di Gabriele Ottaviani
Cominciai a volare, tagliando la periferia fino all’imbocco dell’autostrada. La risalii ostinato, fendendo la tramontana, ed entrai di soppiatto in macchina, andandomi a posizionare, ben nascosto, dietro all’Arbre Magique. Non ero il solo a fargli compagnia: Libera e Bonaventure, seduti dietro, gli stavano prestando orecchio già da un’ora. Erano bellissimi. Bonaventure si era messo il vestito tipico della sua regione d’origine, una camicia di cotone a macchie verdi, oro e terra rossa su un paio di pantaloni di lino, anch’essi della stessa tinta variegata. In testa portava un cappello che non era un semplice cappello, ma il copricapo che papà si era dimenticato al bar il giorno in cui aveva conosciuto mamma. Glielo aveva regalato una volta saputo che sarebbe stato lui il padre del suo primo nipote. Per Bonaventure quel gesto aveva segnato l’ingresso simbolico nella memoria della nostra famiglia. Da quel giorno, glielo avevo sempre visto addosso. Papà e mamma l’avevano accolto come un figlio, io come un fratello. Era simpaticissimo e umile, a cena chiedeva i bis e con il pocket money che riceveva comprava regalini romantici a Libera. Anche se non ce n’era mai stato bisogno, sapeva come conquistare la nostra benevolenza. Nel suo presente c’erano però altrettante note dolenti. Il riscaldamento della struttura dove dormiva la maggior parte delle notti non era stato riparato a dovere, il che implicava per Bonaventure, e di riflesso per Libera, l’avere perennemente tosse e raffreddore. Il suo iter legale per il conseguimento di un qualche tipo di protezione internazionale languiva nei meandri della questura. Pur essendo in Italia da più di otto mesi, non sapeva ancora la data del colloquio con la commissione territoriale e faticava a parlare l’italiano proprio come un italiano. Avremmo voluto dargli il nostro tetto e il nostro desco, ma…
Coràio!, Augh!, Andrea Gasparini. Si ride, si piange, ci si indigna, ci si commuove, si pensa, si riflette, si ragiona, si ricorda, finalmente, in questa società che tutto fagocita, come il tempo, che ventoso e inesorabile erode scabro ogni cosa, in questo mondo protervo e precario che ha reso precari anche i sentimenti, e che non ha memoria, che ha coniato l’orrida parola buonismo, e tutti i lemmi a essa legati, perché non solo si vergogna della bontà, ma la trova sbagliata, falsa, stupida, perdente: quella di Gasparini è una fiaba moderna, bellissima, lirica, realistica e magica assieme, dolce, straziante, articolata senza mai essere ostica o complessa, è una storia che tocca le corde più profonde e pure dell’anima, e che a essa fa un gran bene. È la storia di Durante (sì, si chiama come l’Alighieri…), che ha venticinque anni, è di Bologna, consegna pizze a domicilio, ha un padre disoccupato, una mamma insegnante che si reinventa educatrice di un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, una sorella maggiore, Libera, che fa la stagista in una struttura d’accoglienza per migranti e s’innamora di un utente ivoriano, e non s’abbatte quando la vita vorrebbe che lo facesse. E tutti loro sono così, semplicemente indomiti. Perché la vita, in fondo, è un grande e sempiterno atto di resistenza contro il dolore, e ciò che più ancora del dolore fa male, la delusione, perché si è creduto in qualcosa o in qualcuno che poi ha tradito per mera noncuranza. Un incanto.