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“Cosa rimane dei nostri amori”

81Q1S-0t7ZL._AC_UY218_ML3_di Gabriele Ottaviani

Cinque rintocchi di campane, e poi tutto si mangiò la nebbia. Tutto, tranne i pensieri.

Cosa rimane dei nostri amori, Olimpio Talarico, Aliberti. Magnifico il titolo, splendida la copertina, meravigliose e quanto mai appropriate le parole con cui questo romanzo pluristratificato, solido e trascendente il genere, bello, intenso, avvincente, avvolgente, coinvolgente, entusiasmante, profondo, potente e lirico, nonché sorprendente a ogni volgere di pagina, scritto da Olimpio Talarico, crotonese che da quasi trent’anni vive e insegna lettere a Bergamo, è stato inserito nel novero dei cinquantaquattro libri fra cui sono stati scelti i dodici in mezzo ai quali inevitabilmente ci sarà quello che si aggiudicherà fra qualche mese il premio Strega, il più ambito e prestigioso riconoscimento letterario italiano, da un Amico della Domenica d’eccezione come Ferruccio De Bortoli: «Le province, i borghi nascosti e sconosciuti, i non-centri del nostro Paese dove il tempo scorre in modo diverso e la vita sembra non accadere. Sono queste le nuove grandi protagoniste della narrativa italiana degli ultimi anni, luoghi in apparenza silenziosi ma dove il vissuto dei personaggi fa un rumore assordante. È quella di Caccuri, quella di una Calabria genuina e inedita la provincia che Olimpio Talarico mette in scena tra le pagine di Cosa rimane dei nostri amori, raccontando l’intenso legame tra il borgo crotonese e le storie dei suoi abitanti. Un senso di repulsione e avvicinamento necessario caratterizza questo legame, un legame che ogni lettore riconosce come proprio. Un rapporto denso di amore-odio conduce chi legge a capire il senso del profondo radicamento nei confronti della propria terra, indiscutibile presupposto alla vita di tutti. Il pretesto per indagare questo particolare legame è dato da un crudo fatto di cronaca nera, che getta sulle più strette relazioni del protagonista una pesante ombra di sospetto. Il merito di Olimpio Talarico è quello di far scoprire ai lettori il proprio passato mentre li conduce tra le strade una Caccuri forte e cruda, calandoli in una lingua complessa e intrisa di termini dialettali. Ed è proprio quando chi legge sarà entrato nel seducente dipanarsi della trama e avrà scoperto i più spietati atti che un uomo è in grado di compiere, che Talarico obbligherà tutti noi a interrogarci: “E se fossi io?”.» Talarico narra, regalando bellezza e spunti di riflessioni finanche dolorosi, una vicenda che inizia il giorno di San Giuseppe, nell’anno del Signore millenovecentosessantaquattro, quando a pochi chilometri dal paese di Caccuri viene ritrovato un ragazzo. Morto. Dispersa la sua fidanzata. Uccisa in modo orrendo anche una strana e anziana signora della zona, mai stata sposata. Il prete del borgo, più simile a Torquemada che a un discepolo di Cristo, punta il dito contro Amilcare Jaconis, ex preside del paese e amante della letteratura in maniera tanto forte da aver trasmesso questa che è quasi un’ossessione ai suoi figli, tra cui Jacopo, musicista e autore di colonne sonore, che, come del resto anche il maresciallo della cittadina, non crede alla colpevolezza del padre. per lui, però, deve comunque cominciare un percorso di agnizione. Che non sarà facile… Intensissimo.

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“Sei lezioni di Storia e altre incursioni nel mondo antico”

download (3).jpgdi Gabriele Ottaviani

Il templare ideale chi era? Diciamo che era un uomo sulla quarantina, che aveva già cresciuto i suoi figli, era ancora nel pieno del vigore fisico, magari era vedovo come il fondatore Hugues de Payns, quindi un uomo che poteva dedicare la seconda parte della sua vita al servizio della Chiesa, della cristianità e del re della Terra Santa. Acquisirono, come ho detto, un prestigio enorme. Moltissimi personaggi illustri fecero loro delle grandi e importanti donazioni. E così nacque il mito dei Templari: una milizia di Cristo. La grande croce rossa che campeggiava sul petto, sul mantello, sullo stendardo diventò qualche cosa di epico. Uomini che si battevano con grandissimo coraggio, con grandissima determinazione, che avevano una disciplina ferrea quando si trattava di combattere. Uomini che venivano da tutte le parti d’Europa: ce n’erano di inglesi, di francesi, di tedeschi, di italiani, di spagnoli. Per questo nacque anche una lingua loro, una specie di miscuglio affascinante di tutti i loro idiomi; anche quello era l’outre-mer, la lingua franca dei Templari, anche se c’era una matrice francese che rimaneva fondamentale, molto importante.

Sei lezioni di Storia e altre incursioni nel mondo antico, Valerio Massimo Manfredi, Aliberti. La storia siamo noi, nessuno si senta escluso, diceva qualcuno. La storia è maestra di vita, diceva qualcun altro. La storia è una insegnante cui spesso e malvolentieri, purtroppo, difettano gli allievi, sosteneva qualcun altro ancora. e invece la voce della storia va ascoltata. Perché la conoscenza è l’unica ricchezza che nessun ladro potrà mai sottrarre. Perché chi non ricorda ha scolpita nel suo destino la condanna alla ripetizione. A rivivere il già vissuto, spesso andando sempre peggio. Valerio Massimo Manfredi, la cui prosa non ha bisogno di presentazioni, perché sa essere insieme aulica, solenne e comprensibilissima, conduce con mano sicura il lettore a spasso nel passato: ed è un’occasione che sarebbe un vero peccato vanificare.

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“Via Convento”

41i1AuZh7iL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Che si grembiulassero solo i cretini, porca miseria! I sani di mente, in fondo, che c’entravano?

Primo, dopo, successivo, immediatamente dopo, un altro, dopo quello di prima, susseguente, prima di quello dopo, dopissimo, successivo al precedente, precedente al successivo, a questo punto, ma non significa che mi arrendo, ancora più nuovo, che segue l’altro, che precede l’alt, nuovissimo, ancora più nuovo, terzultimo o penultimo, dipende, primo. Perché?. Basterebbe quest’elenco per far capire che ci si trova dalle parti del genio. Perché questo è l’elenco dei titoli dei capitoli di cui è composto il libro di Roberto Corradi, con cui chi recensisce vorrebbe tanto avere in comune la brillantezza della prosa, ma invece condivide solo il fatto d’essere romano, d’aver scritto per il teatro, di leggere regolarmente Topolino e di avere un’innata idiosincrasia per chi scrive centra per intendere c’entra. Ah, e, per un unico anno di asilo e cinque di elementari, esattamente come il suo protagonista, Alberto, di essere andato a scuola dalle suore (spagnole e a tratti amorevoli, meno temibili delle sue Giovannine). O come dice lui nel sottotitolo di Via Convento (Aliberti compagnia editoriale) di averci fatto il militare. Reduci delle elementari dalle suore: ci riconosciamo, noi che abbiamo avuto a che fare con le varie Suor Liberata e Incatenata di Dio, Idolatrata di Dio, Investigata di Dio, Incrementata di Dio, Temistocla Paziente, Laudatasìomisignore eccetera eccetera eccetera. Perché siamo stupefatti di esserne usciti vivi e di aver saputo bene o male affrontare il mondo. Via Convento è un’esilarante e profondissima commedia umana, da leggere e rileggere. Con un affettuoso sorriso rivolto ai bambini che siamo stati. E che, per fortuna e/o purtroppo, non siamo più.

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“Romanzo selvaggio”

41ylJDMxQGL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

E infatti eravamo usciti sul terrazzo che era il paradiso del kamikaze islamico.

Romanzo selvaggio, Macello, Aliberti. Nulla è lasciato al caso, nulla è pudicamente nascosto, nemmeno la protervia, la blasfemia, lo sconcio squallore. La foto è impietosa. Simbolica. Allegorica. Ma al tempo stesso tragicamente schietta e realistica. Si chiamano ALT, CANC, CTRL, ESC. Sono i quattro cavalieri di un’apocalisse che già c’è. Squadernata in tutta la sua corrompente meschinità che inonda ogni luogo. Studiano. In facoltà pornografiche e con un unico scopo. Creare nuovi disoccupati. Parlano di teologia con un angelo, si fanno di tutto, gestiscono affari con i clan e vivono senza esistere davvero in una Milano che è madre e meretrice, sfondo e protagonista. Il nostro mondo è alla deriva, è un cumulo di macerie, è una notte in cui non si vede la luce. Se appare una luna, in realtà, a ben guardare, può essere al massimo un lampione. O un’insegna artificiale. Eppure appare certo che il controcanto di questo grido di dolore sia una disperata speranza. Il collettivo Macello scrive un baedeker tossico à la Trainspotting naïf, feroce, dolce, destabilizzante.

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“Un pesce rosso, due lesbiche e un camper”

41-VKMkHv3L._SX330_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Era da un po’ che non vedevo in giro Pietro, amico d’infanzia di tante avventure. Stessa squadriglia nei boyscout, stesso giro di amici e compagno fidato delle prime fumate, dietro la chiesa. Pietro era il bello della compagnia. Biondo, magro, donnaiolo e nostro procacciatore di riviste porno.

E invece a quanto pare vuole farsi monaco. Pietro? Sì, Pietro. Ha ricevuto la chiamata? Beh, non proprio… Viola, invece, se avesse avuto una condotta un po’ più monastica non avrebbe fatto un soldo di danno, soprattutto al nostro narratore. Un ragazzo che vuole fare lo scrittore. E il poeta. E qui cominciano i problemi, anche a causa – incredibile dictu – di un pesce rosso. Meno male che c’è la nonna. Lady Letizia. Inventa più neologismi lei di un linguista, intreccia tre dialetti dalla Puglia con furore e conversa amabilmente con la badante ucraina, anche lei trapiantata in quest’angolo veracissimo, romantico, sempiterno e fuori dal tempo di Romagna che è Portolino, sulle sponde dell’Adriatico che per qualcuno era selvaggio e verde come i pascoli dei monti e per qualcun altro invece ha tutt’altro aspetto. Insomma, un luogo dell’anima e dello squacquerone, un microcosmo che si fa macro e abbraccia tutti, perché in ognuno dei personaggi c’è un po’ di noi, perché siamo tutti, volenti o nolenti, sotto lo stesso cielo. Nel frattempo il parroco, Don Anticristo, bòia d’un mànnd lèder (anzi, verrebbe anche da usare l’altra e più celebre espressione di sorpresa tipica del capoluogo di regione, ma quelli che ben pensano potrebbero aversene a male…), dalla sera alla mattina svanisce come la nuvola d’incenso quando la messa è finita, più svelto persino di Dante, il postino, che non corre, però, per abnegazione. Almeno, non rivolta alla corrispondenza… Un pesce rosso, due lesbiche e un camper, Paolo Simoni, Aliberti. Una commedia umana semplicemente deliziosa, da non perdere.

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“Le carte segrete del “Post””

51Et1CYedJL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Mi sentivo sotto assedio.

Le carte segrete del “Post” – Dai Pentagon Papers al Watergate, Katharine Graham, Aliberti. Traduzione di Giorgio Moro. Tratto da Personal history. Meryl Streep l’ha appena incarnata al cinema, prendendosi, questa volta con pienissimo merito, senza nemmeno l’ombra di un dubbio, l’ennesimo grappolo di nomination in tutti i principali premi internazionali relativi alla settima arte. Nessuno credeva che in un mondo maschile potesse tenere la barra dritta. Nessuno credeva che avrebbe avuto il coraggio di dire ai suoi lettori la verità. Nessuno credeva che fosse capace. Nessuno credeva che sapesse organizzare qualcosa di più complesso di una cena di gala. Katharine Graham, l’editrice del Washington Post, prima di lei quotidiano molto meno prestigioso di quanto poi non sia diventato grazie al suo indomito impegno, che ha scoperchiato le menzogne del governo USA, racconta la sua storia. Moralmente indispensabile.

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“La vita imperfetta”

tabucchi_coverdi Gabriele Ottaviani

Un libro è sempre una realtà parallela. La letteratura è sempre un “di più” rispetto a ciò che c’è, e in quanto tale è un’altra realtà. Essa aggiunge un qualcosa che prima non esisteva. In fondo, la Tavola degli elementi chimici è limitata: la letteratura aggiunge un qualcosa che in natura non esisteva, come se fosse un elemento chimico in più. La letteratura dunque inventa. Essa inventa dal nulla una realtà che prima non esisteva. La letteratura è quindi creativa, perché inventa. Ma al pari della scienza non si limita a questo, che è già straordinario: essa scopre.

La vita imperfetta, Marco Alloni intervista Antonio Tabucchi, Aliberti. Era il duemilaundici quando uscì Saudade di libertà. Oggi quelle parole vengono riproposte in questa nuova veste: sono tra le ultime dichiarazioni rilasciate da Antonio Tabucchi (Piazza d’Italia, Il piccolo naviglio, Il gioco del rovescio e altri racconti, Donna di Porto Pim, Notturno indiano, Piccoli equivoci senza importanza, Il filo dell’orizzonte, I volatili del Beato Angelico, Pessoana minima, I dialoghi mancati, Un baule pieno di gente, L’angelo nero, Sogni di sogni, Requiem, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, Sostiene Pereira, La testa perduta di Damasceno Monteiro, L’oca al passo, Il tempo invecchia in fretta), uno dei più importanti intellettuali italiani, a Marco Alloni, scrittore e giornalista italiano, nato nella ticinese Mendrisio, collaboratore di molte testate, da anni residente nella capitale egiziana, dottore in lettere moderne con una tesi su Paolo Volponi e gli esiti narrativi della questione industriale, vincitore del Premio Grinzane Cavour Esordiente nell’edizione del millenovecentonovanta con La luna nella Senna. Il dialogo con Tabucchi, densissimo e assolutamente da non perdere, è in realtà una finissima esegesi della condizione umana, compresa anche attraverso il filtro della letteratura, che si palesa indubitabilmente come un viaggio di cui non si conosce l’approdo, pure vagheggiato in quanto unica speranza di trovare un senso alle cose e alla vita e il proprio posto nel mondo.

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“La Genovese”

lagenovese_cover.pngdi Gabriele Ottaviani

A casa sarebbe rimasto per qualche ora da solo. Mamma e papà erano già pronti per andare alla sezione del partito monarchico, l’unico luogo pubblico del paese che aveva la televisione, a vedere la puntata de Il musichiere. Mario Riva avrebbe suonato la campanella, sorriso e annunciato ad alta voce: «Il Musichiereee», un cenno del maestro Gorni Kramer e l’orchestra avrebbe intonato «Domenica è sempre domenica, si sveglia la città con le campane. Al primo din don del Gianicolo Sant’Angelo risponde din don dan…» La gente che si era portata le sedie da casa e che manco sapeva dove cazzo stavano il Gianicolo e le campane sarebbe stata felice e lui, Frank, finalmente solo. Aprì la cartella con l’emozione dell’esploratore che ha trovato il tesoro. Una pagina ingiallita di un settimanale, «L’Europeo», con la data 16 luglio 1950, e la foto di un uomo in canottiera e pantaloni militari, lo sguardo triste e duro e la sigaretta tra le labbra. Era Salvatore Giuliano, il bandito siciliano. Titolo grande: “Un segreto sulla fine di Giuliano”. Sottotitolo, scritto appena più piccolo: “Di sicuro c’è solo che è morto”. La firma: Tommaso Besozzi. Un altro articolo, ritagliato con sapienza da sarto, parlava di una cosa accaduta anni prima, alla fine della guerra, in una città che conosceva, Benevento. C’era stato, lo aveva portato col treno il padre a trovare un suo vecchio compare. L’articolo parlava dei gualani, i bambini figli di quei poveri che non avevano neppure un tozzo di pane da dividere venduti come schiavi. Lesse: «…i compratori di schiavi esaminavano la dentatura, le gambe, il petto del gualano, e se le sue mani fossero ancora troppo tenere e non munite di robusti calli…» La firma: Corrado Alvaro. Un articolo più recente lo aveva scritto uno che si chiamava Giorgio Bocca…

La Genovese – Una storia d’amore e di rabbia, Enrico Fierro, Aliberti. Cipolle, carne, carote, sedano, vino, olio e via discorrendo: sono gli ingredienti della genovese. Il cui profumo inconfondibile, che fa venire l’acquolina in bocca, e va di pari passo con il succulento sapore che impregna, con aura quasi mistica, nell’immaginario collettivo comune tutte le leccornie che appartengono alla tradizione e quindi riassumono in sé molti significati anche non immediati, che afferiscono all’idea stessa di casa, piacere e famiglia, delizia tutti gli appassionati. Come Frank. Che, anche se si chiama così, è italiano. Meridionale. È un giornalista. Ma si trova male nella realtà tentacolare di oggi. Sono altri i suoi valori, non sono rispecchiati dai personaggi macchiettistici e caricaturali che rappresentano la squallida corte dei miracoli che gravita intorno all’ufficio della sua “direttora”, anima di salotti e intrallazzi: a lui i vincenti non interessano, interessano quelli che i presunti furbi chiamano stolti e perdenti, persone vere con dignità. Evocando la tradizione, Fierro dà vita a un affresco scintillante e ammaliante. Da non perdere.

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“La truffa come una delle belle arti”

85053f107a7d293118d8eeb6c25dcf96_w250_h_mw_mh_cs_cx_cy.jpgdi Gabriele Ottaviani

Da ragazzo Arsène Lupin era il mio eroe, diciamo così…

La truffa come una delle belle arti, Gianluca Barbera, Aliberti. La famiglia Lopiccolo è originaria di Catania. I componenti sono diversi. Dal milleottocentoquarantadue, quando ancora l’Italia, di cui attraversano con la loro personale storia le molteplici e travagliate vicende, era tutto fuorché unita, mandano avanti con abnegazione, dedizione, cura, impegno, attenzione e profitto un’attività ben specifica. La truffa. Di cui del resto è imbevuto il mondo sin dalla notte dei tempi. Cos’è infatti d’altro canto la frode se non il palesarsi estemporaneo di un’illusione che sembra irrinunciabile e a cui più di ogni altra cosa si desidera credere per evadere dalla monotonia del quotidiano che pare inappagante? È questa la tesi provocatoria (nessuno è infatti più odioso di chi si approfitta del candore altrui) del brillante, esilarante e composito romanzo di Barbera, che amalgama con successo vari sapori e sin dalla riuscita e geniale copertina fa pensare, rinnovando, cambiando quel che si deve, il pensiero di Boccaccio, che all’onesto ingenuo preferiva lo scaltro, al truffatore come a un novello e rovesciato Don Chisciotte, che anziché combattere contro i mulini a vento li edifica per farne dono a chi sembra non vedere l’ora di scagliare la propria lancia verso quelle pale. Da leggere.

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“Piero Ciampi – Maledetti amici”

FRONTE_MALEDETTI_AMICI_SITOdi Gabriele Ottaviani

Quando il Catanzaro era in serie A andavamo in trasferta con Piero e gli amici che venivano da Catanzaro. Facevamo un’imbarcata con la mia Citroën. La prima partita in calendario fu Juventus-Catanzaro. Per tutti noi era una trasferta difficile, quasi improponibile, ma l’euforia ci confondeva le idee a tal punto che durante il viaggio da Roma a Torino cominciammo a pronosticare, sottovoce, un risultato positivo. Alla brigata dei catanzaresi si era aggregato anche Piero, il quale era diventato nostro tifoso. Sarebbe stata una partita memorabile: vedere le maglie giallorosse combattere sul terreno del Comunale. Piero era felice come una pasqua perché era sicuro di fare casino, all’occorrenza, di mandare a quel paese gli juventini della tribuna, di scaldare i nostri cuori con urla di incoraggiamento. Però. C’era un però. In macchina, ogni cinque minuti, Piero diceva che doveva andare al bagno e io tentavo di convincerlo: «Piero, ma aspetta un po’… siamo appena partiti». Noi tutti sapevamo che voleva fermarsi per bere. «Aspetta, facciamo un po’ di chilometri» incalzavo, «il viaggio è lungo e se ci fermiamo ogni dieci minuti non arriviamo più». «Pino ma io devo andare in bagno! Devo andare in bagno!» Alla fine ruppe talmente le scatole che ci dovemmo fermare. Quando sostammo al primo Autogrill, aspettammo dieci minuti e lui uscì con cinquanta bottigliette mignon di liquori vari, come avevamo previsto. Arrivati a destinazione ci rendemmo conto che lo stadio era tutto giallorosso: erano venuti migliaia di calabresi perché avevamo invaso letteralmente la tribuna, e anche i nostri cuori cominciavano a battere più del previsto. I piemontesi ci guardavano come se fossimo mafiosi in cerca di una rissa. Nessuno, in quella tribuna, poteva tifare per la Juve, anzi, uno che tifava Juve e aveva un accento vagamente meridionale lo invitammo letteralmente ad andarsene altrimenti l’avremmo portato fuori con la forza. Piero, eccitato anche dalle bottiglie di liquore, ci sguazzava dentro e, non sapendo cosa fare si tolse una scarpa preparandosi ad una improbabile battaglia poi si strappò la giacca per gli abbracci ballerini con un macellaio di Polistena fornito di abbondanti libagioni. Alcuni aristocratici piemontesi cambiarono aria, spostandosi lateralmente mentre noi li guardavamo minacciosi.

Piero Ciampi – Maledetti amici, Pino Pavone, Aliberti. Pino è paziente, Piero attacca briga prima ancora di chiedersi se ne valga la pena. È un genio, ma la sregolatezza si impone sull’estro a dir poco sopraffino. Ha avuto delle compagne, ma la più affidabile, purtroppo, è sempre stata la bottiglia. Ha avuto grandi occasioni e le ha sciupate, in altri momenti il suo astro ha illuminato d’un colpo tutto il cielo. Ha collaborato con i più grandi, e con Pino ha scritto molto. E soprattutto ha condiviso una splendida, virilissima, sincera, difficile, autentica amicizia. Ha girato in lungo e in largo l’Italia e non solo. Era livornese. Anarchico. Comunista. È stato un cantautore memorabile. Dunque spesso dimenticato. Pino Pavone scrive un libro su di lui, Piero Ciampi, che è molto più che una biografia. È una sinfonia di mille strumenti.

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