di Gabriele Ottaviani
Terra, le mani di mio padre. Pioggia, le mani di mia madre. Non stupisce che non potessero stringersi senza dar vita a una quantità di fango sufficiente a imbrattare entrambi. Anzi, tutti noi. Il primo di noi emerse dal ventre di mia madre nel 1942, in una di quelle giornate monocromatiche in cui esistono solo tinte neutre come in una fotografia virata seppia. Venne chiamato Leland, e chi fu testimone della sua nascita notò come gli fremevano le dita, quasi le sue mani fossero candele e le dita inquiete fiammelle. Nessuno sapeva allora degli incendi che avrebbe provocato. In quel momento non era altro che un neonato con gli occhi grigi di sua madre e i capelli arruffati di suo padre, scuri come se gli fosse caduta la notte addosso. Leland era sempre in collera, ogni giorno, ogni secondo. Potevi girargli intorno finché volevi senza scorgere un solo sorriso. Gli occhi irati ridotti a due fessure sottili. Impossibile ottenere altro. La mascella perennemente serrata, e non il minimo desiderio di rivolgere la parola a nessuno, a parte papà, e Fraya.
Il caos da cui veniamo, Tiffany McDaniel, Atlantide, traduzione di Lucia Olivieri. Tiffany McDaniel scrive in un modo che definire sublime è farle un torto, perché ogni superlativo è riduttivo: è brava, anzi bravissima, potente, anzi potentissima, intensa, anzi intensissima. Qui, con una capacità lirica che sorprende ogni volta di più, capoverso dopo capoverso, ispirandosi alla storia di sua madre e della famiglia di lei, racconta di una ragazza costretta a farsi donna decisamente prima del tempo, ad affrontare, combattere, sconfiggere la violenza, e a prendere in mano il proprio destino. Indimenticabile.