di Gabriele Ottaviani
Millenovecentosessanta. Yul Brynner, Eli Wallach, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, Brad Dexter, Robert Vaughn. Duemilasedici. Denzel Washington, Chris Pratt, Vincent D’Onofrio, Ethan Hawke, Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Rulfo, Martin Sensmeier. Ovvero, I magnifici sette. I primi di certo. I secondi no. Ma non perché siano attori particolarmente malvagi (in particolare Ethan Hawke è sempre un signor valore aggiunto in un cast, quale che sia), anzi. Son come gli alunni del maestro Manzi, quello che possono fanno, quello che non possono no. Il problema è un altro. Anzi, vari. Probabilmente il mio papà, che a settantasei anni compiuti ancora non rinuncia al suo Tex settimanale né a qualche incursione serotina, favorita dalla pluralità dei canali del digitale terrestre, quando ha ricezione adeguata, su qualche rete regionale alla ricerca di film in cui Tyrone Power sia ancora giovane e vivo, il che riduce sciaguratamente il bacino, saprebbe spiegarlo in maniera molto più raffinata di me, ma tenterò, augurandomi che la parte del patrimonio genetico legata al cromosoma Y che mi ha trasmesso mi venga in soccorso. Prima di tutto: il western è l’epica. Epica di fondazione. Non si può fare un film western retorico e senza epica. È come fare l’Odissea senza Ulisse. Anche perché qual è la trama del western, di ogni western che si rispetti e si sia mai visto? Dei rudi pistoleri con un passato a vario titolo un po’ torbido alle spalle si lasciano in un’impresa disperata per aiutare della povera gente – padri e madri di famiglia, timorati di Dio – che vuole solo vivere in pace, onesti contadini che un delinquente pieno di sgherri che si è comprato lo sceriffo vigliacco vuole cacciare dalla casa che con sudore e fatica viaggiando lungamente a bordo di scalcagnati conestoga hanno costruito dissodando la grande vallata (Signore, perché ti sei preso Barbara Stanwyck così presto?), e a loro delle concessioni minerarie che sventrano il paesaggio in cerca d’oro importa come del due di coppe quando a briscola regna denari. Magari qui almeno però ci fosse disperazione. A parte quella di chi vede, naturalmente… Secondo problema: il western, specie se ambientato nel milleottocentosettantanove, negli Stati Uniti che si sono lasciati alle spalle da soli quattordici anni la guerra di secessione che ha portato all’abolizione della schiavitù (e c’era meno semplicismo manicheo, con tutto il bene per Abramo Lincoln, che sempre sia lodato, quando Rhett Butler diceva che Il sud ha solo cotone, schiavi e arroganza che non qui…), non può, anzi, non deve essere politicamente corretto. Non è un anacronismo, è un errore, puro e semplice. Allora ambientamelo nella contemporaneità. O subito dopo la morte di Martin Luther King. Io capisco che l’America, e non solo, viva attualmente un grosso e tragico problema di diritti civili, ma qui si esagera. E soprattutto l’intento nobile, che non può venire dal cinema comunque, o perlomeno non esclusivamente, viene svilito. Viene sempre alla mente la celeberrima battuta in stile Amici miei sull’ossessione del non offendere, che diventa più offensiva e ghettizzante della buona fede magari venata di ingenua ignoranza: Ma se il cieco è non vedente, l’impotente è non trombante? Ecco, appunto. Qui siamo più o meno nella medesima situazione. Di fatto tra i nuovi e tutt’altro che magnifici sette ci sono un nero (e Fuqua – il problema, se è permessa un’annacquata facezia, è sia quello che c’è qua che il modello inarrivabile che fu, nomen omen – non fa come Tarantino, e non basta scrivere un numero in cifra anziché in lettere nel titolo per eguagliarlo, che oltre a essere bravo ci costruisce il film intorno, all’uomo diversamente pallido: qui la caratterizzazione dei personaggi è come la minima da Potenza, non pervenuta, e non è credibile che nessuno batta il benché minimo ciglio vedendo un afroamericano che galoppa impunemente centotrent’anni fa per il Far West col suo carico di poteri di amministrazione della giustizia), un pellerossa (che arriva per ultimo, perché erano sei, quindi guarda un po’ il fanciullo si palesa spuntando dal nulla, fanno la conta, sanciscono l’unione mangiandosi un po’ di fegato di cervo e amici come mai prima, per citar Paola e Chiara: che infatti al momento non pare che almeno professionalmente vadano d’accordissimo…), un ispanico e un orientale. Cinese, giapponese, coreano? Non si capisce bene. Meglio, non viene spiegato. Come al solito in questa pellicola. Ora, il melting pot nelle praterie del diciannovesimo secolo in tutta onestà mi sembra un po’ fuori luogo, suvvia. Non manca anche la quota rosa, che in quanto a offensività non è seconda a niente (capisco che le donne abbiano meno opportunità di accedere alla stanza dei bottoni e quindi queste debbano essere loro garantite in pari misura, ma, per Diana, in questo modo si fa passare l’aberrante messaggio per cui sono come una sorta di panda da difendere dall’estinzione o mentecatte da aiutare perché da sole non ce la fanno, quando in realtà lo sanno tutti, specie chi non vuole ammetterlo, che molto spesso sono più brave dei maschi, andando a soffocare il vero respiro di novità che dovrebbe spirare, ossia che non dovrebbe importare nulla se il tuo delegato in parlamento, per dire, ha o no le ovaie, basta che sia il più bravo e onesto di tutti, che poi alla Camera siano 100% donne o 94% uomini non dovrebbe avere significato in un mondo giusto): la vedova di Matt Bomer – sì, d’accordo, lasciamo perdere la sospensione dell’incredulità, con tutto il rispetto per il fascinosissimo e bravo attore (ne hanno presi un mare di belli, che però se hai idee di marketing, caro produttore, devi utilizzare come in Magic Mike, possibilmente aumentando i cosiddetti balletti e riducendo i dialoghi, se no chi ti ci va in sala, quelli che hanno visto l’originale, che tra l’altro sono circa sette miliardi di persone? Ti tirano in testa, senza nemmeno prima aver la cortesia di friggerli alla fermata del treno, i pomodori verdi, che fanno più male, quando si ritrovano di fronte questo film a metà tra una pellicola di supereroi senza la Johansson e Squadra speciale Cobra 11 senza autovetture…), che purtroppo però dura sullo schermo quanto un riccio sulla Cassia Veientana, il tempo di tre primi piani e altrettante battute – ingaggia i giustizieri e spara meglio di loro. No, dico, ci mancava solo che Hawke e Byung-hun facessero la brutta copia di Gyllenhaal e Ledger in Brokeback Mountain (e drammaticamente ci si occhieggia persino, a quel mood…) e poi eravamo letteralmente a cavallo. Ma non i meravigliosi Mustang che galoppano selvaggi, ahimè. Terzo problema: per fare un western devi essere serio ma non serioso. Avere il respiro dell’epica, come già si diceva. Oppure essere sovversivamente ironico. Qui si rimane a metà del guado, tra qualche guizzo divertente e momenti in cui senti distintamente le braccia che ti si staccano lasciando le clavicole in balia della loro solitudine. E a metà del guado, è noto, la corrente ti ammazza, come Genesio in Ragazzi di vita. Quarto problema: la colonna sonora. Meglio, il tema musicale. Il più celebre di sempre. Ta-ta-ta-ta-tatatata-ta-ta-ta-ta. Quando sta per sbocciare, che cosa fai tu, genio del crimine? Mi fai la variazione sul tema più scialba della storia d’occidente. Praticamente ta-ta-ta-puf. Da piangere. Quinto problema: Nic Pizzolatto. Ha scritto True detective. Ecco, fategli scrivere quello. O, che so, Incantesimo. Sesto problema: era il peccato più grave per i greci. La hybris. Prometeo finiva incatenato alla rupe per aver osato troppo, buon Dio. E osare toccare non un western curdo, absit iniuria verbis, del cinquantadue che non conosce nessuno, bensì IL western dei western, è più di troppo. È troppissimo, se consentite il neologismo. Mi rendo conto che poter dire di aver girato I magnifici sette è una roba che renderà splendidi i racconti intorno al fuoco ai nipotini per svariate generazioni, e per cui si andrebbe sul set anche ogni mattina in ginocchio sui ceci partendo dall’altro capo dell’orizzonte, ma bisogna anche vedere come lo giri, diamine. Settimo e ultimo magnifico problema (ce ne sarebbero altri, ma infinita è la mia misericordia): Vincent D’Onofrio parla con una vocetta che nemmeno Paola Quattrini. E allora fatemi citare il Pascoli: disse un nome, sonò alto un nitrito. Almeno gli stalloni – quelli con criniera, coda e zoccoli, beninteso, non fatevi soverchie illusioni – hanno una bella voce. E son proprio bravi. Quasi meglio dell’eccelso asino del film di Kusturica… In sala dal ventidue di settembre. Se vi va.