di Gabriele Ottaviani
Rimase così, in quella posizione, prostrato d’innanzi alla sacra immagine, pregando per lungo tempo sperando e confidando in una benevola decisione nei suoi confronti e nei confronti della sua amata, ma non fu così.
La via della femmina morta, Paolo Celin, Giovane Holden. Che la nostra cultura sia gravida di retaggi fondamentalmente patriarcali è un dato di fatto purtroppo, così come quello che determina l’assenza di una reale parità di genere a tutti i livelli: nella nostra società anche la toponomastica è una disciplina che parla per lo più al maschile, sono decisamente pochi nomi di donne anche eccellenti che vengono celebrati a imperitura memoria attraverso le targhe delle vie, delle strade, delle piazze, dei corsi, delle calli delle nostre città. Di fondamentale importanza è anche ricordare tutte le vittime di quell’orrore quotidiano che è la violenza sulle donne in quanto tali, solo perché donne: rammentare quindi pure attraverso il nome di un luogo le vittime di femminicidio significa conservarne viva e immortale la memoria. Via della femmina morta è il nome della strada in cui, nella finzione di questo testo interessante, ricco di livelli di lettura e di chiavi di interpretazione, molto profondo e che induce alla riflessione, si palesa a due giovani amanti che si sono appartati nel profondo Veneto il fantasma di una giovane vittima di ogni genere di angheria e di sopruso al tempo della Repubblica Serenissima – non si può dire altrettanto della sua esistenza, purtroppo… – di Venezia, che finalmente ha l’occasione di narrare la sua storia, particolare e al tempo stesso universale. Da leggere.
L’ha ripubblicato su Vitamina L.
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