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“Il caos da cui veniamo”

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Terra, le mani di mio padre. Pioggia, le mani di mia madre. Non stupisce che non potessero stringersi senza dar vita a una quantità di fango sufficiente a imbrattare entrambi. Anzi, tutti noi. Il primo di noi emerse dal ventre di mia madre nel 1942, in una di quelle giornate monocromatiche in cui esistono solo tinte neutre come in una fotografia virata seppia. Venne chiamato Leland, e chi fu testimone della sua nascita notò come gli fremevano le dita, quasi le sue mani fossero candele e le dita inquiete fiammelle. Nessuno sapeva allora degli incendi che avrebbe provocato. In quel momento non era altro che un neonato con gli occhi grigi di sua madre e i capelli arruffati di suo padre, scuri come se gli fosse caduta la notte addosso. Leland era sempre in collera, ogni giorno, ogni secondo. Potevi girargli intorno finché volevi senza scorgere un solo sorriso. Gli occhi irati ridotti a due fessure sottili. Impossibile ottenere altro. La mascella perennemente serrata, e non il minimo desiderio di rivolgere la parola a nessuno, a parte papà, e Fraya.

Il caos da cui veniamo, Tiffany McDaniel, Atlantide, traduzione di Lucia Olivieri. Tiffany McDaniel scrive in un modo che definire sublime è farle un torto, perché ogni superlativo è riduttivo: è brava, anzi bravissima, potente, anzi potentissima, intensa, anzi intensissima. Qui, con una capacità lirica che sorprende ogni volta di più, capoverso dopo capoverso, ispirandosi alla storia di sua madre e della famiglia di lei, racconta di una ragazza costretta a farsi donna decisamente prima del tempo, ad affrontare, combattere, sconfiggere la violenza, e a prendere in mano il proprio destino. Indimenticabile.

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“Ho provato a morire e non ci sono riuscito”

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Era iniziato il mio duello all’ultimo sangue con il fantasma pixellato di Vito. Lo vedevo negli specchi dei negozi, mentre mi provavo la felpa del gruppo metal. Nella faccia delle persone che tentavano di sorridermi e io scansavo come la peste. L’amore buttava in me una quantità di odio che non si poteva nascondere neanche nelle magliette più oversize delle bancarelle dei cinesi, neanche sotto la visiera dello snapback più grande di tutti. All’una di notte, con il sottofondo del respiro calmo di Giulio, allungavo la mano sul cellulare e andavo sulla pagina Instagram di Vito. Guardavo le foto, i post. Poi allargavo l’indagine a tutti quelli che gli lasciavano un commento, e poi a tutti quelli che gli mettevano i like. Diventavo preciso e volenteroso. Il primo della classe. Perché quando mi interessa una cosa io arrivo dove voglio. Tanto, non riuscivo a dormire. Ho visto sfilare non so quante centinaia di cappellini Gucci “pezzottati”, di borselli e cinture LV, di mani con le dita piegate in quel gesto che vorrebbe dire «e voi non siete un cazzo». Addominali pompati in palestre sghembe, tipi depilati con le spalle strette e l’elastico rosso delle mutande che esce dai pantaloncini, l’occhio dei pesci stramorti del giorno dopo. Le felpe nere con il logo Nike entrato a forza nel rettangolino della foto. Le sopracciglia grosse e scure. Il medio storto sull’ultima falange. Il cappellino NY che oscura completamente gli occhi. La sigaretta moscia in mezzo alle labbra. Il manifesto «Keep calm and fanculo l’amore». Il cappuccio della felpa addosso anche in casa. Ridacchiavo. C’era pure il selfie sbagliato in cui era entrato il quadretto silver plated della Madonna appeso in corridoio.

Ho provato a morire e non ci sono riuscito, Alessandro Valenti, Atlantide. Chi ha nostalgia dell’adolescenza probabilmente ha ricordi approssimativi. O forse davvero come dice la canzone il tempo è un gran dottore. Quando si ha quattordici anni, ma anche qualcuno in più, e qui la memoria va subito al film di Téchiné presentato a Berlino e ignorato dalla giuria nonostante fosse una delizia sublime, si scopre di norma l’amore. Che, se già normalmente è tutto, e il fatto che sia così è tutto ciò che ne sappiamo, figuriamoci quando l’esistenza vive di assoluti. I social uniscono, i social dividono, e la sofferenza porta a crescere, e a lottare con le unghie e con i denti perché il proprio posto nel mondo sia quello giusto: più che un romanzo, una deflagrazione. Fossero tutti così i libri d’esordio…

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“Sul lato selvaggio”

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Cercai di ricostruire cosa fosse accaduto da quando ero ancora distesa sul letto nella stanza di John il Piscione all’istante in cui mi ero risvegliata all’aperto. Ma tutto ciò che riuscii a sentire fu la mia carne fredda, che tentava come meglio poteva di farsi carico della 233 situazione, tenendo a bada il tremito provocato dall’astinenza che mi scorreva nelle vene. «Le serve aiuto?», chiese la donna. Sapevo che era la classica moglie sfornafigli: un po’ come una porta a battente, pronta ad aprirsi e richiudersi un milione di volte in poche ore. La moglie ideale, per una fattoria come quella. «Ho vissuto qui. Anzi, non proprio…». Mi sedetti sull’erba, perché in quel modo mi sentivo meno nuda. «Ci viveva nonna Keith. Mia nonna, insomma». La donna guardò la strada, deserta in entrambe le direzioni, capendo forse solo in quell’istante che ero sola. «Ha bisogno di telefonare a qualcuno?», chiese, mentre stringeva la figlia e lo strofinaccio con la stessa forza. «A mia sorella», risposi, cercando di ignorare gli scarafaggi neri che sbucavano dal terreno. Erano grandi, come tutte le cose che ti vengono incontro strisciando, nella speranza di poterti divorare. Mentre avanzavano verso di me, mi pareva che avessero un paio di ali extra sul dorso. Poi vidi che erano altri scarafaggi, disposti a croce. Ogni scarafaggio portava i suoi morti sulle spalle. Non capivo se fosse un modo per gli scarafaggi vivi di portare il lutto, o per gli scarafaggi morti di ritardare il loro addio al mondo. «Può entrare, se vuole», disse la donna, stringendo i denti mentre apriva la porta. Mi alzai e mi coprii con le mani come meglio potevo…

Sul lato selvaggio, Tiffany McDaniel, Atlantide, traduzione di Luca Briasco. La sua prosa non ha bisogno di presentazioni, è indubbiamente e indiscutibilmente una stimolante meraviglia che regala grappoli di sensazioni deflagranti a ogni volgere di pagina: Tiffany McDaniel conosce l’arte della parola con la sapienza della sacerdotessa di un culto a cui ammette ognuno, purché abbia in animo il desiderio d’ascoltare e d’appassionarsi alla sconfinata gamma di poteri e possibilità che scaturiscono come lava da un vulcano. Sul lato selvaggio, anteprima mondiale di Atlantide, prende spunto da una serie di sparizioni e delitti femminili insoluti avvenuti a Chillicothe, in quell’Ohio che ha dato i natali all’autrice, che tuttora vi vive, per indagare i meandri più oscuri della nostra esistenza. Formidabile, ipnotico, ammaliante:  impeccabile e imprescindibile.

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“Vita eterna”

vita-eterna-dara-torn-edizioni-di-atlantidedi Gabriele Ottaviani

All’improvviso era di nuovo un adolescente, tranne per il fatto che era nonno. La distinzione tra adolescente e adulto le sembrava futile. In effetti ricordava molti secoli in cui quella particolare distinzione neppure era esistita. Era futile, pensò, insieme alla distinzione tra nascita e morte. Tutto e tutti attraversavano il mondo in un soffio, foglie trasportate dal vento. Tutto aveva importanza, o era tutto una scandalosa perdita di tempo?

Vita eterna, Dara Horn, Atlantide, traduzione di Matteo Vignali. Scrittrice, professoressa, con questo, splendido sin dalla raffinatissima copertina, selezionato fra i cento migliori libri di due anni fa dal New York Times, romanzo, il suo quinto, Dara Horn, autrice di chiara e meritatissima fama a livello internazionale, racconta di un dono. O forse di una maledizione. Dà corpo al desiderio, all’anelito, all’incubo – del resto si dice che quando Dio vuole punirti ti realizza i sogni – di molti. Vivere per sempre. Rachel era una ragazza quando il Tempio di Gerusalemme fu distrutto, e da allora continua a vivere, vede morire chi ha amato, gli uomini, e i figli che ha dato alla luce. Filosofico, magistrale, elegantissimo, monumentale: più che un romanzo, una rivelazione.

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“Tenera è l’acqua”

teneradi Gabriele Ottaviani

Si era chinata su Gloria. Aveva sempre le palpebre abbassate, ma sembrava più agitata e aveva preso ad aprire e chiudere i pugni con forza, fino a gonfiare le vene intorno ai polsi. Di colpo si stupì di non averci pensato prima. Il vomito, la nausea, le mammelle ingrossate. Poteva essere incinta. Non bisognava davvero escluderlo. A quattordici anni una gravidanza sarebbe stata per chiunque un problema, ma nella situazione familiare di Gloria addirittura un dramma. La madre lavorava in nero come commessa in un negozio di viale Libia, aveva tre fratelli più piccoli, il padre se n’era andato e, da quanto lei aveva capito, non si preoccupava minimamente di contribuire a mantenerli. Gloria non aveva mai un soldo in tasca, non partecipava ai campi scuola. Da quattro mesi era senza cellulare perché lo aveva perso e la mamma non glielo aveva ricomprato. Una tragedia per un’adolescente.

Tenera è l’acqua, Sebastiano Nata, Atlantide. Sono amici, si amano, amano il nuoto, sono feriti, spaesati, smarriti, non si riconoscono nel mondo che li circonda, nella realtà tentacolare e spersonalizzante che li avvolge e che pare divertirsi a svellere ogni punto di riferimento: Roma del resto è metropoli, certo, ma anche provincia, agglomerato di contrapposte intimità, di fragilità lievissime ma inesorabili. Giacomo, Mattia e Paola sembrano essere sempre ogni volta sul punto di arrendersi, di lasciarsi andare alla corrente, di pensare che in fondo non ne valga affatto la pena, che nulla importi: ma poi, invece, restano a galla, nuotano, lottano, resistono. Perché in una realtà sempre più materiale, invidiosa, rabbiosa, cattiva e iniqua ci deve essere ancora spazio per la speranza, per ciò che non si può comprare, ma che proprio per questo ha valore inestimabile: Sebastiano Nata parla con accenti liricamente scabri, e per questo maestosi, di coraggio, solitudine e dignità, con una prosa che è semplicemente necessaria.

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“Quando tutto è detto”

anne Griffindi Gabriele Ottaviani

La giornata andò perfettamente, finché non venne il momento di riaccompagnare Noreen a casa. Dopo la cerimonia, eravamo tornati alla casa di Annamoe per la colazione e, come poi si rivelò, per il pranzo. La mattina divenne pomeriggio e le cose iniziarono a calmarsi via via che i vari ospiti tornavano a casa loro, inclusi i miei genitori; mio padre aveva preso in prestito una macchina per quel giorno, da chi non saprei. Ma Noreen aveva altre idee rispetto al tornare a casa al Saint Catherine. E quando sua madre si alzò per aiutarla a prepararsi, lei si avvinghiò a me, poi alla cornice della porta e, infine, al tavolo della cucina. Alla fine il padre dovette tirarla via con la forza. Ma lei doveva avere una bella presa perché, quando lui riuscì ad allontanarla, entrambi andarono a sbattere contro il muro. Rimase incollato lì, premuto dal peso di lei. Corremmo in suo aiuto ma non fummo abbastanza veloci da impedire a Noreen di voltarsi e affondare le unghie nel viso di lui.

Quando tutto è detto, Anne Griffin, Atlantide, traduzione di Bianca Rita Cataldi. Maurice è anziano, burbero, simpatico, elegante, ben vestito, solo e con un segreto ben custodito nel cuore, da anni e anni, un mistero che non riguarda solo lui, né esclusivamente la sua famiglia, né soltanto la sua gioventù, bensì anche l’albergo nel cui bar si trova, il Rainsford House Hotel, nella contea di Meath, in Irlanda, e coloro che per anni, prima ancora che diventasse la lussuosa residenza che è, circondata da terreni che in gran parte sono di proprietà dello stesso Maurice, vi hanno dimorato: e in un tardo pomeriggio che non lascerebbe in realtà presagire alcunché di anomalo, forse è giunta l’ora per tutti i nodi di venire al pettine… Anne Griffin, all’esordio nella dimensione del romanzo proprio con quest’opera che è diventata in breve tempo un vero e proprio caso letterario (in corso di traduzione in sedici lingue), ammantato di quella tipica fitta trama di suggestioni propria della letteratura che proviene dall’isola verde per antonomasia, tratteggia ritratti di personaggi, ambienti e situazioni così dettagliati da risultare subito indimenticabili.

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“La dinastia dei dolori”

dinastia doloridi Gabriele Ottaviani

Cercai allora, immersa nell’ansia, di tornare allo sguardo di mio padre, al suo braccio intorno alle spalle quando quello stesso pomeriggio mi aveva accompagnata a fare merenda nel bar di fronte all’ufficio. Era bastato quel gesto ad allontanare il disgusto, la mia personale pellicola dell’orrore. «Sei pallida», aveva detto. «Ma a volte basta una cosa piccola e buona per sentirsi meglio», e mi aveva indicato una pasta al cioccolato. «Hai saputo che la nonna Emma sta male?», mormorò. «No, non lo sapevo. È grave?». «Abbastanza», rispose mio padre. «Morirà?». «Forse sì». A me però sembrava più grave quello che era accaduto a me. «Posso avere un’altra pasta?». Papà sorrise e ne ordinò una anche per sé. Pensando a questo, la prima notte in cui non ero più vergine, finalmente mi addormentai.

La dinastia dei dolori, Margherita Loy, Atlantide. Non è detto che la memoria sia sempre assolutamente veridica: talvolta infatti può essere influenzata da numerosi fattori. Le conseguenze di un trauma, per esempio, possono ripercuotersi su più persone e attraversare il tempo e le generazioni, lasciando segni meno evidenti di quanto si potrebbe supporre o pensare, e dunque ancora più imperscrutabili: a partire dagli anni Venti del Novecento, in epoca fascista, fino ai giorni nostri, Margherita Loy, capitolina di nascita ma toscana d’adozione, autrice di racconti e libri d’arte per bambini, moglie e madre, conduttrice e traduttrice, dottoressa in lettere moderne e addottoratasi in letterature comparate, con accenti originalissimi ma al tempo stesso classici, che ricordano la grande narrativa di autrici come Fausta Cialente, Laudomia Bonanni, Elda Bossi e Anna Banti, nonché con eleganza misurata e sopraffina, racconta le articolate, complesse, mai retoriche o banali vicende, intime e particolari, ma al tempo spesso universali, private ma ben amalgamate nel contesto della storia con l’iniziale maiuscola, delle sue protagoniste, donne a tutto tondo, profonde, dalla personalità ampia, vasta e varia, alle prese con scelte difficili, dalle conseguenze spesso dolorose, come sono di norma quelle dettate da inderogabili necessità, dai compromessi e dalla sopravvivenza. Nella Roma su cui da un paio d’anni Mussolini ha fatto sì che i suoi sodali vestiti di nero marciassero, impadronendosi del potere ed estirpando lo stato liberale, preparando la strada alla carneficina della seconda guerra mondiale, Emma cede per terribile e niente affatto giustificata volontà d’espiazione di una colpa considerata tale più che altro, se non pressoché esclusivamente, dalla mentalità proterva, ristretta e malata del contesto sociale, a un matrimonio di convenienza la cui facciata d’abbacinante nitore cela in realtà un mondo di squallore, ipocrisia e sopruso. Un complesso d’inferiorità che avvelena l’aria, da cui Emma non sa emanciparsi, che fa sì che anche i suoi figli la osservino con malcelato disgusto. Solo un’altra figura femminile saprà rivolgerle uno sguardo delicato, materno, sensibile, empatico: ma anche per Maria, e poi per Rita, verrà il tempo del dissidio interiore, e della presa di coscienza… Meraviglioso sin dalla copertina, è un’occasione da cogliere al volo.

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“Larchfield”

polly-piattodi Gabriele Ottaviani

Larchfield, Atlantide, Polly Clark. Traduzione di Federica Bigotti. Per la prima volta pubblicata in Italia, è un’opera straniante, sorprendente, intensa, particolare, unica, emozionante, simbolica, profondissima, potente, bellissima, appassionante, convincente, coinvolgente, entusiasmante, lirica, di rara efficacia, travolgente, raffinata, sbalorditiva: è la storia di due persone formidabili, due personaggi davvero fuori dall’ordinario, che si sentono come l’albatros a terra, goffi, impacciati, sbagliati, mentre nella realtà ovviamente non è affatto così, ma il mondo pare respingerli, faticano a trovarvi il proprio posto. Dora ha abbandonato la carriera universitaria a Londra, è una scrittrice ma sta per diventare madre, mentre Wystan ha appena finito gli studi a Oxford: è il poeta W. H. Auden, e… Da non perdere.

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“Miss Rumphius”

copertina-tagliatadi Gabriele Ottaviani

Rimarrai per sempre nel mio cuore.

Miss Rumphius, Atlantide, storia e disegni di Barbara Cooney, traduzione di Flavia Piccinni. Ha vinto l’American Book Award. È il miglior libro dell’anno secondo il New York Times. È una delizia. È pura poesia. È una favola senza tempo. È la storia di una bambina che ha fatto una promessa. Diventare una viaggiatrice. Rendere il mondo un posto migliore. Un posto più bello. E c’è riuscita. Conoscendo gli altri. Aprendo la sua mente e il suo cuore. Moltiplicando amore e umanità. Divenendo una donna straordinaria. Diventando Miss Rumphius. Sublime sotto ogni aspetto, è una vera e propria opera d’arte. Impeccabile e imprescindibile.

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“Sweet dreams”

unnameddi Gabriele Ottaviani

Si mette a letto con la sensazione che si troverà davvero bene in quella città.

Sweet dreams, Michael Frayn, Atlantide. Nato a Londra ottantacinque anni fa, Frayn è un autore celebre e formidabile cui si debbono opere di indubbio rilievo anche in ambito teatrale. Questa è la storia di Howard. Un uomo. Giovane. Ambizioso. Di belle speranze. Dalla mente aperta. È in macchina. È al semaforo. È rosso. Scatta il verde. Riparte. Ma di fronte a sé non c’è la via che immaginava. Bensì una superstrada a dieci corsie che punta dritta verso una metropoli. New York? Los Angeles? San Francisco? Tokyo? Città del Messico? No. Il paradiso. Il luogo dove ogni cosa può accadere. E… Brillante, intelligente, allegorico. Da non perdere.

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