venezia 72

Venezia 72 – Tutti i premi

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Pubblicazione a cura della redazione

Leone d’oro al miglior film: Desde allà di Lorenzo Vegas

Leone d’argento per la miglior regia: El clan di Pablo Trapero

Gran premio della giuria: Anomalisa di Charlie Kaufman e Duke Johnson

Premio speciale della giuria: Abluka (Frenzy) di Emin Alper.

Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile: Fabrice Luchini per L’hermine 

Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile: Valeria Golino per Per amor vostro

Premio Osella per la migliore sceneggiatura: Christian Vincent per L’hermine

Premio Marcello Mastroianni (attore o attrice emergente): Abraham Attah per Beasts of no nation

Leone del futuro – Venezia opera prima – Luigi De Laurentiis: The childhood of a leader di Brady Corbet

ORIZZONTI

Premio Orizzonti per il miglior film: Free in Deed di Jake Mahaffy

Premio Orizzonti per la migliore regia:
Brady Corbet per The childhood of a leader

Premio Speciale della giuria Orizzonti: Boi neon (Neon bull) di Gabriel Mascaro
Premio Orizzonti per la miglior interpretazione: Dominique Leborne per Tempête

Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Belladonna
di Dubravka Turic
Venice Short Film Nomination for the European Film Awards 2015: E.T.E.R.N.I.T.
di Giovanni Aloi


PREMI VENEZIA CLASSICI

Premio Venezia Classici per il miglior documentario sul cinema: The 1000 eyes of Dr. Maddin di Yves Montmayeur

Premio Venezia Classici per il miglior film restaurato: Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

PREMI ALLA CARRIERA

Premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker: Brian De Palma

Leone d’oro alla carriera:
Bertrand Tavernier

Persol Tribute To Visionary Talent Award: Jonathan Demme

PREMI COLLATERALI

Settimana Internazionale della Critica – Premio “Pietro Barzisa”: Tanna di Bentley Dean e Martin Butler

Giornate degli Autori: Early Winter
di Michael Rowe

Premio FIPRESCI

Miglior film Venezia 72: Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio
Miglior film Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica: Wednesday, May 9
di Vahid Jalilvand
Mouse d’oro: Rabin, the last day di Amos Gitai
Mouse d’argento: Spotlight di Tom McCarthy
Queer Lion: The Danish Girl
di Tom Hooper
Premio SIGNIS: Behemoth
di Zhao Liang – Menzione speciale: L’attesa di Piero Messina
Premio Francesco Pasinetti:

Miglior film: Non essere cattivo di Claudio Caligari
Migliori attori:
Luca Marinelli per Non essere cattivo e Valeria Golino per Per amor vostro
Miglior film delle Giornate degli Autori: La prima luce
di Vincenzo Marra

Premio Green Drop: Behemoth di Zhao Liang
Premio Brian: Spotlight
di Tom McCarthy
Premio Interfilm – Premio per la promozione del dialogo interreligioso: Wednesday, May 9
di Vahid Jalilvand
Premio FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub): Non essere cattivo di Claudio Caligari – Menzione speciale: L’attesa di Piero Messina

Premio Civitas Vitae:
Alberto Caviglia per Pecore in erba
Premio Lanterna Magica (CGS): Blanka
di Kohki Hasei
Premio Padre Nazareno Taddei: Marguerite
di Xavier Giannoli
Premio Giovani Giurati del Vittorio Veneto Film Festival: Remember di Atom Egoyan – Menzione speciale: 11 minutes di Jerzy Skolimowski

Premio Gianni Astrei: Non essere cattivo di Claudio Caligari
Premio Open: Harry’s Bar
di Carlotta Cerquetti
Premio Sorriso Diverso Venezia 2015:

Miglior film italiano: Non essere cattivo di Claudio Caligari
Miglior film straniero: Blanka
di Kohki Hasei

Premio Label Europa Cinemas: À peine j’ouvre les yeux di Leyla Bouzid
Premio del Pubblico BNL: À peine j’ouvre les yeux di Leyla Bouzid
Premi Fedeora Venezia 72:

Premio per il miglior film europeo in concorso: Francofonia di Alexander Sokurov
Giornate Degli Autori – Miglior Film: Underground Fragrance
di Pengfei
Miglior regista esordiente:
Ruchika Oberoi per Island City
Miglior attrice esordiente: Ondina Quadri per Arianna

Settimana Internazionale della Critica – Miglior fotografia:
Benthey Dean per Tanna
Miglior film: Kalo Photi di Bahadur Bham Min

Premio Laguna Sud:

Miglior film: Lolo di Julie Delpy
Miglior scoperta italiana: Arianna
di Carlo Lavagna

Segnalazione Cinema for UNICEF: Beasts of no nation di Cary Fukunaga
Leoncino d’Oro Agiscuola per il Cinema: L’attesa
di Piero Messina
Premio Schermi di Qualità – Carlo Mazzacurati: Non essere cattivo
di Claudio Caligari
Premio Fondazione Mimmo Rotella:
Aleksandr Sokurov, Terry Gilliam e Johnny Depp
Cinemadamare – “LeonedaMare”: The Danish Girl
di Tom Hooper
Future Film Festival Digital Award: Anomalisa
di Charlie Kaufman e Duke Johnson – Menzione speciale: Heart of a dog di Laurie Anderson

Premio “L’Oréal Paris per il cinema”:
Valeria Bilello
Premio Bianchi:
Ermanno Olmi
Premio Assomusica Ho visto una canzone:
A cuor leggero di Riccardo Sinigallia per Non essere cattivo
HRNs Award: Rabin, the last day
di Amos Gitai
Premio Soundtrack Stars:

Premio per la miglior colonna sonora: ex aequoA bigger splash di Luca Guadagnino ed Equals di Drake Doremus
Premio alla carriera: Nicola Piovani

Premio Gillo Pontecorvo: Non essere cattivo di Claudio Caligari
Premio The Most Innovative Budget: A bigger splash di Luca Guadagnino

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“La prima luce”

Laprimaluce1-300x225di Gabriele Ottaviani

Lei è tanto triste. Perché? Perché vede la crisi dappertutto. E quindi se ne vuole tornare nel suo Paese. Portandosi via il figlio. Il padre, guarda un po’, è contrario. E dunque lei rapisce il piccolo Mateo. Sì, con una sola t. Scappa. Lascia Bari, città tra l’altro invece in grande ripresa economica da anni, per Santiago del Cile. Dove notoriamente la qualità della vita è strepitosa, ci emigrano frotte di ginevrini… Per non parlare della giustizia… Oltretutto, infatti, la derelitta si inventa che il padre di Mateo sia un violento, così da privarlo dell’affetto del figlio. Della possibilità di vederlo. Di abbracciarlo. Di giocarci. Che poi tolga anche il padre al figlio non le interessa minimamente. Perché lei è tanto triste, in quell’attico scintillante con cucina, salone, due camere, servizi e vista mare che le sta tanto stretto. Tanto stanca. Tanto sola. Tanto depressa. Con i capelli tanto amorfi, come spinaci troppo lessi. Il capo, a Bari, le dice che ha fatto male il suo lavoro e la rimanda alla scrivania a farlo meglio – non la licenzia, non la insulta, non le dà della capra, nulla – e lei si fa venire gli scompensi. Anzi, peggio. Fa la lagna. Il classico esempio di individuo – il sesso non conta, ne esistono sia di genere maschile che femminile – che vede il rapporto di coppia – e l’esistenza – come il vischio, noto parassita (chissà perché baciarcisi sotto a Natale…), vede la quercia cui toglie la linfa vitale. Ossia, un giacimento da sfruttare: perché succede – non dovrebbe, ma succede – che nella coppia ci sia uno che fa tutto e l’altro che non fa un piffero, ma la cosa tragica è che spesso quello che non fa un piffero, e a cui non viene fatto mancare nulla, oltretutto critica. Non si pretende un ringraziamento, ma almeno rispetto, che diamine! D’altro canto il compagno, che certo non è perfetto, ma nessuno lo è (e men che meno lo è chi crede di esserlo), e che fa l’avvocato, e quindi non è che propriamente trascorra le giornate girandosi i pollici, ora in un verso ora nell’altro, sarebbe un violento perché quando discutono, dopo la centesima volta in cui cerca di proporle soluzioni alternative, di ricomporre la frattura sorta senza motivo alcuno, magari capita che alzi la voce. E certe volte capita che discutano tutti i giorni. Pensate. Quale mostruosità! E lei è tanto triste. Tanto infelice. Tanto insoddisfatta. Lui si vende tutto per seguire il figlio, in particolare il SUV, di marca svedese. Anche perché non è che le ricerche procedano a spron battuto. E non è, sciaguratamente, il solo in quella situazione. Lei ora in Sudamerica non è più tanto triste. Tanto infelice. Tanto insoddisfatta. Ha un nuovo amore, o presunto tale, col SUV di marca giapponese. Anche lei ha un SUV, di marca americana. Dei bei vestiti. La tata. Sta tanto bene, è tanto felice. Tanto contenta. Lei è Daniela Ramirez, e si sono visti migliaia di istrici attraversare finanche nottetempo la Via Formellese avendo negli occhi espressioni di gran lunga più intense. Roba che se quelli che apostrofarono  con l’epiteto, oggettivamente notevole, di Canina Canini Sandra Milo per la sua interpretazione di Vanina Vanini nell’omonimo film, tratto da Stendhal, di Rossellini l’avessero veduta non solo si sarebbero rimangiati l’immeritata ferocia, ma avrebbero proposto la musa di Fellini per due Nobel a scelta. Almeno. Lui, il padre in stile Un figlio a metà (fiction della Rai degli anni Novanta, con mattatore Gigi Proietti, per la regia di Giorgio Capitani, a cui certo il mestiere non va insegnato, e la scrittura di Giorgio Mariuzzo ed Enrico Vaime) che deve combattere una assurda battaglia – come a tanti succede, che se ne facciano una ragione i professionisti del politicamente corretto: esistono anche donne egoiste che scambiano la vita more uxorio per un Win for Life – è un Riccardo Scamarcio che se la cava più che dignitosamente, anche nel trilinguismo (recita infatti in buono spagnolo, ottimo italiano ed eccelso barese). Il film, un po’ lento ma comunque abbastanza misurato e compiuto, è La prima luce. Di Vincenzo Marra.

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“Non essere cattivo”

non essere cattivodi Gabriele Ottaviani

Presentato fuori concorso al Festival di Venezia e assai applaudito da critica e pubblico, il film postumo di Claudio Caligari, per cui tanto si è speso Valerio Mastandrea coinvolgendo anche due storiche rivali come Rai e Mediaset (o meglio Mediaset Group, per il tramite della Taodue di Pietro Valsecchi), Non essere cattivo, è una bella opera d’autore e di genere – pur trascendendolo -, solida, scritta benissimo, densa, fluida, coinvolgente (succede di tutto, ma non c’è mai l’effetto accumulo: per dire, quello che ha rovinato negli ultimi anni Susanne Bier), compiuta, credibile, diretta con mano rigorosa e con buonissime prove attoriali, che chiude in maniera nitida, pulita, asciutta e senza retorica il cerchio di cui i primi tratti erano stati descritti con Amore tossico, cui è seguito L’odore della notte, con il sempre bravo Marco Giallini. Il fulcro, tema cui Caligari è stato sempre legato, è la droga, ma sarebbe troppo semplice ridurre una tale densità di trama a quello che è solo un elemento: per esempio il rapporto tra i due amici e che ognuno di loro instaura con le donne della propria vita è davvero interessante, così come il racconto dell’ossessione per il denaro, tipica degli anni Novanta (la vicenda si svolge a Ostia tra millenovecentonovantacinque e millenovecentonovantasei: peccato che in qualche inquadratura si vedano automobili immatricolate evidentemente tempo dopo…), che condiziona le vite dei protagonisti, la società e la borgata, luogo simbolico che però ha ormai perduto la sua propria vena poetica pasoliniana, scivolando nello squallore più aberrante. Da vedere.

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“Abluka”

60105-il-film-abluka-frenzy-del-regista-600x315-2di Gabriele Ottaviani

Turchia, Istanbul. La metropoli fra Oriente e Occidente, la città-ponte in continua espansione, il luogo della memoria e del futuro, l’agglomerato urbano da milioni di persone fatto di vicoli e strade a sei corsie, centro storico e periferia, un parco-simbolo, cani randagi, straccivendoli e grattacieli. È questo il contesto in cui si muove Abluka (Frenzy), ovvero Follia, che ruota intorno a Kadir, che dopo due decenni circa esce di prigione. O meglio, sono le autorità a farlo uscire. Perché chiedono il suo aiuto. La città è agitata da una febbre violenta e terroristica, e per il protagonista l’impatto con un mondo cambiato (“Vent’anni fa” – dice – “faticavamo a portare a casa il pane, ora la gente teme per la propria vita e se ne sta seduta a fare cose strane”) sarà anche occasione per un bilancio sofferto con quelli che sono gli affetti che ritiene più cari, e che, col passare del tempo, sono diventati altre persone. Ha degli elementi di originalità, il film di Emin Alper, a tratti comunque un po’ macchinoso, e il montaggio lo rende più variegato di quanto non sarebbe stato altrimenti: soprattutto però la tematica politica non appare approfondita come forse si sarebbe potuto e dovuto.

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“Innocence of memories”

OrhanPamukdi Gabriele Ottaviani

Millecinquecentonovantatre inviti a cena, per una storia d’amore durata nove anni. Per quarantaquattro volte i loro corpi si sono ritrovati allacciati, contro tutto e tutti. Oltre quattromila i mozziconi di sigaretta che hanno avuto il privilegio di essere tenuti fra le labbra di lei, raccolti insieme a orecchini, abiti, cagnolini di porcellana. Tutti gli oggetti, tutti i frammenti che compongono una passione. Oggetti rubati, ma non c’è colpa, perché i ricordi sono per definizione innocenti. È un documentario, ma nonostante la forte presenza delle voci narranti e la dimensione sospesa fra più piani ha una precisa identità filmica, e una compiutezza che molte pellicole, anche di registi di chiara fama, si sognano. È la storia di un museo, di una vita, di un sogno. Fatto di arte, parole, pagine, segni, immagini. E soprattutto del bene più prezioso, quella ricchezza che è paideutica, formativa, testimonianza del passato e ponte verso il futuro: la memoria. Istanbul è una delle più grandi e magnifiche città del mondo, un grande organismo che vive cibandosi di storia. Orhan Pamuk, che racconta e si racconta, è uno dei più grandi scrittori del globo, vincitore nel duemilasei del Premio Nobel per la letteratura, conferitogli, stando alla motivazione ufficiale della commissione giudicante, “perché nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”. È il narratore di Istanbul, come Dickens per Londra o Zola per Parigi, cambiando quel che si deve cambiare. Il suo “Museo dell’Innocenza” è oggi una realtà. Ma lo era già. È un libro, da anni, uno dei suoi più fortunati e importanti romanzi. Il racconto della brama, carnale, romantica e ineluttabile di Kemal per la lontana cugina Füsun, povera in una città che si sta aprendo all’occidente a suon di grandi alberghi e tecnologia, ma che ancora ha per custodi delle sue notti più buie i cani randagi, che vagano a branchi nelle tenebre grondanti immondizia che avvolgono una metropoli in continua evoluzione, che ha un solo polmone verde e in cui, come dappertutto, ogni abitante perde una parte di sé quando il paesaggio cambia. Un museo vero, popolato di oggetti reali, una casa comprata per custodire un’assenza, che è però dunque anche una grande invenzione letteraria. Nelle stanze, nella città, che specie di notte sembra esserne l’ideale prosecuzione, nella memoria del narratore e dei suoi personaggi rivive un’ossessione d’amore che non trova termini di paragone. Innocence of memories, di Grant Gee, affascina e coinvolge.

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“The endless river”

52d4756e0e506c5b6a26affd23506ee4di Gabriele Ottaviani

I titoli di testa, le inquadrature, la musica e il font di scrittura sembrano un omaggio al Vecchio West. O a qualche melodramma degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta. Fate voi. E invece è il Sudafrica. Bellissimo. Si poteva girare uno splendido spot per la pro loco. Invece è stato realizzato The endless river. Lei va a prendere fuori dal carcere insieme al cognato il marito dopo quattro anni di detenzione. Lui dice che è cambiato. Ma è vero come una banconota da sei euro. Infatti la suocera lo detesta. Lei va al lavoro, fa la cameriera. Incontra un altro lui, francese,  che le dice di non dire alla moglie che viene a mangiare nel ristorante, altrimenti la moglie lo ammazza. Lei dice che starà zitta. Lui va a casa. Non ha fame. D’altronde, ha già mangiato. La moglie si arrabbia. Poi lui se ne va. Lei resta sola in casa. I bambini fanno il bagno. Entrano tre uomini in casa. Stuprano e uccidono. Si direbbe che almeno uno sia di etnia caucasica, dato il pallore delle natiche. Lui è disperato. Caricaturale è dire poco. Vuole vendetta. Il poliziotto è espressivo come un posacenere in pietra lavica, sa cose che non può sapere e gli dice che qualche giorno prima del delitto è uscito di galera un delinquente. Il delinquente muore. La cameriera è disperata. Piange con modo tanto ridicolo che al confronto Jasmine Trinca in Nessuno si salva da solo è Anna Magnani. I due vedovi si incontrano. Si incontrano. Si incontrano. I tre responsabili del massacro vengono arrestati. E sono tutti di colore. E le natiche pallide di prima? Boh… I due vedovi si incontrano. Ancora. E decidono di partire insieme. Ogni tanto piove. E lui si fa la doccia. Fine. Più altre cose che vi risparmio perché, anche se forse può non sembrare, ho un cuore. Non è nemmeno brutto, The endless river. Perché quella del brutto è già una categoria estetica. E non è nemmeno esatto definirlo impresentabile. Perché provare a entrare in concorso nel più antico festival del cinema planetario è legittimo. Permetterglielo no.

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“Interruption”

FVMHPVOSHI92355Pubblicazione a cura della redazione della sinossi

In un teatro centrale di Atene va in scena l’adattamento postmoderno di una tragedia greca classica. Come ogni sera, gli spettatori prendono posto e inizia la rappresentazione. D’un tratto le luci del palcoscenico si spengono. Un gruppo di giovani, vestiti di nero e armati di pistole, sale sul palco. Si scusano per l’interruzione e invitano il pubblico a prender parte allo spettacolo. La rappresentazione riprende ma con un’importante differenza: la vita imita l’arte e non viceversa. Interruption di Yorgos Zois – Grecia, Francia, Croazia, 109’ – v.o. greco – s/t italiano, inglese – con Alexandros Vardaxoglou, Maria Kallimani, Alexia Kaltsiki, Christos Stergioglou e Maria Filini.

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“Motherland”

30sic-motherland-2-CINECRITICAdi Gabriele Ottaviani

Una figlia scrittrice che torna nel suggestivo villaggio natale dell’Anatolia per portare a compimento il suo libro. È una donna assolutamente contemporanea, che vuole dimostrare quel che è e quanto vale. Ma il rientro nel ventre materno da cui si è allontanata sembra catapultarla in un’altra realtà, insieme vicina e lontana, arcaica, matriarcale, ben diversa da Ankara e ancor più da Istanbul, un piccolo mondo antico dove è invasiva la presenza delle credenze, delle superstizioni, di una certa religiosità popolare molto legata a una dimensione rituale e primitiva, prossima al senso della morte, intrisa di colpa, peccato e necessità di redenzione, dove le voci, che siano sensazioni intime o pettegolezzi striscianti, hanno la loro importanza. Anzi, condizionano la vita. E c’è anche da ricostruire un rapporto con una genitrice insistente e impacciata, a sua volta irrisolta nel rapporto con la propria madre, desiderosa del meglio per la figlia e visceralmente legata a tradizioni anacronistiche, una donna che sa e non dice, che capisce anche, se non soprattutto, quello che non vorrebbe, che voleva essere e non è stata. Il dualismo non funziona completamente, ma Ana yurdu (Motherland), uno dei molti titoli turchi presenti quest’anno al Lido (sarà la storica vicinanza tra la Serenissima e uno dei suoi più grandi mercati, chissà…), è intenso.

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“Montanha”

30.SIC-MONTANHA-João-Salavizadi Gabriele Ottaviani

David ha quindici anni ancora da compiere, colleziona bocciature, vive con un nonno a cui sta venendo meno la salute, ha un amico con cui si mette in guai piuttosto grossi, una madre che non sa come sbarcare il lunario e una sorella con la quale non condivide il padre. Degrado, disagio, squallore, in una Lisbona che non appare niente affatto accogliente. E il caos dell’adolescenza, la scoperta di sé e dell’altro, dell’amore e del sesso, con cui fare i conti: Montanha, del trentunenne João Salaviza, che esordisce alla direzione di un lungometraggio dopo che con Arena e Rafa (entrambi corti) ha vinto rispettivamente nel duemilanove e tre anni dopo la Palma d’oro e l’Orso d’oro, non convince fino in fondo, e non si può nemmeno definire un compiuto Bildungsroman, perché la mano registica e la scrittura appaiono a tratti insicure, altalenanti, e lo sviluppo, soprattutto nelle fasi centrali, si perde nei volteggi di un ritmo un po’ farraginoso. Ma regala anche dei momenti di interesse, intensità, grazia, poesia e dolente tenerezza.

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