memoria e i sentimenti per te e per i tuoi personaggi?
Se dovessimo morire dove siamo nati, io credo, nasceremmo con le radici, come gli alberi. Detto questo, partire deve essere una scelta.
In termini personali (io stessa ho lasciato a diciannove anni la città in cui sono nata e ho cominciato una vita nomade), ho cominciato ad amare le mie radici, i luoghi, il dialetto, solo dopo essermene allontanata. Come se avessi avuto bisogno di vedere le cose da una giusta distanza. Nel mio caso, e quello delle protagoniste di Vicolo dell’Immaginario, Clelia e Amalia, partire è stato necessario per sfuggire all’asfissia. Ma ho imparato, per esperienza diretta, che si possono recidere i rami secchi anche rimanendo “a casa”. È sufficiente un’azione, un cambio di visuale, imparare a dire no, per esempio. Un piccolo atto di “psicomagia” lo chiamerebbe Alejandro Jodorowsky. Accompagnare il viaggio di una piccola ombra, nel mio caso.
Che cos’è che ci rende quello che siamo?
Tutto. A partire da ciò che mangiamo e beviamo, poiché è di quelle sostanze che siamo composti, a ciò che abbiamo visto, ascoltato, creduto. Ciò per cui abbiamo pianto o riso. Gli abbracci dati, gli schiaffi ricevuti e restituiti. Qualsiasi cosa venga in mente. ciò che ci smembra, invece, e ci fa perdere per strada pezzi di noi stessi, sono appunto i rimorsi e i rimpianti. Questi due sentimenti lavorano per sottrazione, ci portano via la terra da sotto i piedi, restringono l’orizzonte e al loro posto, lasciano le paure.
Come sono cambiate la politica, la società, l’Italia e l’Europa negli ultimi quarant’anni?
La mancanza di risposte, i depistaggi di cui parlavamo poc’anzi, hanno in qualche modo contribuito a farci perdere fiducia, speranze. Questo ha contribuito a togliere umanità, secondo me, a politica, paesi e continenti. Ad accorciare le visioni, politiche e personali.
Come Clelia e Amalia, attendo che le premesse, le promesse, prendano concretezza. Perché di strada in merito di diritti e opportunità per tutti, di diffusione di benessere, di lotta al privilegio, ne abbiamo fatta pochina, a mio parere. Mi addolora e sconcerta la regressione della scala sociale, per esempio, il rimpicciolirsi delle prospettive. E mi spaventa questo reflusso di nazionalismo e individualismo. Ma non mi arrendo e, per quel che posso, cerco di contribuire ad allargare gli orizzonti.
Cosa rappresentano per te la fantasia e l’immaginazione?
Non riesco a risponderti, perché non riesco a scinderle da altre attività apparentemente più concrete: camminare, mangiare, scrivere. Prova, anche tu, o chi ci legge in questo momento: bevi un sorso d’acqua, addenta un pezzo di cibo qualsiasi. O, semplicemente, leggendo queste parole. Tutto suggerisce una suggestione; qualcuno si chiederà, per esempio, com’è la mia faccia o come risuona la mia voce. Il sapore in bocca evocherà ricordi. È già un esercizio di immaginazione e fantasia. Senza di loro, le azioni non hanno senso, forse nemmeno esisterebbero. Tutto sta ad esercitarle, senza autocensurarci.
Che cosa ti aspetti dal futuro?
Tante belle storie, e l’opportunità di raccontarle. Credo questo mondo, la nostra realtà, abbiano bisogno di una trasformazione, un cambio di rotta. Il mio compito è immaginarli. Perché se lo puoi pensare, lo puoi fare.