di Gabriele Ottaviani
Sarebbero usciti da quello studio con un dato nuovo, ma anche con una missione: comprare alla progenie vestiti azzurri o rosa, riempire la loro camera di oggetti scelti con attenzione – un camion dei pompieri, una casa per le bambole – e tormentarli, per tutta l’infanzia, affinché si comportino in un certo modo: non aprire troppo le gambe, non piangere neanche se ti senti umiliato. E il nome, naturalmente. Nomen est omen, dicevano gli antichi. Quante aspettative, quante cose implicite in Inés, ma anche in Manuel, in Elena e in Alejandro. Mentre osservavo quella gente, mi sono domandata come sarebbe il nostro mondo se invece di nomi del genere ci assegnassero insiemi di lettere, immagini come Nuvola sul Lago o Brace nel Fuoco, e lasciassero decidere a noi quale genere scegliere o inventarci. Mi sono domandata, infine, che cosa accade quando un bambino nasce con un sesso doppio o ambiguo, e se anni dopo – una volta che i medici, con il consenso dei genitori, hanno amputato o chiuso per sempre il sesso scartato – quel bambino si rifiuta di assumere il genere che gli è stato assegnato in modo arbitrario?
La figlia unica, Guadalupe Nettel, La nuova frontiera, traduzione di Federica Niola. Delicato, potente, emozionante, raffinato, malinconico, agrodolce, mai retorico, intenso, profondo, ricco di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione, sensibile, maestoso, parla d’amore, di maternità, di come si affronta o non si affronta, di solitudine, degli scherzi, delle sorprese, delle agnizioni e delle epifanie della vita, di certezze rivoluzionate in un attimo: un gioiello di pura grazia.