di Gabriele Ottaviani
«Non è vero che Anya ha avuto un aborto spontaneo. L’hanno costretta a uccidere il bambino» dice Tasia. «Ma sta bene?» Lisa tiene la voce insolitamente bassa. D’istinto si guardano intorno. La Coordinatrice più vicina è ad almeno cinque metri. Sta parlando con una nuova Ospite, che si stringe al petto un sacchetto per il vomito piegando la testa avanti e indietro come se le si fosse allentato un chiavistello nel collo. «È cattolica» risponde Tasia impassibile. «L’hanno addormentata. Con il gas. Forse avevano paura che desse in escandescenze». Lisa si lascia cadere sulla sedia vicino a Tasia. Reagan rimane in piedi, anche se il vassoio è sempre più pesante e la sedia di fianco a Lisa è libera. È preoccupata. L’ultima ecografia è andata bene, ma se il bambino avesse qualche problema interno, di quelli che non si vedono? All’improvviso Tasia sorride, un sorriso plateale che le occupa mezzo volto. «La Coordinatrice ci sta guardando. Forse sospetta di me». «Dov’è Anya ora?» chiede Lisa, sorridendo anche lei. L’apprensione nella voce fa a pugni con il sorriso esagerato.
La fabbrica, Joanne Ramos, Ponte alle Grazie, traduzione di Michele Piumini. Il corpo delle donne non è una merce. È assurdo, ma nell’anno del Signore duemilaventi, a quanto pare, purtroppo, va ribadito. Non è scontato, non si dà per assodato che una persona non sia una cosa. È aberrante, ma è purtroppo una tragica realtà, che connota dolorosamente la nostra società, in cui esiste ancora qualcuno che pensa che si possa scegliere dove nascere, e che dunque il semplice motivo di aver emesso il primo vagito all’interno di un confine anziché di un altro renda diversi, renda migliori, dia più diritti. Di lotta e disuguaglianze parla questo esordio letterario splendido sin dalla copertina, che è una vera e propria opera d’arte: Joanne Ramos, l’autrice, è nata nelle Filippine e si è trasferita nel Wisconsin a sei anni. Dopo essersi laureata a Princeton ha lavorato per diversi anni nel settore finanziario, ha cominciato a scrivere per l’Economist ed è membro del consiglio di amministrazione di The Moth, un’associazione non profit newyorkese dedicata all’arte della narrazione: qui racconta, con accenti che non possono non ricordare la prosa di Margaret Atwood, ma al tempo stesso assolutamente originali, la vicenda epica, tragica, allegorica e universale di Jane, una giovane madre single immigrata negli USA dalle Filippine che vive con tante altre donne, come lei ricche solo di speranza, fra le quali la cugina Evelyn, in un dormitorio newyorkese nel Queens. Dopo alterne vicende riesce a entrare a Golden Oaks, una specie di paradiso in terra per madri surrogate nelle campagne del fiume Hudson: in realtà una vera e propria prigione… Da non perdere per nessuna ragione.