Intervista

Silvia De Laude intervista Mariano Lamberti: ecco “La vita nascosta del tempo presente”

Convenzionali ha l’immenso onore di pubblicare una grande esclusiva: Silvia De Laude, curatrice con Walter Siti delle opere di Pasolini per Mondadori, intervista Mariano Lamberti sulla Vita nascosta del tempo presente.

Silvia De Laude e Walter Siti

Quello che colpisce subito nel tuo ultimo romanzo è un allargamento: è, banalmente, un testo molto più lungo delle tue prove narrative precedenti (il tuo primo “vero romanzo”, hai detto), ma soprattutto è un testo che si ‘allarga’ nello spazio e nel tempo, non più nel segno dell’allucinazione, come nel Lungo risveglio dell’impiegato E., sulla vita di Franz Kafka (2018), ma nel segno della realtà. Si va, con continui scarti temporali, avanti e indietro nel tempo, dal ’42 al 2018; c’è la Grecia, Dachau, Viterbo, Roma, Tel Aviv, dove si è trasferita con il marito la sorella del protagonista, il pittore omosessuale Max. Hai parlato per La vita nascosta nel tempo presente della tua “prima incursione nel romanzo storico”. Nella terminologia di Manzoni, un «componimento misto di storia e d’invenzione», nel quale entrano figure reali, fatti storici documentati, ma anche le figure reali cedono una minima parte della propria storicità per ottenere una più plausibile consistenza romanzesca. Tu sei un artista che ama contaminare linguaggi diversi, ma in questo caso da dove viene l’esigenza di misurarsi con la Storia con la S maiuscola? E in che misura le storie dei protagonisti riguardano la tua?

Nella cinematografia si parla di film da girare in costume quando la storia è ambientata dagli anni 80 in giù, perché gli oggetti, gli abiti, le scene sono per forza di cosa storicizzati. Credo che anche nel romanzo il margine di reinvenzione rispetto ai fatti storici sia sempre più ridotto; a parte l’episodio che si svolge nel 43, per la storia ambientata agli inizi del duemila non ho fatto solo un lavoro di memoria, ma anche di documentazione rispetto alle abitudini dei personaggi: per esempio ho dovuto dosare l’uso del cellulare e della comunicazione via web che non era esplosa in maniera incontrollata come oggi. Il romanzo non parte dall’esigenza di misurarsi con la Storia né con il romanzo storico, ma di seguire una volatile ma persistente intuizione: la sotterranea contiguità tra regimi totalitari e società capitalistica, la serializzazione dei corpi e delle anime destituiti dal libero arbitrio, c’è un parallelismo nel libro che potrebbe apparire eccessivo per qualcuno, tra il consumismo sessuale dei corpi e la deprivazione di dignità degli stucke, i corpi dei detenuti nei campi di stermino nazisti. Per rispondere alla tua domanda sulle storie dei protagonisti che mi riguardano, ognuno è portatore insano di fuga e d’inquietudine, chi fugge dall’artefatta funzionalità di una metropoli come Tel Aviv, chi fugge da Dachau e dall’incomprensibile ingiustizia cosmica e chi come Max, il pittore personaggio chiave del romanzo, fugge dal posto fisso e dall’incasellamento sociale.

La vita nascosta del tempo presente

Ogni esperimento di romanzo storico s’interroga con maggiore o minore consapevolezza da parte di chi scrive nel quadro dissidio latente tra invenzione e storia o, se si preferisce, tra finzione e realtà. Qui però c’è anche il tema della finzione che assicura una specie di riscatto del protagonista, mi pare, quando alla fine, riesce a realizzare l’opera che l’ha paralizzato per tanto tempo. Perché La vita nascosta nel tempo presente è una ambiziosa riflessione sul male nella storia, sul suo rapporto con l’arte, sulla responsabilità individuale dell’artista. Ma è anche la storia (per Max) di una impasse, un blocco che è insieme creativo e esistenziale, e trova uno scioglimento nel finale. Le ragioni di questo blocco sono diverse: personali e storiche (i due fili si intrecciano), e forse anche di “poetica”. Per due terzi del libro Max ingiallisce d’impotenza in rabbiosi tentativi d’arte materica che vorrebbero rappresentare l’orrore dei campi di sterminio: lo blocca anche un rifiuto di ‘estetizzare’ l’orrore, che sarebbe una diversa forma di banalità del male? Dare perfezione formale al male, alla Leni Riefensthal, sarebbe in qualche modo assecondarlo, e quindi un’altra forma di disumanizzazione?

Hai colto bene il tema centrale del libro,  affidato al personaggio di Max il pittore che si rifiuta di spettacolarizzare il dolore e l’orrore dei campi di sterminio dove celo, neanche troppo, una mia riflessione  sulla funzione  dell’artista che, a mio modo di vedere, non deve avere nessuna funzione, essere  invece una pietra di inciampo per  benpensanti e imprenditori filantropi che vorrebbero dettare anche le leggi della creatività con i loro social annacquati e senza drammi,  una coscienza infelice sempre contro,  una figura  nostalgica di artista puro che crea interrogando l’uomo… Sì, hai ragione, dare perfezione formale al male è un’altra forma di disumanizzazione: uno dei personaggi del libro comincia a disegnare figure geometriche imperfette per sottolineare che la creazione umana non è perfetta né seriale,  solo una macchina crea forme perfette.

Attraverso il personaggio di Melissa, che ha abbracciato il buddismo, e sta morendo di cancro, è introdotto nel libro il tema di una rinuncia al possesso che riporta alla cultura orientale. È uno dei tuoi temi, non solo nel filone poetico (penso a Fukyo, uscito quest’anno) Anche nel Lungo risveglio dell’impiegato E., che io ho amato molto, il “risveglio” di cui si parla è (anche) un risveglio in senso religioso buddista (Buddha in sanscrito significa appunto “il Risvegliato”), oltre ad altre  cose ancora: per il Lungo risveglio dell’impiegato E., il tuo continuo confronto con la grande tradizione romanzesca otto-novecentesca mi aveva fatto pensare addirittura che lo sconvolgimento percettivo del finale alludesse anche al più celebre “risveglio” del romanzo modernista, l’arduo e magnifico Finnegan’s Wake di Joyce. Qui quale funzione è da attribuire al personaggio di Melissa, che Max accompagna nella malattia con dolcezza, standole vicino fino alla fine? In che modo cioè si inserisce in una riflessione sul male nella storia, e nel suo rapporto con l’arte?

La malattia come metafora di Susan Sontag è un bellissimo libro che ho letto da ragazzo in cui la Sontag racconta come guarì della sua malattia ribellandosi all’idea che si è vittime del male del secolo; Melissa invece nel libro muore di cancro ma guarisce dalla malattia dell’eternità che è il tema del libro, per questo diventa un soggetto da dipingere nel quadro che Max tenta inutilmente di finire su Dachau. Melissa sta perdendo il suo peso come i deportati nei lager, tant’è che nel finale Max continua a ritirarla fino all’ultimo respiro. Melissa rappresenta il senso della fratellanza con la quale concepisco l’amicizia che è molto vicino all’amore, ho molti amici con i quali ho questo tipo di rapporto: totale, contrastato, assoluto. Melissa nel suo essere una star della malattia si avvicina alla morte con grande dignità e diventa  iconica: lascia la materia per diventare puro spirito, quando abbandoniamo ogni forma di attaccamento ci avviciniamo alla perfezione umana, artistica.

Si può dire che il romanzo abbia un lieto fine? Dopo la riuscita dell’opera, e l’atto psicomagico del gallo nero ucciso e cucinato al miele per venire a patti con il fantasma paterno Max arriva a godere di ogni attimo, emozioni rigeneranti come quando il fulmine ripulisce improvvisamente l’atmosfera dalle cariche vaganti di energia elettrica. Godere ogni attimo, che è la cosa più difficile del mondo.

Mentre scrivevo il finale pensavo che fosse una vera conclusione felice, in realtà l’idea che chiusi i conti con il passato si possa finalmente vivere il presente è un’idea estremamente ambigua che tu con la tua intelligente e sensibile accortezza mi hai fatto notare; godere di ogni attimo non è un atto consapevole ma una preghiera, e per pregare intendo entrare in uno stato meditativo con l’essenza della vita.

Quando hai parlato di “prima incursione nel romanzo storico” intendevi che ne hai già in mente un altro?

In effetti ho pronto un altro romanzo storico, “Il Maestro“, che più storico non si può, si svolge nel Giappone medievale ed è la biografia romanzata di Nichiren Daishonin, il controverso e amatissimo ri-fondatore del buddismo giapponese, e la storia è raccontata dal suo allievo prediletto Nikko Shonin, un racconto epico ma narrato in maniera umana troppo umana dal suo allievo. Il libro uscirà a fine agosto con un’importante casa editrice romana.

Mariano Lamberti
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