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“Il donatore di musica”

piatto_Marziali._Il_donatore-scaleddi Gabriele Ottaviani

In macchina, Giulio cominciò lentamente a percepire una realtà diversa da quella in cui avrebbe sempre voluto immergersi. Gli era piaciuto che suo padre fosse venuto a prenderlo in ospedale, gli era piaciuto anche il modo in cui lo aveva fatto, senza alcun tono di rimprovero. Aveva ancora bisogno di lui. Quel padre, che ora lo chiamava “figliolo”, non era poi così male…

Il donatore di musica, Marco Marziali, Augh! Edizioni. L’arte e la scienza non sono divise da compartimenti stagni, bensì possono, anzi debbono, comunicare, perché rispondono entrambe sia a esigenze spirituali che a bisogni fisici dell’uomo: ne è convinto, giustamente, Marco Marziali, immunologo ed ematologo, promotore fra l’altro di iniziative che portano la musica negli ospedali, come strumento di cura nell’accezione più alta del termine, che, nel suo ultimo romanzo, con prosa intensa, potente, avvincente, avvolgente ed emozionante, narra la vicenda di un medico, Marco, che, smarrito, appassionato, guidato e sostenuto dal suo amore per la musica, sensibile ma anche estremamente razionale, si incammina in un percorso di scoperta mentre deve affrontare il dolore per la chiusura della fondazione, alla quale si è dedicato per oltre un decennio, e per il distacco dai suoi piccoli pazienti. Ma… Da non perdere.

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“The Backgammon Player”

71UdOMvviXL._AC_UL320_ML3_di Gabriele Ottaviani

Voglio studiare filosofia, diventare un giocatore internazionale. Partecipare ai tornei, fondare una scuola di pensiero legata al Backgammon. Voglio una vita lunga e felice.

The Backgammon Player, Lorenzo Rusconi, Augh! Edizioni. Il backgammon, le cui origini si fanno risalire addirittura a quasi sei millenni fa, al tempo dei sumeri, nella mezzaluna fertile, è un gioco – ritenuto dunque il più antico dell’umanità, oltre che evidentemente allegoria dell’esistenza, con tutte le sue sfaccettature e i rovesci della sorte che la contraddistinguono, filo sottile dipanato e tessuto dalle tre Moire del mito – da tavolo per due giocatori, ognuno dei quali ha a disposizione quindici pedine che sposta sul tabellone lungo ventiquattro triangoli, detti anche punti, in base al punteggio scaturito dal lancio di due dadi, con l’obiettivo sia di portare fuori il prima possibile dallo schema di gioco tutte le proprie pedine che di ostacolare l’avversario. Rusconi è esperto di questa disciplina, ma anche, con ogni evidenza, dell’arte della parola, perché dà alle stampe un romanzo raffinato e intenso, che si apre in una stanza bianca che non ha pareti, né soffitto, né pavimento, né punti di riferimento: è lì che al cospetto di Cloto, Lachesi e Atropo arriva No. Questo è il nome provvisorio attribuito all’anima che raggiunge le Parche, e che… Da non perdere per nessuna ragione.

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“Era l’anno dei Mondiali”

era l'anno dei mondialidi Gabriele Ottaviani

Ivan stava appollaiato sul ciglio dello scoglio, ma preferì non tuffarsi in mare. Sul “Tirreno” avevano titolato a nove colonne nella prima di cronaca che le meduse si erano fatte vedere prima del solito lungo la costa. Figuriamoci: mancavano solo i tentacoli viola pruriginosi sulla pelle a rendergli la vita ancora più impossibile. E così ripose asciugamano e iPod dentro lo zaino, si infilò le infradito e i pantaloni corti, e scalò la scogliera fino a raggiungere lo scooter posteggiato di fronte a un’auto in palese divieto di sosta, e perciò multata di fresco. Inforcò il motorino e si avventurò in un’avventata inversione a U, tale da provocare un vibrante strombettio dalle vetture in arrivo da entrambe le direzioni. Ma tanto, meglio così: magari finiva sotto le ruote della Jeep di un operaio specializzato della Continental, e addio a questo mondo infame. Invece la Jeep inchiodò, e l’altra automobile, un’utilitaria guidata da un novantenne, procedeva troppo a rilento per poterlo colpire in maniera decente.

Era l’anno dei Mondiali, Jimmy Morrone, Augh!. Si sa, i campionati del mondo di calcio sono l’evento dell’anno in Italia, quando ci sono. Ma può succedere – per fortuna, per tutti gli appassionati, di rado – che la nazionale azzurra non si qualifichi. E quindi il tempo che sarebbe stato occupato in un certo modo viene dedicato ad altro: le ore libere, si sa, sono del resto la fertile zolla in cui germoglia il virgulto del nostro scontento, sono la noia che ci consente i sogni, i bilanci, che ci costringe a guardare le cose per come sono, sono lo specchio in cui si riflette la nostra società precaria e senza certezze. Eva ha una vita abbastanza bigia, e soprattutto ha accanto Ivan, che è in profonda crisi, a causa in primo luogo della perdita del lavoro. In quel lembo bellissimo di terra fra Livorno e Viareggio un giorno incontra un uomo, Giorgio, il cui fascino la conquista: che sia la sua occasione per dare una svolta alla sua quotidianità? E se invece le cose non fossero come appaiono? Jimmy Morrone scrive bene, in modo credibile, intenso, chiaro, limpido, preciso, fa vivere, sentire, toccare ciò che narra, con una prosa d’ampio respiro che si gode a leggere. Da non perdere.

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“Aghi”

aghi+.PNGdi Gabriele Ottaviani

Il vizio non se n’è andato via e nemmeno le cicatrici sulla fronte, che la mia folta chioma biondo platino ormai nasconde perfettamente. Mi diverto a cambiarmi il nome con ogni cliente, tranne con quelli fissi o che mi pagano di più. A loro dico il mio vero nome per uno strano senso di lealtà. Così in una sola giornata sono più di dieci donne diverse. Sono Patrizia, Luana, Sofì, Rebecca, Lina, Donata, Fortunata e tante altre ancora. Ognuna ha una sua storia, un passato e soprattutto dei sogni per il futuro, perché i clienti spesso mi chiedono cosa mi piacerebbe fare quando la smetterò con questa vita. Quindi, a seconda del nome, mi invento un finale quasi sempre lieto tranne per quei clienti che proprio non sopporto. A quelli dico che continuerò a fare questo mestiere finché campo perché non voglio alleggerire i loro sensi di colpa convincendoli che, grazie ai loro soldi, un giorno potrò partire per l’America e fare fortuna o comprarmi una bella villa con il prato inglese e magari aprire una boutique. Sotto questi ponti c’è un’altra morale. Qui sotto, tutto è permesso. Nessuno si meraviglia di niente, nemmeno delle macchine della polizia. Sì, le volanti girano intorno ai miei collant lucidi come gli sciacalli attorno alla carcassa di un animale, mi squadrano e anche loro mi fanno la stessa domanda, anzi, loro mi domandano solo quanto prendo. Ma a volte, a quelli della squadra mobile, io e Mariangela i pompini glieli facciamo gratis, li consideriamo un omaggio della ditta. Tra noi due c’è un patto: quando una è in pericolo, cioè sotto le grinfie di Totore o della polizia, l’altra corre a salvarla, qualsiasi cosa stia facendo, anche se è con un cliente. Devo dire che con gli sbirri è più facile, basta poco per non farti portare al commissariato; con Totore invece è molto più difficile e il taglio profondo sul lato destro della faccia che parte dalla tempia e arriva fin sotto la bocca fa capire molte più cose di quante se ne possano comprendere sentendolo parlare. Anche quando non c’è, ci controlla. Non possiamo stare sedute, non dobbiamo fumare, addirittura è vietato andare a pisciare…

Aghi, Ornella Esposito, Augh! Edizioni. Giornalista, assistente sociale, dottoressa in Programmazione, Organizzazione e Gestione dei servizi sociali, autrice, co-produttrice e organizzatrice di produzione del documentario in merito alla condizione della Terra dei Fuochi Ogni singolo giorno, di Thomas Wild Turolo, Ornella Esposito, nell’arco di un decennio, ha ritratto la sua Napoli e le persone che la abitano, spesso in situazioni difficili, di marginalità, dalle quali, in ogni modo, tentano di emergere, con forza, tenacia, passione, ironia, limpidezza d’animo, rabbia, dolore e speranza, con scabra e icastica tenerezza: il risultato è una raccolta di racconti, preceduti da una bella e adatta citazione di Fabrizio De André, cantore degli esclusi e dei reietti, sovente reali maestri di vita che mostrano e ricordano ai più avvantaggiati il corretto ordine delle priorità, mai retorici ed evocativi sin dai titoli (Aghi, da cui prende il nome il volume, Attentati (ovvero come ammazzare Babbo Natale), Benvenuti a Nisida, ’E figlie so’ figlie, Femmina ovvero La Maddalena, Il binario, Giro in moto, Macchie, Terremoti, L’apparenza inganna), che piacevolmente inducono alla riflessione. Da non perdere.

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“Troppo tardi per tutto”

Cattura5.PNGdi Gabriele Ottaviani

Abbandono la stanza e torno alla homepage, filtro le cam per Paese, seleziono il Regno Unito. Clicco sulla finestra di una tizia che mi pare davvero carina. Nell’anteprima si vedevano la scrivania di un ufficio e un paio di gambe fasciate dalle autoreggenti. È una bella ragazza dai capelli rossi e ricci e il viso puntinato di lentiggini. Ha la giacca del tailluer sbottonata, che scopre il reggiseno nero e la pancia lattescente. È senza gonna. Alle sue spalle c’è un uomo che le palpa le tette e la bacia sul collo. Sono in piedi davanti alla scrivania. Ci sono due scaffali pieni di faldoni. La barra del traguardo, posta sotto il riquadro del video, segnala che mancano solo cinquantadue token. Nello status della performer c’è scritto: “Cum in mouth at goal”. L’uomo infila la mano sotto il reggiseno. Poi nelle mutandine. La fa mettere a pecorina sulla sedia. L’uomo si accoscia e le sposta le mutandine. La rossa si dondola sulla sedia d’ufficio. L’uomo massaggia la clitoride descrivendo piccoli cerchi con le dita prima di dare due leccate. Poi si alza, slaccia la cintura e lascia cadere i pantaloni alle caviglie. Fa scorrere la punta dell’uccello tra le labbra guardandosi in cam. Affonda. Cerco di farmelo venire duro. Il moderatore della stanza scrive: “Guys, we have to hit 500 in 8 minutes”. L’uomo continua a pompare. Poi sale anche lui sulla sedia e ci dà dentro aggrappandosi allo schienale. La ragazza ha le sopracciglia aggrottate e si mordicchia il braccio. L’uomo scende dalla sedia, la fa ruotare e glielo spinge in bocca. Un tizio digita: “Horny straight dudes? Add my skype” e aggiunge il suo indirizzo. La coppia smette di scopare. L’uomo si siede sulla sedia e la ragazza sulle sue gambe. Scrivono: “C’mon guys, tip or leave”. Chiedo: “Have you voted for leave or remain?”.

Troppo tardi per tutto, Ivan Ruccione, Augh!. Prefazione del Premio Strega Helena Janeczek. Bisogna un po’ morir per poter vivere, si sa, ma certo è che la nostra realtà è sempre più spaventosa, rabbiosa, volgare, oscena, crudele, cattiva, razzista, prepotente, invidiosa, misera, meschina, gretta, avida: non è inconsueto, dunque, che si cerchi, ognuno a suo modo, l’annullamento. Per non sentire più dolore. Per non affrontare il male di vivere. Per non dover fare i conti con l’assenza di strumenti adeguati per il raggiungimento della felicità, un lusso che spesso e volentieri non ci si concede più nemmeno di ipotizzare, sperare, sognare, perché pare troppo. Per non ammettere i propri fallimenti. Per non prendersi le proprie responsabilità. Per non guardare in faccia il costante ritardo con cui affrontiamo la vita, fuori sincrono rispetto a ogni cosa, alienati, a livello sociale, culturale, economico, politico, emotivo, talmente avvezzi e rassegnati al precariato da non riconoscere nemmeno più nulla di definitivo. Ruccione realizza un mosaico policromo di tessere che compongono il ritratto icastico e magnetico di un mondo che sta fagocitando sé medesimo: da non perdere.

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“E fuori vennero i lupi”

Cattura.PNGdi Gabriele Ottaviani

Passavamo la gran parte del tempo facendo chiacchiere e fumando sigarette. Ero il suo ponte verso il mondo normale, la compagnia buona. E forse anche una buona compagnia. Ogni tanto mi esprimevo in italiano, cosa che lo esaltava per le assonanze con quello che per lui era il linguaggio della mafia. «Great men are not born great, they grow great». Scimmiottava Marlon Brando tenendo il mento proteso in avanti. Mi feci l’idea che chi, come lui, viveva di espedienti illegali lontano dall’Italia, potesse avere una fascinazione per i mafiosi: una visione distorta, probabilmente veicolata dalla filmografia del filone italoamericano. Gesti efferati compiuti con stile. Un tipo di immaginario criminale romanzato e colmo di stereotipi che fa di nome onore e di cognome Corleone. Infami, invece, è la parola giusta. Anche con parassiti, però, potresti provare. Io gli facevo leggere i miei giochi di parole, i primi esperimenti di rebus. Lui mi insegnava a fare a pugni, nel cortile dietro casa sua. Fa i movimenti e tu lo imiti. Ti allena soprattutto con il sacco da boxe. Sta appeso a un albero da barca segato alla base e conficcato nel terreno dietro casa. Lo steccato intorno a noi ha lo stesso colore della parola rissa: albicocca con parti ammaccate più scure. Boxiamo con qualsiasi condizione atmosferica. «Perché non l’hai appeso dentro?». «La casa è per riposare e per scopare, per i pugni ci vuole la Scozia» dice con i suoi occhi adrenalinici, picassiani. Usava il termine “Scozia” per tante cose, tra cui la sua percezione del mondo fuori, dove non sei protetto da niente e ti ritrovi a contatto, senza filtri, con le avversità della strada: la temperatura, il cielo o, ancora peggio, gli uomini. J. non parlava mai del suo passato. Non dava certo l’idea di avere avuto un’infanzia facile. A dire il vero sembrava non averla neppure avuta, un’infanzia.

E fuori vennero i lupi, Andrea Marzocchi, Augh! Michele ha perso il padre da piccolo. È cresciuto in Scozia perché la madre è di lì. Ha incontrato Marta, e tra numerosi alti e bassi, come capita pressoché sempre e inevitabilmente alle coppie che stanno assieme da tanto, la loro vita in comune procede. Michele fa un mestiere meraviglioso, ha trasformato la sua passione in lavoro, è un enigmista: stavolta però non dovrà costruire uno schema che appassioni i lettori o giocare con le definizioni, dovrà sciogliere un altro genere di trabocchetto. Vorrebbe infatti fare pace con la donna che ama e con cui ha discusso poche ore prima, ma si risveglia imprigionato in un locale della casa che condividono, e… Brillante, potente, mozzafiato, geniale.

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“L’altra accanto”

laltra-accanto.jpgdi Gabriele Ottaviani

In quella camera da letto, nell’abitudine del perimetro delle sue quattro pareti, l’orizzonte non esisteva più. Ogni spazio si dilatava e sentivo tutto il male attraversarmi. Sentivo tutto il dolore abitarmi per poi spingersi oltre il limite oggettivo del corpo e disperdersi, svuotandomi di un peso enorme. Ci sono stati giorni lunghissimi nelle sedute del mio esitare. Il tempo che è venuto dopo […] è stato un tempo improprio. Un ruolo solo somministrato. Un prendere a prestito il disordine, la rabbia, per darmi una possibile risposta capace di strapparmi via, anche solo per poco, la sensazione di non essere stata in grado di prevedere. Non avrei mai immaginato un tale responso mentre vivevo al suo fianco. Io c’ero quindi.

L’altra accanto, Barbara Pregnolato, Augh. Annie Ernaux, con L’altra figlia, affronta un tema che solo chi conosce sulla propria pelle può davvero capire, quello del rapporto con un fratello che è mancato troppo presto, prima che noi si nascesse e di cui si è dunque nei fatti preso il posto, ammesso e non concesso che se lui fosse esistito ancora noi ci saremmo stati: Barbara Pregnolato scrive invece L’altra accanto, ma il riflesso pavloviano che porta ad accostare i due diversissimi ma comunque ottimi testi non è soltanto legato alla somiglianza del titolo, che si fa eco immediata. È perché con bellissima prosa Barbara Pregnolato liricamente e senza retorica racconta del dramma forse peggiore che possa capitare a chi vive, un’altra declinazione di un’alterità alla quale non si può opporre alcun rimedio: di amare senza essere ricambiati, perché Rolando ama disperatamente Anna che allo stesso modo dedica cuore e anima al ricordo di Mair, giovanissimo poeta conosciuto anni prima, e… Da non perdere.

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“La vita tragicomica”

81lOP7TCEfL._AC_UL436_.jpgdi Gabriele Ottaviani

«Buongiorno, John, non l’attendevamo così presto». John si sedette con fare risoluto, accavallò le gambe, intrecciò le mani portandole sullo stomaco e con voce chiara e perentoria si rivolse a Ritter: «Vorrei rivedere con voi alcuni aspetti del nostro accordo, se non vi dispiace». «No, certo John, cosa vorresti esattamente?» gli chiese Ritter mostrando disagio. Mentre iniziava a rispondere, con fare noncurante John infilò la mano in tasca e dolcemente premette il pulsante; il delicato click non fu avvertito da nessuno. «Voglio essere sicuro, signor Ritter, che una volta ottenuto il suo scopo lei non possa tornare indietro sulle sue decisioni nei miei riguardi. Io accetto il compito che lei mi affida di sorvegliare il consiglio e le decisioni dei membri, accetto anche di svelare alcuni episodi del passato di qualche persona del consiglio e di votare in conformità alle sue istruzioni. Questo è quello che vuole da me, giusto?». «Giusto, John!». Per la prima volta Fred vide il suo amico disorientato e anche lui del resto non si aspettava tanta audacia da quell’impiegatuccio, ma più di tutto era il tono usato che lasciava sorpresi, autorità mista a consapevolezza dei propri mezzi. Per un istante Fred temette che fosse stato uno sbaglio scoprire le carte in quel modo con Lassiter. Ritter ruppe gli indugi. «Vedo che la notte ti ha portato consiglio e hai colto l’essenza del mio discorso. Ma potresti fare di più, John; se alcuni membri del consiglio non fossero… diciamo apertamente attaccabili, noi potremmo renderli tali se tu mi indicassi quali sono i più facilmente incastrabili. Oh… non preoccuparti, niente di grave, giusto qualche giro di prostituzione, qualche foto qua e là. Che ne dici?». La faccia di John era impenetrabile, una maschera impassibile.

La vita tragicomica, Gabriele Giuliani, Augh!. La vita è complicata, per tutti: ognuno ha i suoi problemi, le sue paure, le sue speranze, le sue gioie, le sue ansie, i suoi segreti, le sue delusioni, le sue incomprensioni, i suoi dolori, i suoi trascurabili momenti di felicità e di infelicità. Si chiama quotidiano perché avviene ogni giorno, a chiunque, siamo tutti commessi e sotto il medesimo cielo, ciascuno è alle prese con avventure e disavventure, ogni cosa, vista da una prospettiva opposta a quella per il tramite della quale siamo abituati a considerarla, appare diversa, distinta, finanche esilarante quando, altrimenti, non potrebbe sembrare altro che tragica. Non c’è nulla di più grottesco dell’esistere, e la vita, del resto, è ciò che succede mentre si è impegnati in altro: ed è nelle loro manie che sono affaccendati, per non dire immersi, avviluppati in una matassa di cui non s’intravvede nemmeno l’ipotesi di un bandolo, questi personaggi, una pinacoteca vividissima di tipi umani frustrati, esasperati, surreali, persino eroici. Giuliani scrive una commedia esistenziale incantevole. Da non farsi sfuggire per nessuna ragione.

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Intervista, Libri

Alessandro Mauro, Basilio e…

Copertina Alessandro Mauro - Basiliodi Gabriele Ottaviani

Alessandro Mauro ha scritto il bellissimo Basilio: Convenzionali lo intervista con gioia per voi.

Da che esigenza nasce questo libro?

Basilio è un personaggio con cui faccio i conti da un po’. Raccontare un ragazzino vuol dire avere a che fare con la condizione umana in una forma iniziale, pura. Attraversare quel tempo di scoperta e sbigottimento è di per sé avventuroso, e spesso strabiliante. Tantissima narrativa mette in pagina accadimenti estremi: pensa solo al successo di giallo e noir. A me è sembrato interessante provare a raccontare l’emozione di cose che in apparenza sono piccole, ma che a chi è piccolo magari paiono enormi. In realtà, comunque, tutto questo è un ragionamento a posteriori. L’origine è più concreta: ti viene in mente, per dire, un ragazzino che si scorda di pagare un gelato, e tutto il casino che ne può derivare. E se quella cosa resiste dentro di te per un po’, poi la scrivi. Poi te ne viene un’altra e scrivi anche quella, e poco per volta hai un personaggio, che nel mio caso è Basilio.

Quando si è ragazzi tutto sembra definitivo, assoluto: poi cosa cambia? Ha ragione Aldo Busi quando scrive: Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quando si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato.?

Probabilmente “il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani” a trenta o quarant’anni perde potenza. Voglio dire: se alle elementari prendi zero, o se qualcuno ti rifiuta a diciotto anni, di solito a un certo punto ti dai una calmata, prendi atto che è andata così. Però tu resti quella persona. Quasi ciascuno di noi è in una relazione piuttosto stretta con quello che era da giovanissimo. Credo, o almeno spero, che tra il lettore adulto e Basilio non ci sia distanza, ma compassione.

Quanto pesano i rimorsi? E i rimpianti?

Credo dipenda dal loro – come dire – peso specifico. Un grande rimpianto è probabilmente peggio di un piccolo rimorso, e viceversa. A parità di peso credo che i rimpianti siano un po’ più dolci dei rimorsi. In fondo le parole lo suggeriscono: il morso è più violento del pianto.

Al tempo che scorre si guarda con più tenerezza o con più nostalgia?

Non credo che Basilio abbia la nostalgia tra le sue intenzioni. Lui è quasi sempre alle prese con guai che gli sembrano irrimediabili, o con desideri squassanti. Non c’è tanto da invidiarlo. Dopodiché le estati dei dieci o dei quindici anni, o gli ultimi giorni di scuola, di qualsiasi anno, restano un tempo irripetibile a prescindere.

Cosa sarebbe bene riuscire a conservare, da adulti, della fanciullezza?

Il fiato, l’elasticità, la strepitosa capacità digestiva; ma ovviamente non c’è verso. Dunque si potrebbe provare a salvaguardare, nella misura del possibile, la capacità di stare nel presente che contraddistingue gli anni in cui, un sacco di volte, si cade e ci si rialza.

Perché scrive?

Scrivere, benché su commissione, è il mio mestiere da molti anni. Decidere di farlo in modo più libero e personale era un esito prevedibile, che mi rimette in connessione con quando, al liceo, ero tutto contento perché c’era il compito di italiano. E ostentavo le mani in saccoccia, mentre avrei fatto bene a portare un vocabolario. A parte questo, trovo che scrivere sia una faccenda molto concreta, sia un fare. Quando stai lì che levi un avverbio, o sposti una virgola, non è troppo diverso dal lavoro di qualcuno che cura una siepe, per fare un esempio. Pubblicare, poi, apre un altro pezzo del discorso. C’è tutta una sovrastruttura – le presentazioni, la promozione – in cui mi sento molto goffo. Allo stesso tempo, però, l’incontro tra i lettori e le pagine è senza prezzo. Mi è già successo con Se Roma è fatta a scale, mentre con Basilio, che è appena uscito, sta iniziando a succedere in questi giorni. Vedere che le persone si divertono, o si emozionano, che quello che hai scritto diventa roba loro, è una buona ragione per farlo.

Il libro e il film del cuore, e perché.

Il giovane Holden, che infatti è la storia di un ragazzetto, e pace per la totale mancanza di originalità. Credo di averlo letto all’età giusta, cioè molto presto, e l’esperienza di immersione provata in quelle pagine, la voce con cui Holden Caulfield racconta i suoi impicci, m’è rimasta impressa come un tatuaggio. Di Salinger ho molto amato anche i Nove racconti, per dire della forma breve, e c’è stato un periodo in cui ho letto ogni riga disponibile di John Fante. Quanto al film, C’era una volta in America, di Sergio Leone. Una macchina narrativa complessa e stupefacente che puoi continuare a guardare per anni, scoprendo nuovi percorsi. Anche lì ci sono i ragazzi, e anche lì, fondamentale, il tempo. Qualcosa vorrà pur dire.

 

 

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Libri

“Basilio”

5bf9ba9dc77a30cd955622cc78b6d44d.jpgdi Gabriele Ottaviani

«Vabbè, ma che cazzo vuoi» disse soltanto, con un volume tale che chi già si era accorto della situazione non ebbe difficoltà a sentirlo. «Oh senti stronzo, bisogna che la fai finita!» gli urlò allora addosso quest’altro con la faccia da cazzo, arrivato dal gruppetto intorno alla ragazza. Con una mano gli agitava l’indice davanti e con l’altra lo spinse sul petto. Basilio guardò altrove per qualche istante, come per organizzare una reazione, e intanto che s’era incazzato davvero e pensava “adesso t’ammazzo, bastardo” e insieme “questo se la prende tanto perché se la vuole scopare lui”, sentì un rumoraccio di nocche e faccia a poca distanza da sé. Nella confusione che ne seguì fu come se gli avessero cambiato le carte in tavola, come se la figurina di Piccolopasztor si fosse sostituita a quella dell’energico stronzo che l’aveva spinto. Ci fu una specie di mischia. Con tutti che strillavano «Fermi» e bestemmiavano, fino a che non stettero davvero un po’ più fermi e si sentì quello che era caduto a terra per la gran pizza ricevuta all’improvviso dal minore dei Pasztor che bestemmiava più forte degli altri e diceva: «Guarda che cazzo m’hai fatto» toccandosi naso e labbro che gli sanguinavano, mentre Piccolopasztor tenuto a bada da due o tre rispondeva che, anzi, doveva ringraziare, senza specificare chi e perché. «Adesso ve ne andate, Giuseppe, adesso prendi e te li porti via» disse a Peppe il padrone di casa che schiumava rabbia perché gli stavano rovinando la festa. «Lasciateci dire qualcosa di interclassista» affermò con allegria Grandepasztor, sopraggiunto solo in quel momento per mano a una splendida ragazza bionda, con il bozzo del pisello che ancora tradiva le ragioni del suo buonumore. Lei era una sua vecchia compagna di scuola adesso al primo anno di università, tra l’altro cugina del padrone di casa. Non erano fidanzati perché nessuno dei due ne aveva, a sentir loro, la “statura morale”, però erano molto affezionati l’uno all’altra e se lo dimostravano ogni volta che ne avevano l’opportunità. Tuttavia, l’invito festoso di Grandepasztor suonò come inopportuno…

Basilio – Racconti di gioventù assoluta, Alessandro Mauro, Augh!. Premi il pulsante giallo, Prima prendiamo qualche gioco, Quando vinci qualche gara, Va bene, va bene, quando fa buio, Poi ti devo far vedere, Fai la tua partita, Dipende se sta nella fila, Quindi sei salvo, stupido cane, Mica che uno non esiste e Dentro bicchieri d’oro Grandepà?: con questi dieci racconti Alessandro Mauro ci accompagna con mano sicura nella vita di Basilio (e Basilio siamo noi, nessuno si senta escluso, che ci sbucciamo le ginocchia e non impariamo mai dalle nostre cadute, se non, e questo in fondo è il bello, a fallire ogni volta meglio, perché solo così si cresce, si esiste e si può forse essere felici, meravigliosamente imperfetti). In principio non era il verbo (anche se le parole sono importanti, eccome, e Mauro, che conosce l’arte della scrittura, le padroneggia con la sapienza estrema di una cuoca esperta che non ha bisogno di ricettari per far star bene a tavola chi ama), ma un piccoletto che inizia le elementari: alla fine, all’ultimo racconto, Basilio viene invitato a una festa di maturità, e in mezzo scorre il fiume della vita, che è quella cosa, sì, che ci succede mentre siamo impegnati in altro, ma anche, per non dire soprattutto, quel tempo da vivere con leggerezza, in modo serio ma mai serioso. Una delizia.

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