di Gabriele Ottaviani
Nostro padre non ne può più di inventarsi aggettivi…
Noi, Paolo Di Stefano, Bompiani. Chi perde il coniuge è vedovo. Chi perde il genitore è orfano. Chi perde il figlio non è. Resta padre, resta madre, ma di una prole senza vita. Quantomeno, senza quell’esistenza terrena che è l’unica di cui possediamo empirica certezza e che disperdendosi ci lascia solo ricordi, rimorsi e rimpianti. Ma anche chi perde il fratello non è. Anche per lui manca la parola. La definizione. Anche a lui tocca affrontare la rimembranza, la rimanenza, la lontananza, la perdita, la smarginata frantumaglia per cui niente e nessuno saranno più come prima, e vivrà pure per un altro, e sulle sue spalle s’ingrommerà un peso che non è il suo, impossibilitato a non chiedersi almeno una volta, anche circondato da tutto l’amore del mondo, se non si occupi indebitamente un posto altrui. Resta solo, quando qualcuno va via per un tempo improvvido, per un male che non sarebbe più stato mortale, se il futuro fosse stato un presente già passato, scivolando dall’altra stanza mentre a noi non è concessa alternativa diversa dall’immaginarci nel gioco del tempo, la presenza dell’assenza, la pertinace resilienza di una sopravvivenza che da unitaria si fa molteplice. Chi resta, in questo caso, è il fratello maggiore, che racconta di un io che diventa plurale, di istantanee della memoria, della costruzione di un’identità e di un immaginario: sublime, a dire poco.