di Gabriele Ottaviani
Convenzionali ha segnalato la conclusione della prima fase della quinta edizione del Premio Goliarda Sapienza, da cui sono scaturiti i venticinque finalisti, ognuno affiancato da un tutor: un premio per i “Racconti dal carcere” ideato e diretto da Antonella Bolelli Ferrera, che ora abbiamo il piacere e il privilegio di intervistare.
Per chi non la conoscesse, chi era Goliarda Sapienza?
Goliarda era una scrittrice, un’artista, un’intellettuale raffinata che, come spesso accade, è stata scoperta quando lei ormai non c’era più. L’arte della gioia, la sua opera di maggiore successo, fu apprezzata prima in Francia che in Italia e così molti altri suoi libri.
Cosa la ha affascinata di questa figura?
Era una donna molto libera e fuori dagli schemi che in un momento di forte disagio si trovò a vivere l’esperienza del carcere. Fu detenuta per un breve periodo a Rebibbia femminile, erano gli anni ‘80. Si trovò catapultata in quella realtà così lontana da lei e dal suo mondo, avrebbe potuto non reggere l’impatto, invece accadde esattamente il contrario. La vita accanto alle altre detenute si trasformò per lei in occasione di conoscenza: lì s’impara la convivenza, s’impara l’arte di arrangiarsi, s’impara anche la solidarietà. Goliarda seppe trasformare la sua carcerazione in un’esperienza umana, mostrando ancora una volta la sua grande sensibilità, intelligenza e anche senso dell’ironia.
Perché ha deciso di dedicarle un premio?
Perché dall’esperienza del carcere scaturì un romanzo breve, intitolato L’Università di Rebibbia che rappresentò per lei la prima opportunità di veder pubblicato un suo libro. Fu l’inizio della sua attività letteraria, un inizio inconsueto – anche se non certo l’unico nella storia della letteratura – favorito dalla carcerazione. Mi sono detta che potrebbe esserlo per molte altre persone che vivono quella condizione. Così è nato il Premio e non potevo che dedicarlo a lei, a Goliarda Sapienza.
Ha dovuto affrontare particolari difficoltà o ha invece ricevuto subito sostegno, anche dalle istituzioni? Ho avuto subito l’appoggio della Siae, che ancora oggi consente con il proprio contributo la realizzazione del Premio, e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che ha creduto nel valore riabilitativo dell’iniziativa. Dalla seconda edizione è giunto il sostegno di tutte le più importanti istituzioni.
Come è avvenuta la scelta dei tutor? E quale sarà il loro ruolo?
Sono tutti scrittori, artisti e giornalisti affermati che mettono a disposizione la loro penna, e la loro umanità, al racconto e alla persona detenuta che viene loro abbinata per sorteggio. È emozionante assistere al loro incontro. Due mondi così distanti e così vicini, grazie alla scrittura.
Lei è riuscita a coinvolgere nel progetto a vario titolo grandissimi nomi del mondo culturale italiano, nel senso più ampio del termine: come ha fatto?
Grazie ai programmi culturali che ho condotto alla radio ho avuto l’opportunità di conoscere molti personaggi di spicco della cultura. Il primo anno mi sono rivolta soprattutto agli amici poi è stato come un passa parola. Sono contenta che oggi qualcuno mi chieda espressamente di partecipare come tutor per il piacere di entrare a far parte di questo progetto.
Cosa la colpisce delle opere che partecipano al concorso?
Senza dubbio la capacità comunicativa: molti racconti riescono a catapultarti nelle storie, trasmettendo gli stessi sentimenti di chi li scrive.
Cosa pensa della situazione carceraria in Italia, soprattutto per quel che concerne le effettive opportunità di crescita, anche culturale, per i detenuti che poi, si auspica, una volta scontata la loro pena, che si reintegrino pienamente nella società e non commettano più reati?
Credo fermamente nella rieducazione del detenuto volta al suo reinserimento nella società una volta libero. Oggi esistono moltissime iniziative che vanno in questa direzione ma è anche il detenuto stesso che deve volerle cogliere. Certo, se una volta fuori, sei abbandonato a te stesso e nessuno è disposto a darti un lavoro perché pregiudicato, la possibilità di ricommettere un reato diventa la seconda opzione.
Secondo lei come appare dal carcere il mondo esterno? E viceversa?
Dal carcere, lo dicono i detenuti, si tende a congelare i ricordi. Tutto rimane fermo all’ultimo istante vissuto fuori, all’ultima percezione. Anche se poi c’è la televisione che aggiorna in tempo reale… È piuttosto il punto di vista di chi è fuori che secondo me si discosta abbastanza dalla verità, o meglio, è molto parziale. Lo dico perché prima di frequentare sistematicamente le carceri e di conoscere di conseguenza tante persone detenute, anch’io avevo una visione limitata di quel mondo.
Cosa si augura che questo premio rappresenti?
La finalità del premio è di rappresentare un esempio concreto di ciò che è sancito dall’art. 27 della nostra Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, tenendo conto delle proprietà socialmente riabilitative del lavoro, e – voglio aggiungere – del lavoro intellettuale che le attività di pensiero e di scrittura inducono.
Pubblicare i racconti e realizzare da essi anche dei cortometraggi è molto importante per far conoscere queste opere: quale spunto di riflessione spera che da esse scaturisca nel pubblico?
L’accettazione dell’essere umano, con i propri limiti e fragilità. Stiamo parlando di persone che hanno sbagliato e che stanno scontando la loro pena, ma che devono avere una seconda opportunità di vita. Mi piace la frase di un detenuto, Salvatore Torre: “Rifletto, con malinconica ragionevolezza, che la colpa può essere di uno solo, ma che la speranza dovrebbe essere di tutti, anche del colpevole”
Si è mai chiesta cosa possa portare delle persone, spesso di grande sensibilità, come si evince dai loro scritti, in carcere? Mancanza di opportunità, un ambiente difficile, la povertà…?
La vita può prendere una direzione inaspettata in ogni momento; nella maggior parte dei casi, però, è un’infanzia violata che li ha condotti sulla strada della criminalità.
Le sezioni del premio sono due, adulti e minori. Che dovere ha la società nei confronti di ragazzi non ancora maggiorenni ma che già hanno purtroppo conosciuto l’esperienza del carcere?
Rispondo con una ovvietà: i minori, molto più degli adulti, devono essere seguiti e aiutati in un percorso di legalità. Non solo perché meno colpevoli degli adulti per i reati che hanno commesso, ma anche perché è più facile che un seme proliferi in un terreno ancora non totalmente contaminato.