di Gabriele Ottaviani
Al semaforo controllo il cellulare e c’è un messaggio di Pamela e nel messaggio Pamela dice che ha la febbre a 38.3 e non aggiunge altro anche se so che intende dire che con una febbre del genere sarebbe più contenta di non restare da sola con la bambina stasera e di non restare da sola con la bambina domani sera e intende dire una volta di più che dovrei essere un uomo diverso da quello che ha conosciuto e con cui scopava in macchina alla cava sul Tevere e che ha deciso di sposare e con cui ha deciso di far nascere una bambina che adesso ha quattro anni e con cui ogni tanto è troppo nervosa. Ma adesso quello nervoso sono io e quello nervoso che stende il palmo della mano e lo abbassa con forza contro il volante del Doblò sono io e quello nervoso che avrebbe invece bisogno di essere lasciato in pace perlomeno dalla donna che ha sposato sono io. Quello sono io perché per non rimanere troppo indietro a casa del professore sto lavorando come un mulo e quello sono io perché nel frattempo il Tordo è morto e il Tordo era così scannato da non aver messo da parte nemmeno due lire per pagarsi un funerale e un buco nel buco del culo del cimitero e il Tordo aveva messo da parte così tanti debiti da essersi fatta nemica tutta la mafia cinese della città e chissà quanti altri brutti ceffi nel raggio di chissà quanti chilometri e il Tordo aveva messo da parte così tante ansie che non ha trovato niente di meglio da fare che prendere la mira bene bene all’altezza del tasso a cui aveva frantumato il cranio una settimana prima e poi andare a sbattere di muso e di testa e di collo contro un pino mezzo storto scelto a caso tra decine di altri pini fratelli lungo la strada tra il vecchio ospedale e il cimitero…
Qui dovevo stare, Giovanni Dozzini, Fandango. Luca è un imbianchino. Ha quarant’anni. Non fa sconti. In primo luogo a sé medesimo. Dozzini ci catapulta nei meandri della sua mente, nel labirinto delle sue ossessioni, perversioni, paure, debolezze, menzogne, verità, fragilità, idiosincrasie, tra i segreti e i tormenti di un’identità in frantumi che non è solo quella di un individuo, ma anche, per non dire soprattutto, dato il gioco di specchi, rimandi e riverberi che si viene a creare con rara perizia, quella di una società sempre più rabbiosa, invidiosa, cattiva, spaventata, misera, brutale, rozza, greve, gretta, arida, avida, volgare, feroce e niente affatto solidale, dimentica di ogni cosa, incredula su tutto, senza valori né punti di riferimento, nemmeno, o meglio in primo luogo, politici, e il flusso di coscienza del protagonista è anche quello di un mondo che si compiace del suo lagnarsi. Monumentale.