di Gabriele Ottaviani
Alessandro Mauro ha scritto il bellissimo Basilio: Convenzionali lo intervista con gioia per voi.
Da che esigenza nasce questo libro?
Basilio è un personaggio con cui faccio i conti da un po’. Raccontare un ragazzino vuol dire avere a che fare con la condizione umana in una forma iniziale, pura. Attraversare quel tempo di scoperta e sbigottimento è di per sé avventuroso, e spesso strabiliante. Tantissima narrativa mette in pagina accadimenti estremi: pensa solo al successo di giallo e noir. A me è sembrato interessante provare a raccontare l’emozione di cose che in apparenza sono piccole, ma che a chi è piccolo magari paiono enormi. In realtà, comunque, tutto questo è un ragionamento a posteriori. L’origine è più concreta: ti viene in mente, per dire, un ragazzino che si scorda di pagare un gelato, e tutto il casino che ne può derivare. E se quella cosa resiste dentro di te per un po’, poi la scrivi. Poi te ne viene un’altra e scrivi anche quella, e poco per volta hai un personaggio, che nel mio caso è Basilio.
Quando si è ragazzi tutto sembra definitivo, assoluto: poi cosa cambia? Ha ragione Aldo Busi quando scrive: Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quando si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato.?
Probabilmente “il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani” a trenta o quarant’anni perde potenza. Voglio dire: se alle elementari prendi zero, o se qualcuno ti rifiuta a diciotto anni, di solito a un certo punto ti dai una calmata, prendi atto che è andata così. Però tu resti quella persona. Quasi ciascuno di noi è in una relazione piuttosto stretta con quello che era da giovanissimo. Credo, o almeno spero, che tra il lettore adulto e Basilio non ci sia distanza, ma compassione.
Quanto pesano i rimorsi? E i rimpianti?
Credo dipenda dal loro – come dire – peso specifico. Un grande rimpianto è probabilmente peggio di un piccolo rimorso, e viceversa. A parità di peso credo che i rimpianti siano un po’ più dolci dei rimorsi. In fondo le parole lo suggeriscono: il morso è più violento del pianto.
Al tempo che scorre si guarda con più tenerezza o con più nostalgia?
Non credo che Basilio abbia la nostalgia tra le sue intenzioni. Lui è quasi sempre alle prese con guai che gli sembrano irrimediabili, o con desideri squassanti. Non c’è tanto da invidiarlo. Dopodiché le estati dei dieci o dei quindici anni, o gli ultimi giorni di scuola, di qualsiasi anno, restano un tempo irripetibile a prescindere.
Cosa sarebbe bene riuscire a conservare, da adulti, della fanciullezza?
Il fiato, l’elasticità, la strepitosa capacità digestiva; ma ovviamente non c’è verso. Dunque si potrebbe provare a salvaguardare, nella misura del possibile, la capacità di stare nel presente che contraddistingue gli anni in cui, un sacco di volte, si cade e ci si rialza.
Perché scrive?
Scrivere, benché su commissione, è il mio mestiere da molti anni. Decidere di farlo in modo più libero e personale era un esito prevedibile, che mi rimette in connessione con quando, al liceo, ero tutto contento perché c’era il compito di italiano. E ostentavo le mani in saccoccia, mentre avrei fatto bene a portare un vocabolario. A parte questo, trovo che scrivere sia una faccenda molto concreta, sia un fare. Quando stai lì che levi un avverbio, o sposti una virgola, non è troppo diverso dal lavoro di qualcuno che cura una siepe, per fare un esempio. Pubblicare, poi, apre un altro pezzo del discorso. C’è tutta una sovrastruttura – le presentazioni, la promozione – in cui mi sento molto goffo. Allo stesso tempo, però, l’incontro tra i lettori e le pagine è senza prezzo. Mi è già successo con Se Roma è fatta a scale, mentre con Basilio, che è appena uscito, sta iniziando a succedere in questi giorni. Vedere che le persone si divertono, o si emozionano, che quello che hai scritto diventa roba loro, è una buona ragione per farlo.
Il libro e il film del cuore, e perché.
Il giovane Holden, che infatti è la storia di un ragazzetto, e pace per la totale mancanza di originalità. Credo di averlo letto all’età giusta, cioè molto presto, e l’esperienza di immersione provata in quelle pagine, la voce con cui Holden Caulfield racconta i suoi impicci, m’è rimasta impressa come un tatuaggio. Di Salinger ho molto amato anche i Nove racconti, per dire della forma breve, e c’è stato un periodo in cui ho letto ogni riga disponibile di John Fante. Quanto al film, C’era una volta in America, di Sergio Leone. Una macchina narrativa complessa e stupefacente che puoi continuare a guardare per anni, scoprendo nuovi percorsi. Anche lì ci sono i ragazzi, e anche lì, fondamentale, il tempo. Qualcosa vorrà pur dire.