di Gabriele Ottaviani
Sprofondai nel buio e immaginai che la scatola contenesse un vestito da sposa ingiallito, o una collezione di parrucche, o le pelli degli animali che il padrone di casa aveva ucciso e scuoiato. Il seminterrato era freddo e silenzioso. Rabbrividii. “Lielle?” mormorai. Poi la sua testa ‒ coperta e in controluce, spettrale nel buio del seminterrato ‒ comparve dalla finestra sopra di me. “Che stai facendo?” “Dove sei?” “Ti stavo aspettando davanti alla porta sul retro.” Lo disse lentamente, come se fossi io quella per cui l’inglese era la seconda lingua. “Vai di sopra e aprila.” “Non ci vado di sopra ad aprire la porta.” “È così che si fa. Non la guardi la TV?” “Non aprirò la fottuta porta per te. A malapena ci vedo.” La sua testa sparì e venni di nuovo abbandonata. Stavo per mettermi a urlare quando vidi le sue gambe passare dalla finestra, poi i suoi fianchi. Si infilò dandosi una spintarella e mi finì addosso, dandomi una gomitata in faccia. “Gesù, ahi.” “Scusa.” Senza rendersene conto, mi stava tenendo la mano. La nostra pelle sudaticcia ci aveva incollato insieme ‒ eravamo unite nella paura. Sprofondai nel buio e immaginai che la scatola contenesse un vestito da sposa ingiallito, o una collezione di parrucche, o le pelli degli animali che il padrone di casa aveva ucciso e scuoiato. Il seminterrato era freddo e silenzioso. Rabbrividii. “Lielle?” mormorai. Poi la sua testa ‒ coperta e in controluce, spettrale nel buio del seminterrato ‒ comparve dalla finestra sopra di me. “Che stai facendo?” “Dove sei?” “Ti stavo aspettando davanti alla porta sul retro.” Lo disse lentamente, come se fossi io quella per cui l’inglese era la seconda lingua. “Vai di sopra e aprila.” “Non ci vado di sopra ad aprire la porta.” “È così che si fa. Non la guardi la TV?” “Non aprirò la fottuta porta per te. A malapena ci vedo.” La sua testa sparì e venni di nuovo abbandonata. Stavo per mettermi a urlare quando vidi le sue gambe passare dalla finestra, poi i suoi fianchi. Si infilò dandosi una spintarella e mi finì addosso, dandomi una gomitata in faccia. “Gesù, ahi.” “Scusa.” Senza rendersene conto, mi stava tenendo la mano. La nostra pelle sudaticcia ci aveva incollato insieme ‒ eravamo unite nella paura.
Il buio e altre storie d’amore, Deborah Willis, Del Vecchio. Vi è in ogni biografia un punto di rottura, un prima e un poi. Vi è in tutte le narrazioni una perdita di equilibrio: può accadere che qualcosa irrompa o che, come nel caso di queste 14 storie, svanisca. Come avviene a Nathan, scrittore di provincia che abbandona il suo scrittoio in soffitta, sceneggiature incompiute, domande irrisolte di chi è rimasto a casa. Così il cowboy lasciato dalla moglie viene sedotto da una ragazzina di città. Un dottore, dopo un grave lutto, si dà al black–jack. Un’indovina non riuscirà a prevedere il dolore della figlia. Che siano una gelataia con il viso coperto di lentiggini che porta il nome di Nina Simone, o l’insegnante di francese alla ricerca della libertà, i personaggi di queste storie sono come ancorati a un evento incancellabile: un vuoto con il quale camminano, respirano, convivono. La scomparsa scava il solco del dubbio: qualcosa non è andato via per sempre, è semplicemente altrove, lontano, invisibile, ma c’è, e questa presenza è un movente di straordinaria complessità. Deborah Willis, giovane talento della letteratura canadese, esplora l’assenza, le modalità con cui si abbandona o si è abbandonati e lo fa con economia di parole, nitidezza di immagini, controcampi e alternanza di punti di vista. Una scrittura sapiente e virtuosa, che racconta storie di rara intensità emotiva, non prive di humour nero, con una voce nuova ma già inconfondibile. Così si è scritto di Deborah Willis, classe millenovecentoottantadue, canadese, quando è uscita, facendo, giustamente, sensazione, la sua raccolta di racconti, in Italia col titolo evocativo di Svanire, in cui ha magistralmente indagato l’insostenibile peso dell’assenza, tema che in questa nuova prova letteraria, ancora connotata da un insieme di forme brevi, che esaltano l’icastica densità della sua prosa, ritorna, assieme a molti altri: la percezione dell’ambiguità, del non detto, dell’inesprimibile, ineffabile, invisibile, del buio che cerca la luce che lo dissipi, del senso, in definitiva, del vivere con tutte le sue contraddizioni è qui declinata con eleganza e raffinatezza. Da non farsi assolutamente sfuggire.