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“La danza delle dita”

61My856LtpL._AC_UL436_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Lavorarono molto, quel giorno. Usarono il testo di Enrico come fosse l’indice di un libro formato da tutti i volumi disponibili sugli scaffali della biblioteca. Ogni volta si alzavano per approfondire prendendo monografie dedicate, opere specifiche. All’inizio il sistema funzionò piuttosto bene. I tre membri più attivi del gruppo sudavano per ricondurre le varie esperienze nei percorsi che cominciavano ad attraversare, orizzontali e verticali, lo schema quadrettato. Accumulavano nomi da incasellare nella griglia. L’equilibrio pareva reggere, i conti tornavano. Quello strumento concettuale per affettare il mondo dell’arte girava senza incepparsi finché i cinque non incrociavano qualcosa di nuovo che li costringeva a rivedere i canoni, a rimettere in discussione le categorie. Facevano delle soste ritrovandosi in giardino per parlare insieme a voce alta e decidere come muoversi, cosa cercare.

La danza delle dita, Walter Scarpi, Augh! Si legge d’un fiato ma si conserva intatto nell’anima come la persistenza del profumo delle cose più amate il libro di Scarpi, che dà voce alla più mordace e urgente delle ansie, quella legata al tempo che passa inesorabilmente, scorrendo in un unico e solo senso di marcia e generando la paura di non restare, non rimanere, non lasciare traccia di sé, sprecare o perdere il proprio talento, ammesso e non concesso che ne si abbia. Il tutto, naturalmente, viene amplificato nel caso di accadimenti imprevisti e tragici, e così cinque ragazzi, turbati dalla morte improvvisa di una loro compagna di studi, iniziano a indagare l’intera storia dell’arte alla ricerca di una nuova forma espressiva. E… Da leggere.

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“Tutto quello che c’è voluto”

piatto_La_Delfadi Gabriele Ottaviani

L’attesa era un altro viaggio emotivo sulle montagne russe: Raphaelle era in perenne ascolto del proprio corpo e ogni segnale era interpretato, analizzato, interrogato. Anch’io ero lì a chiedere ogni minuto: «Come ti senti?» e sorvegliavamo i seni e i capezzoli, poiché la loro trasformazione evidente era il primo segno di una possibile gravidanza. Eravamo impazzite in quell’attesa, alternando l’esaltazione del “tutto è possibile” alla disperazione del “non andrà bene”. Facemmo le analisi del sangue il dodicesimo giorno dopo il prelievo degli ovociti perché ci avevano detto che i test chimici della farmacia davano spesso risultati errati nei primi giorni della gravidanza ed era meglio andare sul sicuro subito per evitare di dover rifare il test cinque volte. Tanto il test delle Beta, come si chiamava, andava fatto perché era l’unico attendibile. E il test fu positivo! Non potevamo crederci! Le Beta erano poche ma c’erano! Luigi del laboratorio di analisi aveva stampato in faccia un bel sorriso e noi saltammo dalla gioia e appena tornate a casa chiamammo gli amici più stretti e la mamma di Raphaelle che, se non aveva mai sopportato l’idea di avere una figlia lesbica e se molto cordialmente mi detestava, per lo meno sulla questione del figlio ci sosteneva fin dall’inizio. Passammo due giorni bellissimi esaltate come non mai, ma il nostro sogno finì in modo drammatico. Bisognava rifare il test a distanza di tre giorni per vedere se le Beta aumentavano regolarmente, si capiva il buon andamento della gravidanza dal tasso di Beta che doveva duplicare ogni giorno. Quella sera nel sangue di Raphaelle non c’erano più Beta! Nemmeno uno… Era stato un falso positivo o una gravidanza morta nell’uovo. Era il caso di dirlo. Probabilmente chi si sveglia da un trip di droga deve sentirsi come ci siamo sentite noi. Vuote, inutili, scure…

Tutto quello che c’è voluto – Storia di pance, semi e polvere di stelle, Giuseppina La Delfa, Augh! Sequel, se così si può dire, di Peccato che non avremo mai figli, è la storia autobiografica scritta con passione, impegno e cura dall’autrice, dottoressa in letterature comparate, didattica delle lingue straniere e non solo, docente di lingua francese nel prestigioso ateneo di Salerno, creatrice dell’associazione Famiglie Arcobaleno e vicepresidente di Nelfa, il Network delle Associazioni di genitori LGBTQI* europee, moglie dell’amata (da decenni) Raphaëlle e madre. Tutto quello che c’è voluto sono tre anni, tre mesi e tre giorni di trepidazione, attesa, speranza e desiderio, testimoniati con la delicatezza del sentimento e la forza del sogno: perché la famiglia è dove ci si sente accolti, dove nessuno è rifiutato, dove c’è amore. Che è tutto. Ed è tutto ciò che ne sappiamo. Da non perdere, e da leggere, rileggere, far leggere. Oggi, giornata internazionale contro l’omofobia, più che mai.

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“Loro sono Caino”

718oxDbfizL._AC_UL436_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Se fosse un volo di linea, questo sarebbe il momento in cui l’aereo incontra una perturbazione e incomincia a ballare il charleston, mentre delle hostess compite, in berretto e divisa, invitano a riportare il sedile in posizione eretta e ad allacciare le cinture di sicurezza. Se fosse un volo di linea, questo sarebbe il momento in cui le hostess meno compite invitano i passeggeri a stare calmi, perché è tutto sotto controllo, perché non c’è niente di cui preoccuparsi. Se fosse un fottuto volo di linea, questo sarebbe il momento in cui le hostess si zittiscono, mentre il comandante prende la parola per annunciare che stiamo precipitando e che dobbiamo prepararci all’impatto. Io e il mio ex reggiamo lo sguardo l’uno dell’altro, come quando da ragazzini si giocava a “perde chi ride prima”. Non fiatiamo. Nei suoi occhi leggo collera. Chissà lui cosa legge nei miei. Paura, di sicuro. Gli dico un «Ciao» talmente fievole che non lo sento neanche io. Lui non risponde e mastica aria, denti su denti. Gli dico che sto andando a prendere del prosecco per Simona, così capisce che sono con la mia amica e non con qualche maschio. Fosse pure mio padre sarebbe solo benzina sul fuoco. Gli dovrei domandare che ci fa qua, visto che si tratta di una festa privata e c’è mezza facoltà, e lui non è né tra gli amici della festeggiata, né nel giro della facoltà. Lui inizia a parlare delle virtù coniugali, della virtù di essere, della virtù di agire, della virtù della castità. Non so dove vuole andare a parare, e sono sicura di non volerlo sapere. Mi conquisto la strada con una spinta fisica, perché lui me la ostruisce, e guadagno il mio posto davanti al tavolino delle bottiglie.

Loro sono Caino, Flavio Ignelzi, Augh. Carriera universitaria fallimentare, ritorno con le pive nel sacco e il volto percosso da un uomo violento che, nonostante il consiglio dell’amica, che problemi non ha, perché è iscritta all’università pro forma, tanto lavorerà comunque nello studio di paparino, non denuncia, al paese, un borghetto di montagna a un’ora di macchina dal primo ospedale, ché se una ha un parto difficile ce ne può anche morire, sigaretta in bocca, vecchia Panda che tutto sommato però ancora fa il suo dovere, lavoro in cassa al market di Santino, con i cui soldi compra una fotocamera per mezzo della quale, stando sempre bene attenta a non riprendersi il volto, si immortala in chat fingendo di non essere single, perché altrimenti genererebbe sospetti, bensì la metà di una coppia con il lui felice d’essere un cuckold, e dunque adesca uomini: tanto la brutta nomea già ce l’ha, per colpa di qualche minigonna che, secondo chi si diverte a dare buoni consigli perché non può più dare il cattivo esempio, era di troppo. È questa la sua vita, tra continue tempeste, fughe che si alternano a perturbazioni, che in paese pronunciano geminando l’affricata, e cacce: l’opera di Ignelzi è credibile, potente, avvincente, dolorosa, intensa. Da leggere.

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“Coràio!”

31sLkBoBVkL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Cominciai a volare, tagliando la periferia fino all’imbocco dell’autostrada. La risalii ostinato, fendendo la tramontana, ed entrai di soppiatto in macchina, andandomi a posizionare, ben nascosto, dietro all’Arbre Magique. Non ero il solo a fargli compagnia: Libera e Bonaventure, seduti dietro, gli stavano prestando orecchio già da un’ora. Erano bellissimi. Bonaventure si era messo il vestito tipico della sua regione d’origine, una camicia di cotone a macchie verdi, oro e terra rossa su un paio di pantaloni di lino, anch’essi della stessa tinta variegata. In testa portava un cappello che non era un semplice cappello, ma il copricapo che papà si era dimenticato al bar il giorno in cui aveva conosciuto mamma. Glielo aveva regalato una volta saputo che sarebbe stato lui il padre del suo primo nipote. Per Bonaventure quel gesto aveva segnato l’ingresso simbolico nella memoria della nostra famiglia. Da quel giorno, glielo avevo sempre visto addosso. Papà e mamma l’avevano accolto come un figlio, io come un fratello. Era simpaticissimo e umile, a cena chiedeva i bis e con il pocket money che riceveva comprava regalini romantici a Libera. Anche se non ce n’era mai stato bisogno, sapeva come conquistare la nostra benevolenza. Nel suo presente c’erano però altrettante note dolenti. Il riscaldamento della struttura dove dormiva la maggior parte delle notti non era stato riparato a dovere, il che implicava per Bonaventure, e di riflesso per Libera, l’avere perennemente tosse e raffreddore. Il suo iter legale per il conseguimento di un qualche tipo di protezione internazionale languiva nei meandri della questura. Pur essendo in Italia da più di otto mesi, non sapeva ancora la data del colloquio con la commissione territoriale e faticava a parlare l’italiano proprio come un italiano. Avremmo voluto dargli il nostro tetto e il nostro desco, ma…

Coràio!, Augh!, Andrea Gasparini. Si ride, si piange, ci si indigna, ci si commuove, si pensa, si riflette, si ragiona, si ricorda, finalmente, in questa società che tutto fagocita, come il tempo, che ventoso e inesorabile erode scabro ogni cosa, in questo mondo protervo e precario che ha reso precari anche i sentimenti, e che non ha memoria, che ha coniato l’orrida parola buonismo, e tutti i lemmi a essa legati, perché non solo si vergogna della bontà, ma la trova sbagliata, falsa, stupida, perdente: quella di Gasparini è una fiaba moderna, bellissima, lirica, realistica e magica assieme, dolce, straziante, articolata senza mai essere ostica o complessa, è una storia che tocca le corde più profonde e pure dell’anima, e che a essa fa un gran bene. È la storia di Durante (sì, si chiama come l’Alighieri…), che ha venticinque anni, è di Bologna, consegna pizze a domicilio, ha un padre disoccupato, una mamma insegnante che si reinventa educatrice di un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, una sorella maggiore, Libera, che fa la stagista in una struttura d’accoglienza per migranti e s’innamora di un utente ivoriano, e non s’abbatte quando la vita vorrebbe che lo facesse. E tutti loro sono così, semplicemente indomiti. Perché la vita, in fondo, è un grande e sempiterno atto di resistenza contro il dolore, e ciò che più ancora del dolore fa male, la delusione, perché si è creduto in qualcosa o in qualcuno che poi ha tradito per mera noncuranza. Un incanto.

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“Fra la via Aurelia e il Mississippi”

414F8r+nhAL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Una lacrima gli solcava il volto e allora prendeva la chitarra e le sue mani rugose tornavano a trasformarsi in due preziosi sensuali arti e componeva musiche bellissime, su cui improvvisava parole che gli uscivano dal cuore. Era il suo blues, da cui mi lasciavo avvolgere come una coperta calda e accogliente. Lui diceva sempre che le canzoni erano un parto della sua immaginazione. Nel senso che immaginava di sentire una voce cantare e così i versi gli venivano in mente. E poi la melodia: sentiva una musica nella sua testa e iniziava a cantarla. E il risultato era straordinario. Ma quando ti chiami Martha Rae e sei nata a Clarksdale e sei donna, negra… ricordate?, ecco, quando nasci così, qualcosa di poco piacevole nella tua vita è sempre in agguato. E quella volta ebbe le fattezze di uno sceriffo. Un tizio alto, bianco e muscoloso, con le mascelle prominenti, il cappellone bianco e una stella che riluceva sulla giacca. Il tipo ideale per odiare a morte una come me. Mettiamoci poi che lo sceriffo in questione era stato di servizio a Clarksdale un paio d’anni prima; sì, sì, proprio quando avevo fatto schizzare un bel po’ di sangue dal corpo di quel maiale che diceva di essere mio padre. Mettiamoci che di un negro morto in una baracca non gliene fregava nulla, ma mettiamoci anche che il fatto di non essere riuscito a mettere le sue manacce su una ragazzina gli pesava. E se consideriamo tutto questo arriviamo al risultato finale: quel maledetto sbirro mi riconobbe e non capisco nemmeno perché, dal momento che avevo l’idea che agli occhi di uno come lui io sarei stata uguale a milioni di ragazzine come me. Invece, vallo a capire, sarà stato per l’altezza, sarà stato per i miei occhi grandi e rotondi, sarà stato perché qualcuno forse aveva realizzato un ritratto della sottoscritta, sarà stato per qualcosa che non saprò mai, insomma, il fatto è che questo tipo mi riconobbe, proprio mentre stavo cantando con il vecchio davanti a una chiesa. Forse era la mia voce che aveva riconosciuto, dal momento che là a Clarksdale, dopotutto, cominciavo a essere abbastanza conosciuta…

Fra la via Aurelia e il Mississippi – Sei racconti “in blues”, Marco Di Grazia, Augh. Il Mississippi è un grandissimo fiume dalla gigantesca portata e dal celebre delta, in prossimità del quale la terra non è fertile solo di piante, ma anche di musica: il blues ha trovato lì la sua culla, da quei luoghi è spiccato il volo di una straordinaria epopea che ha valicato numerosi confini, fra cui finanche l’oceano. Edificando una dialettica avvincente ed emozionante fra distinte realtà, accomunate dalla loro alterità rispetto al canone, Di Grazia, con mirabile ingegno, parla di vita, amore, passione, dolore, razzismo, delitti, misteri, incidenti e molto altro, senza retorica e con eleganza coinvolgente.

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“La più bella estate”

41y1Dh5jnyL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Sebbene il podestà fosse più maturo, essi avevano abito, la cravatta stretta ad annodarsi attorno al collo con la medesima forza, le scarpe lucide e le calze nere che spuntavano quando, accavallando le gambe, i calzoni si ritraevano dalle caviglie. Entrambi romagnoli, erano pur diversissimi. Leandro pareva un contadino, con le sopracciglia ad appena due dita dall’attaccatura dei capelli, folti, nerissimi, la faccia rotonda, le labbra carnose, lo sguardo giocoso. Leo, invece, aveva un viso ovale, aristocratico, gli occhi impenetrabili, freddi, la fronte altissima, la brillantina in testa e la riga sulla sinistra. Vivace, sanguigno, il primo, terribilmente simpatico ma calcolatore il secondo. I due discutevano sul detto escogitato dal Longanesi, e mentre l’Arpinati definiva con rabbia “antifascisti a cui dovrebbe essere inflitta la perdita della cittadinanza” coloro i quali trovavano dell’ironia in quel “sempre ragione”, il ragazzo non tentava neppure di difendersi dall’accusa di canzonare Mussolini e ancor più beffardo diceva al podestà di tacere, che il nemico era in ascolto. I due non mi chiesero neppure un parere sulla questione, tanto erano occupati in quella burla. Credo che l’Arpinati non volesse farlo perché, nonostante non mettesse in dubbio la mia fedeltà al Re, preferisse soprassedere su quella al fascio bolognese, per non guastare un’amicizia che egli reputava assai importante. Il Longanesi, dal canto suo, aveva ben intuito la cosa e non osava interrogarmi in proposito per non mettere in condizione di imbarazzo un intellettuale e funzionario dello Stato, che avrebbe potuto infilargli ben più di un bastone fra le ruote e pregiudicare la sua carriera in così veloce ascesa. Fatto si è che il podestà, impegnato a discutere con l’amico, scordò pure la vera ragione per la quale ero stato convocato a quel singolare incontro serale. Così me ne restai in silenzio, osservandoli, ed esaminandone la perfetta eleganza, l’equilibrio dei colori, il capriccio della pochette, che li faceva sembrar fratelli di sangue, ancora prima che di lettere e di fascio, nonostante la differenza d’età, la forma dei visi e la stazza così diverse.

La più bella estate, Marco Albergati, Augh! Non c’è dolore più grande e sbigottimento più sconvolgente per chi pensa di sapere qualcosa, di avere tutto sotto controllo, di poter vivere di certezze serenamente e placidamente della scoperta inattesa e improvvisa, della necessità della presa di coscienza che il proprio mondo non può essere quello che si immaginava, perché la propria natura è altra da quanto sempre ritenuto. Si può fuggire da tutto e da tutti, ma non da sé, e non per tutta l’esistenza, e così quel regime che ha già promulgato le leggi fascistissime diventa novantuno anni fa per un quieto bibliotecario bolognese diversamente giovane che riceve un manoscritto attribuito a un eroe della patria da un collega partenopeo, e a cui un incontro stravolgerà la vita, precipitandola in un’ossessione amorosa omosessuale raccontata con un linguaggio aulico, simbolico e suadente, assolutamente intollerabile. Docente universitario nato nel millenovecentosettantatré che vive e lavora nella città felsinea, Albergati con questo suo primo romanzo ben scritto, ben caratterizzato in ogni dettaglio e ben confezionato, segnalato nel duemilaquindici al Premio Calvino, indaga l’anima e non solo: da leggere.

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“Ogni orizzonte della notte”

Copertina_ogniorizzontedi Gabriele Ottaviani

Il respiro ritmico riprese a sollevare e buttare in basso le spalle. Ifrit si avvicinò a uno dei frammenti e lo raccolse. Rigirò la fiamma fra le dita, la usò per carezzarsi il petto, le braccia, la rigirò ancora, fino a tenerla davanti agli occhi. Scattai. La mano del mangiafuoco portò il cibo alla bocca, e Ifrit sputò in terra la buccia bianca. Ripeté il gesto, ogni volta davanti a facce diverse. Lasciò sulla pietra davanti a noi solo pallidi corpi spenti. Il drago, il demone, si era cibato e aveva bevuto. La bestia sembrava soddisfatta. Tornò al centro della piazza, e afferrò due catene che giacevano nascoste dalla penombra. Alle loro estremità penzolavano delle caraffe in metallo bronzeo che traboccavano di liquido. Ifrit le depose nel cerchio di fiamme e si voltò per mostrarsi a noi. Prese due aste corte dalle estremità infuocate e le incrociò davanti al viso. Qualche parte del mio cervello registrò che la musica stava diventando sempre più forte, più aggressiva. Ma la sfera cosciente era focalizzata su quel singolo uomo e i suoi giochi di luce. Riuscivo a malapena a ricordarmi delle mie mani e di ciò che tenevano strette. Il mangiafuoco sorrise, generò un nuovo soffio e una sfera di fiamme esplose fra noi e lui. Il drago fece roteare le aste fra le mani e le conficcò nelle brocche. Due fiammate risalirono il cielo scuro, come se fossero le dita di Ifrit ad alimentarle con l’energia primigenia del fuoco. Le mani passarono alle catene. Sollevò le brocche incandescenti e cominciò a farle roteare, descrivendo cerchi di luce rovente. Il liquido – o qualunque cosa vi fosse contenuto – cominciò a eruttare e si disperse tutt’intorno a lui. Era una pioggia rovente che si faceva largo verso di noi come una salva di frecce. Zampilli accecanti risalirono la volta notturna per ricadere sulla pietra. Bastò qualche colpo a segno e la piazza fu descritta da cerchi e flussi, come se il mangiafuoco si trovasse al centro di un’enorme runa incisa con le fiamme.

Ogni orizzonte della notte, Maurizio Vicedomini, Augh. Non hanno nome. Possiedono però parole adatte a narrare la vita e la realtà. Sono i protagonisti di una bella raccolta di racconti attraverso la quale, di monologo in monologo, si procede sempre più all’interno dei meandri dell’esistenza, cercandone il senso, ponendosi domande e avventurandosi in sentieri oscuri per carpire, come un frutto da un albero seminascosto da rovi, le difficili risposte. La luce sembra una parvenza, una presenza episodica, tanto rara da risultare quasi sconvolgente in taluni momenti, ma l’oscurità del quotidiano riesce persino a diventare allegoria umana, troppo umana, e a tratti onirica e distopica, della caleidoscopica frammentazione dell’identità in un individualismo fatto spesso di isolamento, che ha il suo controcanto salvifico nella tessitura dei rapporti fra le persone, bene prezioso da coltivare, indispensabile destino, autentica missione. Intenso.

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“Al momento giusto”

piatto_al-momento-giustodi Gabriele Ottaviani

E quella notte ci siamo addormentati in balcone, con il freddo che fa spazio al caldo e maggio che saluta.

Ha vent’anni. È gay. È di Cagliari. Il padre non sa che gli piacciono i ragazzi. Si trasferisce a Roma per studiare all’università. Arti e scienze dello spettacolo. Ha un amore. Che dopo un anno finisce. Si accorge che non è più romantico dormire stretti stretti in un letto singolo. È solo scomodo. Non c’è più quella poesia che ti fa credere per un po’ anche alle cose a cui non vale la pena di credere. Che Harry Potter sia un fantasy e che la borsa di Mary Poppins non possa essere così capace è un dato di fatto, senza se e senza ma. Così come che quando si muore si muore, anche se si resta vivi nel ricordo di chi rimane. Tutto muore. Tutto. Specie ciò che ami. Specie chi ami. Martina d’un tratto muore. All’improvviso, senza che ci sia il tempo dell’addio, della consapevolezza. Un attimo ci sei, l’attimo dopo no. Sorella, confidente, complice, amica. Un incidente stradale dalle dinamiche quantomeno singolari. Per cui Francesco lascia Roma. E Federico potrebbe pensare che sia stata solo una notte di sesso quella appena trascorsa. Ma non è così. Nessuno ha mai cercato di farsi spazio con tenerezza nelle manie del controllo di Francesco. Nessuno ha diviso con lui i fiocchi di latte. Tant’è che infatti Francesco torna. Aveva pensato di partire, ma quel Gratta e Vinci da diciassettemila euro comprato appena dopo aver cacciato via di casa il suo compagno, perché avanti in quel modo non si poteva più andare, è sparito chissà dove. In compenso a casa è arrivato un pacco accompagnato da una lettera. Il contenuto è un pulsante verde che riporta indietro nel tempo. Al momento giusto. Aldostefano Marino scrive con una prosa fresca, credibile, quotidiana, autentica, brillante, fotografica, che si legge con impressionante facilità, di vita e amore, morte e dolore, fiducia e tradimento, amicizia e famiglia, identità e diritti civili, senza retorica, senza verità in tasca. Edito da Augh, il suo è un gran bel romanzo.

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