di Emanuele Ventura
Giuseppe Tripodi, Catalogo della casa di Gianni e altri racconti calabri (Roma, Il Seme Bianco): Appunti per un’analisi linguistica.
Nella sua nuova fatica letteraria, Giuseppe Tripodi ci conduce ancora nel mondo della Calabria grecanica, raccontato qui attraverso la figura dell’orologiaio Gianni e dei personaggi che di volta in volta finiscono per frequentarne la casa: un mondo del quale l’autore, è bene rimarcarlo sin d’ora, riesce ad evocare i sentimenti più profondi e le sfaccettature più varie, restituendo alla memoria collettiva personaggi di un passato che ha ancora molto da raccontare (e altrettanto da insegnare), non fosse altro che al fine di sottrarre le vicende umane al passare inesorabile del tempo («L’oblio annebbierà la nostra vicenda umana e, nel giro di una o due generazioni, nessuno ricorderà chi eravamo, da dove siamo venuti. Parleranno dei politici di rilevanza nazionale, dell’emigrazione, della Cassa per il Mezzogiorno, della ndrangheta. Ma nessuno si ricorderà di Cola Ieropoli e del vostro conta fiabe»: p. 10).
Ponendoci dinanzi alla realtà popolare della Calabria di alcuni decenni or sono, Tripodi torna alle sue origini, alla terra lasciata e periodicamente ritrovata: costruisce, così, un micro-mondo intessuto delle sue quotidiane micro-storie, le quali stanno anzitutto a ricordarci quanto Pavese avesse ragione quando, nel suo ultimo romanzo La luna e i falò (che è poi soprattutto un viaggio nei ricordi, come quello di G. Tripodi), affermava, con parole di grande suggestione, che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Il lettore non dovrà sicuramente prestar troppo credito alle parole incipitarie dell’autore, che nell’esordio ci informa di come «la [sua] capacità di stesura si [sia] rivelata assolutamente inadeguata», tanto da approdare, a suo dire, non alla creazione di «un romanzo di formazione», bensì soltanto di «alcuni raffazzonati grumi narrativi sconnessi» (p. 9): possiamo senz’altro ricondurre tale dichiarazione a quello che, nella retorica antica, sarebbe stato identificato come un cleuasmo; seppur di semplici grumi narrativi si trattasse, infatti, essi hanno il potere di trasportarci in una lettura di notevole godibilità.
Muovendosi sui binari di un realismo fantastico, Tripodi narra l’epica quotidiana di un mondo lontanissimo dalla frenesia d’oggigiorno (il paese di Precacore «era stato Itaca di tante piccole iliadi e altrettanto piccole odissee»: p. 31): nelle pagine dei sei racconti che compongono il libro ritroviamo la ricchezza della cultura contadina e l’orgoglio delle radici in una terra difficile, ma anche, di riflesso, l’eco della storia nazionale e delle sue radicali trasformazioni socio-economiche, rievocate tramite una gustosa aneddotica e accompagnate da riflessioni talvolta amare sulle conseguenze di cambiamenti tanto repentini («Cresciuti in un tempo in cui non c’era la radio o la televisione, e tanto meno i libri e i lettori per conto terzi delle più raccomandate prescrizioni pedagogiche neoroussoviane, abbiamo molto patito per carenza di fiabe e di racconti […]. Se ci rivolgevano ai nonni altrui […], se ne uscivano con racconti non più lunghi di due righe che sarebbero stati apprezzati al tempo della twitter-scrittura ma che poco o punto soddisfacevano la nostra ‘fame’ di storie»: Vecchi p. 23).
Volendo qui circoscrivere la nostra attenzione sugli aspetti linguistici del libro, sarà opportuno muovere anzitutto dal ruolo essenziale in esso giocato dal dialetto: un marchio che ci consente di riflettere sulla storica vitalità della letteratura dialettale “riflessa” e sulla sua rilevanza nella storia culturale italiana, al fine di riscoprire quella fittissima tramatura di tradizioni locali, regionali, municipali che contraddistingue il nostro Paese. Il dialetto, qui come in molti precedenti illustri della nostra letteratura, è in primo luogo la lingua delle emozioni, di ciò che difficilmente potrebbe essere espresso con altrettanta forza e vitalità per mezzo della lingua nazionale; a tal riguardo si ricordino, fra i tanti esempi utili, le parole di G. Gozzano in L’altare del passato: «Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell’italiano (adoratissimo!) […], il mio dolce parlare torinese, l’unico nel quale penso e l’unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto …». Tali considerazioni valgono ancor più ai giorni d’oggi, dal momento che di rado capita di osservare un uso altrettanto vitale e convincente del dialetto, anche cercando nella narrativa contemporanea di maggiore visibilità: quell’energia che può albergare in una lingua “altra”, al contrario, tende spesso a perdersi, poiché il problema della lingua è ridotto al semplice inserimento di tessere vernacolari all’interno di una compagine che, per il resto, risulta interamente italiana; la voce del narratore, al contrario, come ben dimostra Tripodi, deve essere in grado di adattarsi alla voce dei personaggi, instaurando con essi una convivenza credibile. Come spiegava con fini metafore il compianto Andrea Camilleri in un’intervista concessa a Tullio De Mauro (Andrea Camilleri/Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole), non si tratta semplicemente «di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane».
Nel libro di Tripodi la parola dialettale diviene anche uno dei mezzi più efficaci per rafforzare la componente comico-giocosa che attraversa tutti i racconti: la vena ironica del narratore emerge a ogni pagina e alimenta costantemente il riso del lettore; un’ironia, peraltro, che sfugge del tutto il politicamente corretto (ponendosi, anzi, in contrapposizione a qualunque istinto di pruderie), toccando i suoi vertici nei temi, ricorrenti nel testo, della passione politica e della sessualità incontrollabile di certi personaggi (cfr. p. 84). A questi si aggiungono gli impulsi di antireligiosità di altre figure, cui si oppone la singolare posizione del protagonista, comunista e cristiano, anzi nato prima cristiano che comunista, come egli stesso precisa nel racconto, esaltando la vicinanza fra messaggio evangelico e ideale comunista (Perché Dio non è quello che ci raccontano il papa, il vescovo, don Paolo e i loro sciacquabèrtuli: p. 64; Gesù è stato il primo comunista e la buona novella che voleva portare a tutti era l’uguaglianza: p. 65).
Il dialetto dei personaggi, improntato a uno schietto mimetismo, è tuttavia soltanto una delle componenti linguistiche che caratterizzano il testo: a colpire il lettore, infatti, sarà soprattutto la complessa polifonia dei registri che costantemente s’intrecciano, rivelando, per così dire, tutte le anime dell’autore. Alla scrittura cólta e arguta che contrassegna normalmente il livello diegetico si accompagnano:
- a) i numerosissimi dialettismi e regionalismi del narratore, dai quali, come detto, si riesce a cogliere la perfetta sintonia con il dialetto totale messo in bocca ai personaggi: rigghiòccolo di abitazioni (p. 16); guallera che aveva grande quanto una còfana del pane (p. 24); covoni di grano ntimognàti intorno all’aia per la trebbiatura (p. 31); mio padre … mi aveva dato una passata di curriàte con la cintura di cuoio (p. 32), Giamberambeddu (p. 39), si era annodato il maccatùri stretto intorno alla nuca (p. 40); mogli che prima llunchiàvanu i ndrànguli (p. 57); un bastàsi era diventato il figlio (p. 80); nel sarvaticuda successivo all’urto lui era scappato con il sacco (p. 82); annacandosi in solitudine come fosse a una sfilata di Armani (p. 84; ‘affrettarsi o tergiversare allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo spostamento’, secondo la spiegazione offerta da Roberto Alajmo in L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia); aveva smiriato un bel corpo di donna (p. 103); l’aveva perciato poco a poco (p. 103); caronfolosa fronte pensatrice (p. 115); alle volte l’autore viene in soccorso al lettore per mezzo di glosse che facilitano la comprensione del dialetto: a forza di nfungàri, cioè di affondare le mani nella pasta, dovevamo farla assorbire (p. 40); l’intercalare “Stìcchiu! Stìcchiu!…” parola che, a chiarimento dei non calabri, indicava il sesso della donna (p. 74); il marito era un vero “schugghiàtu”, cioè castrato (p. 118), ecc.; frequenti sono anche le inserzioni di stampo paremiologico: Chi quando lu fundu pari, non c’esti cchiù nenti i fari!; Cu peli figli si ‘mmazza / morirà sutta a ‘na mazza, ecc.
- b) la continua sperimentazione linguistica e il gusto spiccato per la ricerca lessicale: possiamo a buon diritto far nostro l’appellativo di ‘meccanico delle parole’, che al nostro autore ha attribuito Claudio Cavaliere in una recensione apparsa sul Corriere della Calabria; ancor meglio calzerebbe, tuttavia, quello di vero e proprio ‘artigiano delle parole’, che restituisce l’idea di un gusto per la lingua che non è semplicemente quello del compulsatore di dizionari, bensì quello del fine studioso e amante delle lingue, antiche e moderne. Assistiamo, così, all’introduzione di termini provenienti da molti campi diversi, alcuni dei quali molto vicini all’esperienza quotidiana dell’autore: i) giurisprudenza: la decisione sul quesito peritale (p. 15); avrei proposto che la controversia si estinguesse con non luogo a procedere (p. 19); l’abigeato era il reato più diffuso (p. 68); ii) scienze: asintotico anonimato della vecchiaia (p. 74); atrabiliosa reprimenda (p. 106: lessico ippocratico); disturbi cocleari (p. 108) iii) lessico mafioso: pungiuto (p. 8); iv) lessico della filologia: archetipo (p. 62), interpolavano il padre Dante facendogli dire che l’Italia era serva degli americani (p. 110); v) termini dell’antica tradizione poetica italiana: Peppareddhu abentava solo quando parlava con lei dalla finestra (p. 100: < abento ‘riposo, pace’, adattamento toscano di antica voce siciliana, che rimanda ai versi di Cielo d’Alcamo: Per te non ajo abento notte e dia); vi) originalissime perifrasi dotte, introdotte in chiave ironica e derivate soprattutto dal campo storico-filosofico: allievi di Clio ‘storici’(p. 14), esemplare omeomerico ‘pinolo’ (con metaforica allusione alle ‘omeomerie’ del filosofo greco Anassagora: p. 27); effluvi oculari ‘lacrime’ (p. 61); sceglieva il suo obiettivo agiologico ‘santo oggetto di imprecazione’ (p. 79); un capolavoro di ironia si legge, poi, nella perifrasi adottata per designare il gesto apotropaico della “grattata” vòlta ad allontanare le lucrose mire di un impresario di pompe funebri (Anna […] proponeva scherzosamente di rappresentare sul piano cartesiano quel gesto del padre con una curva asintotica perfetta: il minimo rivolto alla linea delle ordinarie, sulla quale era rappresentata la distanza del cassamortaro dal grattante, e i massimi sull’ascissa a significare l’intensità iniziale della grattata, la sua decrescenza all’avvicinarsi del monattone e l’impennarsi successivo al suo allontanamento: p. 104).
- c) i forestierismi (soprattutto germanismi), anch’essi impiegati in chiave puntualmente ironica: Zi Leu…era un tombeur di pigne (p. 27); il paragrafo dedicato alla formazione del protagonista presso la casa di Gianni è intitolato, con termine tedesco, Ausbildung (p. 53); multiforme ingegno nei giochi delle carte napoletane, stuppa e calabresella über alles (p. 75); target (p. 80), leasing: in paese nessuno conosceva quel contratto e tutti facevano ironia dicendo che Pagghiazzu si procurava le automobili con la ‘lisi’, che era poi l’ampelodèsma con cui i contadini fabbricavano dei rozzi cordami (p. 81); dopo la digressione su Trùscia junior, all’ ”UrTruscia” dobbiamo tornare (p. 90); funzionali allo spirito comico sono le battute in calabro-tedesco di Ciccio il tedesco, personaggio la cui triste sorte è quella di risultare incomprensibile, al medesimo tempo, tanto ai tedeschi (a Osnabruck dicevano di non comprenderlo perché parlava italiano) quanto agli italiani (perché parlava calabrese), e perfino ai suoi compaesani calabresi (perché parlava tedesco: eu taliànu sugnu! Al cento per cento…io ferstande chi tu si comunista e tifi per l’Urse. Ja, dasistgute, cazzu! Ma che tifi pe la Germania, sciaissaufdicchi… No pozzu deeeeenken das! No pozzu!.: pp. 111-112), ecc;
- d) il latino e i latinismi: corampopulo (p. 8); l’apertura erga omnes della casa (p. 54); casus belli (p. 68); l’automotricità dell’eques (p. 54); la senectus che, come diceva il filosofo, quando è avanzata, di tutti i mali è sicuramente il peggiore (p. 74;) sursum corda (p. 90); era disposto a soddisfarne qualsiasi petitum (p. 124); gli erotici interna corporis della moglie (p. 126); la sua “vocatio ad rotam” (p. 127); appellativo liminare (p. 18), gli imbarazzati vettori (p. 54); pulsante ‘che spinge (una carrozzella)’ (p. 55); tale era il nome del germano gerarca (p. 68)/germano fuggitivo (p. 72); proventi delle prime violenti ablazioni ‘rapine’ (p. 80); vaniloquio antiprandiale (p. 108); più lui concionava … (p. 96); coniugio (p. 102); “Sì!” Cachinnava qualcuno di mente poco plotinica (p. 115), ecc.;
- e) i grecismi: idromachia (p. 15), cronosofie, cenobio (p. 55); contro-nemesi (p. 76); comparazione oropotamica (p. 109); con fortissima istanza ironica, al fine di descrivere un rapporto omosessuale, in un passo come il seguente: era stato il suo andreionne, chiuso a riccio senza dar alcun segno di vita, a mandare all’aria il sinallagma (p. 75); ecc.;
- f) i neologismi: mezzosopranica domanda di mia nonna “Cu è?” (p. 33); senechiàvano fino all’esasperazione i mariti (p. 57)/il quotidiano senecheggiare della consorte (p. 80); billiballare (di derivazione dialettale < billiballi ‘ballo sfrenato’); semaforeggiava (p. 117); veronicando (p. 117), ecc.
In un’opera che attinge, come visto, a così tante suggestioni linguistiche e letterarie, non possono mancare, infine, alcuni richiami danteschi, collocati sempre sul binario di un’ironia manifesta e talvolta dissacrante: così, i traditori del partito meriterebbero, agli occhi di Cola Ieropoli, un decimo cerchio dantesco nel buco del culo dell’inferno […] appena oltre Antenora (p. 7); una grande e bella foto tipo tessera di Gianni ritratto dalla cintola in su, come Dante aveva visto Farinata nel canto decimo dell’Inferno (p. 50); quel corpo umiliato e offeso, se solo avesse potuto sollevarsi dal suo avello come Farinata degli Uberti di fronte a Dante […] (p. 106).
Nel concludere la nostra breve rassegna, non possiamo che ribadire come l’uso sapiente di tutti i principali registri linguistici contribuisca alla creazione di un prodotto letterario di notevole maturità e sperimentazione: nel suggestivo mélange che ne deriva, il dialetto funge da collante che compatta e rinvigorisce la lingua del narratore, senza compromettere la leggibilità dei racconti.