di Gabriele Ottaviani
Fondata più o meno come se si trattasse di una sorta di colonia da un gruppo di ebrei newyorkesi convinti che la cultura potesse essere anche un grande business e affascinati dai mitici trecentocinquantacinque giorni all’anno di sole che baciano la California meridionale spazzata sovente dal deflagrante calore che fa esplodere il vento di Santa Ana, che ogni cosa confonde, pure i pensieri, Hollywood ha la sua quintessenza racchiusa nella scritta sul monte: sogno bruciante, apparenza sfavillante, grandi miserie all’ombra della facciata, lusso, perversione, magia. Insomma, una vera Babilonia, come la città della Semiramide rotta a ogni piacere le cui scenografie per anni hanno fatto monumentale mostra di sé negli studi fatti della stessa materia dell’illusione: pettegolezzi velenosi, grappoli di suicidi, rotocalchi intinti nel curaro, fiumi di droga, ricevimenti favolosi e di cui a lungo e da più parti si favoleggia, in barba al proibizionismo, compromessi squallidi per salvare carriere e calunnie abominevoli per affossarle nel peggiore dei modi, facezie scollacciate e allusive sulla consistenza equina dei membri virili dei più celebri divi (su tutti Chaplin e Bogart) e sulla generosità nella concessione delle proprie grazie delle attrici di maggior talento, non solo dinnanzi a quella macchina da presa che, quando ha iniziato a immortalare il sonoro, ha gettato una generazione in pasto ai vili tranelli del destino. Hollywood Babilonia, pubblicato da Adelphi, corredato da una cornucopia di immagini, è un testo cult assolutamente imperdibile. Kenneth Anger, traduzione di Ida Omboni.