di Gabriele Ottaviani
L’arte celtica non giocava soltanto con le distinzioni di specie, ma anche con il tempo e lo spazio. In Eurasia c’è la lunga tradizione, sopravvissuta soprattutto nell’arte rupestre, di mostrare insieme una varietà di vedute di un oggetto o una combinazione di oggetti. Dai capi opposti dell’Eurasia ci sono arrivate rappresentazioni di carri da battaglia e carri agricoli: su una pietra dei cervi di Darvi Sum, in Mongolia e in una sepoltura della prima Età del ferro a Hochdorf, vicino a Stoccarda, in Germania. Le immagini composite giocano con lo spazio nel senso che ci mostrano delle vedute da angolazioni differenti. In una certa misura, giocano anche col tempo: sarebbe infatti impossibile vedere l’oggetto da tutte quelle prospettive contemporaneamente, così che un’immagine viene di fatto a combinare dei momenti di percezione successivi in una metapercezione composita. (Se volessimo cercare un qualche equivalente di questa tecnica nei canoni artistici più moderni, potremmo citare il cubismo, con il suo interesse per la natura temporale della percezione.) Questi due esempi precedono l’arte celtica, ma costituiscono due chiari esempi di quel gioco con le dimensioni che la caratterizza. Per esempio, la piastra di bronzo con decorazione traforata rinvenuta a Cuperly (in Francia), che probabilmente era montata sulla cassetta di un carro da battaglia, mostra o una creatura a due teste (un drago?) o, forse, un singolo drago visto da destra e da sinistra. Certo, potremmo innanzitutto chiederci se sia mai possibile vedere un drago; ma, anche se lo fosse, sarebbe improbabile vederlo contemporaneamente da destra e da sinistra (anche se in un incontro del genere non potremmo escludere nulla). La piastra di bronzo di Cuperly contiene un doppio gioco: ci presenta una creatura che potrebbe o non potrebbe esistere, e ce la mostra da una prospettiva doppia, che viola i limiti di ciò che possiamo normalmente percepire. Qui ci troviamo in mondi che trascendono quelli delle nostre esperienze sensoriali e delle nostre percezioni quotidiane, mondi dove la nostra visione della realtà viene sfidata e forzata in modi magici.
Storia della magia – Dall’alchimia alla stregoneria, Chris Gosden, Rizzoli. Traduzione di Daniele Didero. Classe millenovecentocinquantacinque, archeologo britannico specializzato in archeologia dell’identità e in particolare di quella che è alla base della costruzione dell’immagianrio collettivo inglese, professore di archeologia europea, direttore dell’Istituto di archeologia dell’Università di Oxford e amministratore fiduciario del British Museum, ha un curriculum a dir poco straordinario e una maiuscola autorevolezza costruita attraverso anni di studio, passione, approfondimento, ricerca: è innato nell’uomo il desiderio di comprendere, ancor più quando le cose e le leggi che le governano paiono sfuggirgli, inducendolo a rifugiarsi in un altrove trascendente che assume i contorni della ierofania o, come in questo caso, della magia, che con leggi che sfuggono alla naturalità penetra il mistero dell’esistere. Da non perdere.