Libri

“Teofania”

di Gabriele Ottaviani

Per quel che riguarda l’altro aspetto, l’esistenza come ombra, la grecità omerica ha conferito a quest’idea originaria il significato più spirituale, tanto da renderla autonoma. È vero che i defunti sono soltanto ombre, non perciò essi sono nulla. Hanno un essere autonomo e, come la Nekyia dell’Odissea presenta nel modo più veritiero e toccante, sono persino in grado di risvegliarsi momentaneamente, per quanto soltanto alla coscienza e alla parola, non alle azioni, ovvero non a una sorta di prosecuzione della vita. Il loro essere è infatti l’essere di ciò che è stato, e l’averlo concepito come un essere in senso proprio rappresenta una delle grandiose intuizioni della grecità antica. Una simile conoscenza, come ogni genuina intuizione, può rivelarsi ancor oggi vera. Chi non ha infatti sperimentato, sia pure nella fuggevolezza del sentimento, che i trapassati si abbeverano del sangue dei viventi e possono risvegliarsi d’improvviso? Mai quanto in questo caso l’eterno mistero del regno dei morti è stato sfiorato con apertura altrettanto disincantata e pia devozione. Ed è altamente significativo che l’idea omerica si sia ripresentata anche tra noi, nella composizione goethiana, allorché Faust discende alle Madri, le quali…

cingono il capo della vita le immagini, mobili, senza vita.

Quel che una volta fu nella splendida luce

si muove là;

vuole essere eterno.

Teofania – Lo spirito della religione greca antica, Walter F. Otto, Adelphi, a cura di Giampiero Moretti. Si sa, i classici sono tali perché non finiscono mai di dire quel che hanno da dire: vale per i libri, ma vale ancor di più, a maggior ragione, per le divinità della Grecia antica, la personificazione dei nostri vizi, delle nostre virtù, delle nostre debolezze, dei nostri punti di forza e delle nostre illusioni in cerca di senso e di speranza, immateriali eppure concreti e tangibili come le ossessioni e i demoni che ci attanagliano, ci avviluppano e ci tolgono il sonno, perché figli del pensiero lucidamente sensibile che li ha generati, sono insieme la risposta e la domanda, il limite e il riverbero dell’esistenza, sentiamo di non crederci fino in fondo eppure non possiamo smettere di farlo. La nostra cultura nasce con e da Afrodite, Ermes, Apollo: universali e perfetti. Sublime, tanto bello che quasi spaventa.

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“Żubrówka”

di Gabriele Ottaviani

Il fiume era pieno di un ghiaccio fradicio e spugnoso, che impediva all’acqua di scorrere e di incresparsi, e la faceva apparire immobile, mentre noi, capisci, noi che stavamo fermi su quella riva bassa vicino ai piccoli abeti, avevamo l’impressione di andare all’indietro. C’era un tale silenzio! Gli uccelli e gli altri animali sembravano spariti dal mondo, perfino le zanzare ci avevano lasciato. Un tale silenzio che riuscivamo quasi a sentire la linfa strisciare lungo i tronchi dei piccoli abeti fino al suolo, e sapevamo, Igor’ Paljaškin e io, che quella notte il Signore dei Ghiacci sarebbe venuto a trovarci nella taiga, a legare il fiume, spezzare i rami degli alberi e gelarci trasformandoci in pietre. Un tale silenzio che quando sentimmo il Gelo arrivare da lontano, Igor’ Paljaškin tirò fuori la sua pistola, e sparò sei volte verso nord. Non aveva paura di Dio, Igor’ Paljaškin…

Żubrówka – Una storia di Natale, Sarban, Adelphi, traduzione di Roberto Colajanni. Per chi li fa e chi li legge i libri sono – volendo usare il titolo di uno degli ultimi che siamo riusciti a stampare – una forma di concupiscenza. Di cui non è facile liberarsi, anche in circostanze avverse. Specie in circostanze avverse. Costretti alla clandestinità, i libri prosperano. È già accaduto non poche volte – e adesso tentiamo di farlo succedere di nuovo. Così abbiamo deciso di farvi leggere, in formato digitale, alcuni dei testi che avremmo pubblicato in queste settimane e che usciranno in un futuro imprecisato. Più qualcosa d’altro che non era immediatamente in programma e qualcosa che non lo era affatto. In questa serie troverete quindi racconti di vario genere, tratti da volumi più ampi, nonché brevi inediti. In un caso e nell’altro, abbiamo cercato di dare a questi minuscoli libri la forma non di un estratto, ma appunto di un libro autonomo, per quanto in miniatura. È una deformazione professionale, verosimilmente: ma ci ostiniamo a rimanerle fedeli. Questa è l’ispirazione della collana Microgrammi, questa la sua nuova uscita, comparsa per la prima volta sugli scaffali d’una libreria esattamente settant’anni fa, una vera e propria gemma, preziosissima e troppo poco nota, di un autore la cui carriera letteraria, condotta sotto pseudonimo, è stata assai più breve di quella diplomatica per il vessillo di Sua Maestà Britannica: Żubrówka è la cosiddetta vodka del bisonte, e può tenere molto caldo in una notte che è già afosa di suo, anche se è Natale, perché l’Arabia certo non ce la si immagina ammantata da una coltre di neve. A Jedda, porto fiorente e nevralgico a un tiro di schioppo dalla Mecca e Medina, le città sacre dell’Islam, c’è stato un periodo in cui fra i pochi inglesi che vivevano in piccole case per lo più in prossimità delle mura la sera della vigilia di Natale si soleva riunirsi per una festicciola allietata da canti tradizionali che suscitavano divertimento ma soprattutto stupore fra i domestici sudanesi: in una di queste occasioni si dipanò nella notte la trama di una vicenda sorprendente… Delizioso, suadente, sensuale, raffinatissimo.

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“Questo non è un racconto”

di Gabriele Ottaviani

I funerali di Valentino diedero insomma misura e di quel che era stato il fenomeno Valentino e della disponibilità delle masse a divizzare, a divinizzare, attori-personaggi (più personaggi che attori) offerti dal cinema: sicché la creazione di dive e divi diventò quasi una scienza. Fenomeni di divismo aveva prodotto, ma in un’area che approssimativamente possiamo delimitare ai lettori di D’Annunzio, il cinema muto italiano (Lyda Borelli, Francesca Bertini); il francese con Mosjoukine, l’americano con Mary Pickford (la Fidanzata d’America), Douglas Fairbanks e Teda Bara ne avevano prodotto di più vasti; ma dopo Valentino nasce uno «star system» che trabocca dagli uffici pubblicitari dell’industria cinematografica, dagli schermi, dalle riviste dedicate al cinema e invade la vita sociale americana ed europea. Dopo Washington e New York, Hollywood è il centro di informazioni più importante degli Stati Uniti: centomila parole al giorno vengono trasmesse da Hollywood alle agenzie, ai giornali, alla radio; centomila parole che riguardano amori, divorzi, rivalità, gusti e disgusti di dive e divi. Nel 1937, si calcola che il novanta per cento dei grandi programmi della radio americana sono occupati o si occupano di dive e divi hollywoodiani.

Questo non è un racconto – Scritti per il cinema e sul cinema, Leonardo Sciascia, Adelphi. A cura di Paolo Squillacioti. Nato cent’anni fa, morto troppo presto, nel millenovecentoottantanove, intellettuale finissimo e fuori dagli schemi, anticonvenzionale e anticonformista, scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, poeta, politico, critico d’arte e insegnante, e chi più ne ha più ne metta, Leonardo Sciascia era anche un grande e competentissimo appassionato della settima arte, che declina in una grande molteplicità di sfaccettature attraverso la sua ottica e la propria esperienza in un ampio numero di testi, qui raccolti in un’edizione mirabile, esaustiva, divertente, curiosa, intrigante. Da non farsi sfuggire.

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“La luna di miele di Mrs. Smith”

di Gabriele Ottaviani

Dei passi leggeri sulle scale lo fecero tacere…

La luna di miele di Mrs. Smith, Shirley Jackson, Adelphi, traduzione di Simona Vinci, a cura di Laurence Jackson Hyman e Sarah Hyman DeWitt. Una delle più grandi scrittrici di sempre, indagatrice finissima dei più oscuri meandri dell’animo umano, era instancabile nel suo lavoro: i familiari lo hanno rivelato, la presenza più assidua nel loro ménage era il suono del ticchettio febbrile sulla tastiera, per comporre sillabe, parole, frasi, descrivere ambienti, situazioni, personaggi, dare voce alla vita per il tramite della letteratura, che la inventa e immortala. Eccezionale e ineguagliabile la sua produzione, spesso rinvenuta in maniera a dir poco fortunosa, tra fienili del Vermont e biblioteche in giro per gli Stati Uniti: in questo volume è possibile recuperarne un saggio ampio, vario e intrigante. Da leggere.

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“Abbiamo sempre vissuto nel castello”

di Gabriele Ottaviani

Non credo che importerebbe a nessuno…

Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson, Adelphi, traduzione di Monica Pareschi. Spettacolare sin dalla copertina, e d’altro canto si parla della prova narrativa di una grande autrice, ispiratrice per moltissimi, scrittori e cineasti in primo luogo (L’incubo di Hill House e La lotteria sono dei veri e propri capolavori), il romanzo narra la storia di Mary Katherine, che, dedita alle leccornie e alla cura dei fiori e delle piante, vive reclusa in una sorta di paradiso in terra, un’augusta e antica magione, assieme a uno zio e alla bellissima Constance, sua sorella. Peccato che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood siano morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, in sala da pranzo: e quando d’un tratto si palesa l’Estraneo… Formidabile.

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“Il prigioniero libero”

di Gabriele Ottaviani

Fondamentale è l’esercizio della volontà che, insieme all’intelletto, è un’onorata facoltà della mente umana…

Il prigioniero libero, Giuseppe Trautteur, Adelphi. I concetti di responsabilità e di libera scelta sono fondamentali, e per esempio sono alla base di moltissimi sistemi legislativi che consentono di governare la società, ovunque nel mondo: al tempo stesso però non sono così immediati, assodati e scontati nell’ambito della ricerca scientifica, in particolare nel settore delle neuroscienze, che anzi si domandano se davvero si possa parlare di libertà, se esista realmente. Informatico italiano laureatosi in fisica con una tesi sui gas ionizzati e addottoratosi in Michigan cinquant’anni fa in Computer e Communication Sciences, accademico di chiarissima fama e spiccata capacità divulgativa, con questo testo agile ma al contempo densissimo Giuseppe Trautteur realizza un’esaustiva e stimolante esegesi del tema. Da leggere.

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“La valle oscura”

di Gabriele Ottaviani

L’azienda era ossessionata dagli sviluppatori, e il sentimento era reciproco…

La valle oscura, Anna Wiener, Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra. Anna Wiener ha lavorato per cinque anni nella Silicon Valley e dopo che ha lasciato il suo impiego ha deciso di scrivere questo rapporto intelligente, inquietante, destabilizzante e potente che è anche una nitidissima fotografia, che conferma ancora una volta, qualora ve ne fosse bisogno, come non è mai tutto oro quel che riluce, che immortala una realtà per certi versi leggendaria e mitica, propagandata come la quadratura del cerchio, il capitalismo dal volto umano che mette al centro il benessere del dipendente e che quindi, attraverso la ricerca e lo sviluppo tecnologico rende il mondo migliore: ma ogni medaglia ha il suo rovescio, e in questo caso si tratta dell’accumulo di dati personali. Per vendere, sorvegliare e non solo…

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“Tempo di uccidere”

di Gabriele Ottaviani

Non potevo rischiare. Si fa presto a identificare un tenente.

Tempo di uccidere, Ennio Flaiano, Adelphi. In un’Africa surreale e priva di ogni esotismo un tenente dell’esercito italiano vaga alla ricerca di un medico, guidato dal mal di denti. Si allontana dal campo, rimane solo, si perde. Hanno inizio così, per caso, le sue disavventure. Prima si convince di aver contratto la lebbra, poi fugge, certo di essere ricercato per tentato omicidio, infine si trasforma in ladro e maldestro attentatore, fino ad approdare alla capanna di Johannes, un luogo misterioso e arcano dove può iniziare a guarire. Nato da una conversazione con Leo Longanesi e vincitore del premio Strega nel 1947, Tempo di uccidere, unico romanzo scritto da Flaiano, è un’intensa allegoria della guerra, messa a nudo con ironica, spietata crudeltà. Così viene descritto sul sito ufficiale del più importante premio letterario italiano, di cui conquistò la prima edizione, imponendosi, e in finale il distacco fu pressoché abissale, su nomi di grandissimo rilievo come Alvaro, Bernari, Berto, Bigiaretti, Dazzi, Drago, Levi, Lilli, Manzini, Moretti, Pea, Savinio, Sorrentino, Terra, Vicentini e Vittorini, un libro necessario di uno degli intellettuali in assoluto più prestigiosi ed eclettici della storia italiana, giornalista, sceneggiatore, critico, umorista e drammaturgo, elzevirista eccezionale ultimo di sette fratelli, pescarese, figlio di Cetteo, commerciante, e Francesca Di Michele, residente per lungo tempo in un quartiere, Montesacro, di una città, Roma, che in fondo non amava, ma che seppe ritrarre come nessun altro mai: questa nuova edizione di un classico, che in quanto tale è più attuale che mai, è da non perdere.

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“I benandanti”

di Gabriele Ottaviani

Il ragazzo è circondato quindi da una fama di magia e di misterioso potere…

I benandanti, Carlo Ginzburg, Adelphi. Il mondo rurale è ancestrale, atavico, superstizioso, leggendario, mitico, inestricabilmente legato alla fertilità della terra, alla ritualità delle stagioni, alla ripetizione di gesti che tessono la trama delle abitudini, dei riferimenti, dell’identità, immanente e al tempo stesso permeato da un anelito di trascendente, che cerca un senso e comprensione laddove tutto, pur nella concreta apparenza, sembra, a tratti, sfuggire, tanto si resta stupefatti di fronte al miracolo della beltà nascente: è nella natura umana aspirare al meglio, alla perfezione, al bene e al benessere, è innato anche cedere, di tanto in tanto, al pettegolezzo e al pregiudizio, ogni comportamento è un tassello d’un mosaico più grande. Le testimonianze di questi contadini friulani vissuti a cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo sono potentissime e al tempo stesso allegoriche, sintesi mirabili della condizione umana, fragile e malsicura, perennemente lacerata dal dissidio fra essere, dover essere e poter essere: l’opera di Carlo Ginzburg dipinge l’inquisizione con tinte vivide e mette nero su bianco un’inchiesta nei meandri dell’anima.

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“Cose che succedono la notte”

di Gabriele Ottaviani

La stanza era buia e la moglie dormiva stesa sopra la trapunta. Non aveva tirato le tende e la scura luce invernale proveniente dall’esterno permetteva di vedere. Per un po’ lui rimase al centro della stanza a guardare la donna. Perché pensava sempre che fingesse di dormire? Perché era un modo per allontanarlo, per tagliarlo fuori. Una volta, non molto dopo che si erano sposati, lui aveva sognato di aspettare un bambino: lo sentiva crescergli dentro, stranamente non nella pancia, ma più su, nel petto, nei polmoni. E il giorno dopo lei gli aveva detto di essere incinta e lui aveva avuto la certezza che se lo fossero comunicato nel sonno. Dunque, in quel periodo, il sonno li aveva uniti invece di separarli. Quella era stata la prima e la più dolorosa delle varie gravidanze interrotte, l’unica che lui era riuscito misteriosamente a intuire. Tirò le tende, si svestì e si stese accanto alla moglie. Le si avvicinò il più possibile senza toccarla.

Cose che succedono la notte, Peter Cameron, Adelphi, traduzione di Giuseppina Oneto. Lei è malata, molto, e insieme al marito giungono di notte dopo un lunghissimo viaggio in una stazione desolata nel mezzo del nulla ricoperta da una coltre di neve che incessante cade e silente, silenziosa e silenziante ammanta ogni cosa, ma non placa i turbamenti dell’animo, i tremiti di corpi bramosi di un calore che né la biancheria termica di seta né i termosifoni sbuffanti e rumorosi di un albergo che rassomiglia assai di più a una corte dei miracoli popolata di personaggi stravaganti, uomini d’affari sessualmente ambigui e donne che millantano gloriosi passati, possono donare loro. Sono lì per incontrare finalmente quello che diventerà loro figlio, e che li attende in orfanotrofio: almeno, questo è quello che credono. Perché forse hanno bisogno di tutto tranne che di un figlio. Del resto, le persone spariscono, sempre ammesso che ci siano mai state, la vita è orrenda, infame, come e più del tempo, e viviamo in un’epoca buia in cui nessuno riesce a trovare la propria strada, spesso sono le cose e le persone in cui abbiamo sperato di più a riservarci le delusioni peggiori, procediamo a tentoni, come i ciechi, somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile: così scrive Cameron, e la parola chiave, in fondo, è proprio speranza. Come quella che tutti i romanzi valgano un decimo di questo, che è un capolavoro splendente, formidabile, irresistibile, indimenticabile.

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