di Gabriele Ottaviani
Presi un tremendo panino preconfezionato. Il gusto era in linea con l’aspetto: orribile. Cercai di levarmi dalla bocca quel saporaccio d’insalata ammuffita e mozzarella scadente con una birra chiara. Alle cinque del pomeriggio ancora niente. Neppure un segno. Iniziavo davvero a sentirmi una sciocca. Forse avevo perso la mia opportunità per sempre? Quando finii il libro, era ormai arrivata l’ora dell’aperitivo e di nuovo orde di operai si ammassarono al bancone per avere qualcosa da bere. Avrei volentieri chiesto alla cameriera qualche informazione utile, ma purtroppo non era la stessa ragazza della sera prima. «Oh, sì, Alessia. È il suo giorno libero oggi. La trova domani, in caso». Così mi era stato detto quando avevo provato a chiedere di lei. Maledetta! Poi fui investita da un’idea talmente semplice da sembrare banale: da dove diavolo venivano tutti quegli operai? E la sera prima la maledettissima Alessia non aveva forse chiamato Giulio ingegnere? Evidentemente lì vicino da qualche parte c’era un cantiere e il responsabile doveva essere proprio lui. Sarebbe bastato chiedere in giro e dare un’occhiata nel circondario. Non poteva essere lontano. Fu proprio mentre meditavo su questo mio nuovo piano geniale che lo sentii. «Buonasera» disse entrando nel bar e appoggiandosi a uno degli sgabelli accanto al bancone. «Una birra, grazie, media!». Alzai lo sguardo e lo vidi. Erano passati più di sette anni e il suo volto era visibilmente invecchiato, non maturato ma sfiorito e il profilo aveva subito qualche misterioso scombussolamento, tuttavia era sempre lui: il dio greco dagli occhi affamati color trifoglio. Sentii le gambe tremare e lo stomaco torcersi in una morsa insopportabile. Era evidente, non mi aveva vista. Decisi così di alzarmi e andare a pagare il conto, il fatto che la cassa fosse proprio accanto a lui direi che capitava a fagiolo. Presi le mie cose e mi alzai. Andai dritta alla cassa e rimasi ad aspettare…
Obtorto collo, Camilla H. Maturi, Scatole parlanti. Locuzione latina che significa malvolentieri, controvoglia, giocoforza, perché costretto, con riluttanza et similia, visto che certo nessuno, a meno che non si tratti di un contorsionista impegnato in un esercizio, di un masochista o del protagonista di una pellicola horror, sta di norma con piacere con il collo storto come un albero a gomiti, detto di fatti non a caso collo d’oca, il titolo del buonissimo romanzo di Camilla H. Maturi, che scrive con perizia e sapienza, ne è anche una sintesi ferocemente appropriata. È infatti spezzato dall’atrocità dolorosissima di un’impiccagione suicida il collo della mamma d’Ipazia, appellativo quanto mai parlante e significativo (matematica, astronoma e filosofa neoplatonica alessandrina uccisa nei primi anni del quinto secolo da una folla di cristiani in tumulto, dà anche il nome all’erba taumaturgica attorno alla quale prospera il paese vividamente ritratto nei fotogrammi di Effetto paradosso, film di Carlo Fenizi) per una donna che nel duemilaquattro ha solo diciotto anni quando la tragedia la colpisce in pieno volto al rientro da scuola. Con ogni evidenza, quel giorno è morta un po’ anche lei; ma la vita ha l’abitudine di non arrestarsi dinnanzi a nulla, e così, mentre gli anni passano, Ipazia si sposa (col suo analista), lavora nell’erboristeria del padre, diviene una scrittrice: tutto pare proseguire in modo quasi banale, finché tal Giulio Fraccani, di professione ingegnere, non viene trovato morto in una camera d’albergo, e… Prorompente, da leggere.