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La tripodazione di Colaierofanopoli

CatturaCola Ierofani che mostrava il “sacro” delle vite novecentesche nel 2014 diventa, nel gurgite vasto della ricostruzione immaginativa, rammemorativa e antropologica Cola Ieropoli, sintesi letteraria e microstorica di un processo di vicinanza al mondo-paese e al mondo-città. Sembra   “Il catalogo della vita di Gianni”, che trova in Cola Ieropoli un importante elemento di mediazione, la continuazione (prosciugata, selettiva, ulteriormente razionalizzata nei personaggi e negli stili ) di Cola Ierofani, fantasmagorico effetto moltiplicatore di volti, realtà, passioni, ragioni, luoghi, contraddizioni, speranze, fantasie in un secolo breve e profondo; ma ne sembra anche la fase storicamente e sentimentalmente preparatoria, documenti di ricerca, motivati impulsi alla sistemazione nelle maglie della memoria. Ma, più attendibilmente, “Il catalogo…” si pone come cartina di tornasole, come sintesi che è in grado,  cannocchiale usato in un senso e nell’altro, di ingrandire il piccolo e rimpicciolire nitidamente il grande, con al centro il paese, la dimensione umana dell’urbano, la microstoria dei micromondi, il locale che richiama rispecchia riplasma il globale. E lo fa con registri linguistici sempre più consapevoli, collaudati, smaliziati che fanno tutt’uno con la multiforme vivacità di azioni e agenti.

Nel calderone dei nostri ricordi… tutte risultavano accomunate dall’entropia, dalla loro irreversibile tendenza a confondersi e a scomparire dentro il caos o, per usare un’efficace espressione biblica, a ritornare nella polvere delle origini. I ricordi e i racconti della vita di Cola avevano smosso involontariamente vite coeve e parallele, vite dei suoi, in parte anche miei, compagni di strada e di ventura (…). La nostra capacità di stesura si è rivelata assolutamente inadeguata. Non un romanzo di formazione dunque ma solo raffazzonati grumi narrativi sconnessi.”(p. 11)  “L’oblio annebbierà la nostra vicenda umana e, nel giro di una o due generazioni, nessuno ricorderà chi eravamo, da dove siamo venuti e come siamo vissuti. Parleranno dei politici di rilevanza nazionale, dell’emigrazione, della Cassa  per il Mezzogiorno, della ‘ndrangheta. Ma nessuno si ricorderà di Cola Ieropoli e del vostro contafiabe“ (p. 12).

Dal Proemium iocosum zampillano 4 racconti ricognitivi e segnaletici  (Controversia peripolana – Vecchi – Fuga – Pani di casa) che sfociano nel delta munificamente ramificato del “Catalogo della casa di Gianni”, popolato delle ricche filiazioni di personaggi, situazioni, caratterizzazioni, motivazioni, rappresentazioni – da  Cacatina di mosca a Maestro di ballo attraverso  Ausbildung Cronosofie Polifunzioni Perdizioni Pertica Maru don Filippo Mutilati Murcu Pagghiazzu Pedi i zoppa  Trusceide Pontefici e passatori Olè -.

“Cola Ierofani” era un romanzo di formazione e “Il catalogo della casa di Gianni” utilizza solo alcuni raffazzonati grumi narrativi? Oppure, pur apparendo in tempi sfalsati e in modalità apparentemente tradizionali (racconti calabri), ne costituisce non – come a prima vista si potrebbe ritenere – il presupposto ispirativo e documentativo, ma l’ulteriore elaborazione, la raffinata partenogenesi letteraria, sentimentale, microstorica. Come si verrà dicendo in seguito a proposito del modello linguistico, anche qui la struttura del romanzo appare in fieri, si fa nel tentativo sostanzialmente fruttuoso di accostare, far interagire, infine  integrare ambienti, personalità, situazioni, motivazioni, rappresentazioni, strutture e grane linguistiche. La paratassi delle specificità  e dei particolarismi diventa sintassi di vite, sentimenti, ragioni, mondi locali

In funzione globale. Romanzo di ri-formazione.

Fuoriuscendo dal labirinto affabulatorio (p. 28), un continente di sentimenti e una galassia di emozioni (p. 40)  hanno modo di esprimersi e palesarsi nei racconti, nelle descrizioni di atti, di realtà e di foto (documenti spesso richiamati non solo come folgorazione di realtà, ma anche come metodo  di descrizione prensile, appunto di catalogazione del farsi e disfarsi delle cose e delle vite), nell’interminabile drammaturgia della calabresella (p. 76) e non solo o del teatro telecronacato (p. 42). Meravigliosa questa arte del divagare (p. 76) che non perde di vista i punti nodali, dolenti e/o ridenti o irridenti. “Acqua di fonte per chi avesse sete di conoscere le vicende di uomini che, dietro l’asintotico anonimato della vecchiaia, celavano esperienze giovanili dalle tragiche cuspidi ormai decantate dal tempo e mitizzate nella memoria locale”(p. 76). E il narratore, puparo e demiurgo, muove, lucido e infervorato, qua e là commosso, ironico, sarcastico, tendenzialmente esaustivo, i fili delle realtà narrate e delle vite macinate come farina di pane, col garbo, il sapiente mestiere  e la cura del regista, come attestano anche di tanto in tanto precisazioni e postille: per amor di completezza (p. 19); ma dopo la digressione, dobbiamo tornare… (p. 92); l’ultimo frequentatore di cui voglio narrarvi (p.122); direbbe il lettore (p. 125).

Cola Ieropoli è vicino al paese, vicino alla città. Il paese era stato Itaca di tante piccole iliadi e altrettanto piccole odissee (p. 33). I personaggi sono topoi non solo della microepica della comunità peripolana. Emblematico e significativo il racconto “Pani di casa” (pp. 39-46) che comincia con l’immortalare le foto del nonno Fermusignu che  “in mezzo a tanti compaesani malvestiti e palesemente denutriti, sollevava un cartellone di protesta rivendicante la costruzione di casi per i crischiani, no pagghiàra! (p. 39) e della mamma di Cola: ”Il viso spuntava da un cappotto nero, chiuso sotto il lungo collo modiglianesco da un bottone a forma di conchiglia. Osservava l’obiettivo un po’ di traverso, quasi di tre quarti. L’orecchio destro non si vedeva per nulla. I capelli erano neri, raccolti a tuppo dietro la nuca. Una punta di venere, perfettamente perpendicolare alla linea del naso, della bocca e del mento, congiungeva i due archi rampanti della capigliatura stirata all’indietro; archi che si allargavano e discendevano verso le orecchie formando una specie di cornice, simile a due mezzelune congiunte, che divideva simmetricamente a metà la fronte spaziosa. Le sopracciglia, a forma di semiellissi allargate verso i fuochi, delimitavano la fronte verso il basso e facevano la guardia a due occhi neri velati da una profonda malinconia. Alla base del naso due piccole increspature anch’esse discendenti, preannuncio di rughe poi destinate a non compiersi, facevano risaltare la calotta delle guance. Un sorriso esaltava la nivea dentatura dell’arcata superiore, l’unica che si vedesse, e faceva convergere verso l’alto gli angoli della bocca“. (p. 40).  Si diffonde poi in una incalzante drammaturgia di “fari lu pani”, in cui movimenti, atti, tempi, sentimenti sono cadenzati con affettuosa, insindacabile precisione di rito e minuetto, integrando battute e chiose in italiano e in un teatralissimo dialetto calabrese: “Cazzu nonna! insomma,s’avi a ‘nfungari o non s’avi? Impastàti,  impastàti e dati u culu” (p. 43). ”Erano le guastelle che io e Cola non mangiavamo da una vita. Erano più saporite della  “manna chi cala d’u cielu” “Lei scostava il lenzuolo e, affondando prima una mano poi l’altra sotto ogni pane, lo sollevava con la delicatezza di una puerpera che dovesse prendere in braccio un neonato dal collo non ancora ben fermo” (p. 44). “E rimase lì, impalata come un ussaro, a sgagliare ogni tanto la placa e a richiuderla dopo aver controllato lo stato della cottura”. “Mamma mia ch’esti bellu, za Nina!” s’era fatto scappare di bocca Cola quando aveva visto il pane che si era sollevato” “E bellu u cazzu, Colinu! Ancora nci voli! Stati zittu chi mu docchi, santa Madonna!” aveva imprecato per scaramanzia. Poi, a cottura ultimata, si era fatta fotografare da Cola a lato della bocca del forno, con dentro il miracolo dei pani alti e colorati d’oro” (p. 45). “In una delle foto fatta e regalata da Cola, Milissina è in posa davanti al forno. La praca è di lato e si vedono i pani gonfi e allineati all’interno. Ha il viso rasserenato dalla certezza che il malocchio non ha colpito. Un ramo di pero estirpato dopo la sua morte, con le sue foglie verdi e con qualche frutto giallo, fa da quinta alla parte destra del capo. La pala è dietro di lei, accostata al piano di appoggio antistante la bocca del forno. Una cullura di pane è poggiata a fianco della pala. Il fazzoletto è sempre legato dietro la nuca ma i capi le scendono sul petto da una parte. Ha gli occhi grandi e sgranati. Una sorta di consumata malinconia traspare dalla bocca chiusa in un sorriso mancato” (p. 46).

Un teatro di vita in cui fermentano la esemplarità del documento storico, l’interesse antropologico, la vivezza del dato memoriale, la profondità ancestrale del sentimento del vivere e del durare, il profumo dolcemente penetrante del pane, la sobria ricchezza della cultura contadina.

    

Come qua e là si è avuto modo di anticipare e notificare con riferimenti e prelievi testuali itineranti, variegatissimi e pregevoli risultano gli aspetti e le risorse del testo. L’autore, sontuosamente maturato da forti e ricche esperienze di vita, di professioni, di studi, di lettura e di scrittura, padroneggia con grande sicurezza gli strumenti linguistici, varia e catalizza  i registri, trova soluzioni espressive e comunicative funzionali, mette a frutto, personalizzandoli, modelli ed imprinting, sviluppa con autonomia ed originalità le fasi descrittive, narrative, documentaristiche e critiche. La ricerca e la sintesi linguistica non è mai fine a se stessa, ma funzionale a caratterizzare con piglio e maestria situazioni, ambienti, personaggi: “Nel generale fluire delle pozioni e nel variegato funzionamento mascellare, porgeva la chitarra a Ciccio… (p. 63);

“Daaammi Cccccà Carmeeeelèddu “aveva sibilato il Palazzitanu “Ca, si no eeeerunu cadùtu, li Creuzzi non si l’èeeerunu passata liscia!” (p. 75). “Sollevava i covoni e li ficcava con forza nella bocca della macchina che emetteva sordi muggiti per il carico eccessivo. Poi, a triturazione compiuta, la trebbiatrice emetteva un rumore secco, come di una scorreggia che liberasse lo stomaco saturato e rigonfio di gas della digestione” (p. 80). “Che florilegio ragazzi: le coordinate culturali del bestemmiatore erano bibliche (il serpente), romanze e carolinge (“magonzese “ era chiaro anche se refusico riferimento al traditore di Roncisvalle), coraniche a arabiche (canimortu e saracinu), veterinarie (parassita) e vagamente regionalistiche (bucaiolo e figghiu di r…); scannacrapi e nghiuttimuschi  erano invece espressioni ascrivibili al colorito lessico dell’ethnos indigeno” (p. 81).

Puntuali, espressive, storicizzanti le descrizioni: “Quando ne aveva in mano un mazzo non sapeva resistere al desiderio di manipolazione: le dimezzava, le piegava sul dorso facendo pressione con gli indici  e i pollici delle mani e poi accostava gli spigoli delle due metà. Le carte emettevano una musica sfricoleggiante e si incastravano l’una nell’altra sotto lo sguardo ammirato degli astanti” (p. 87).

“Anna che di calcolo infinitesimale si intendeva proponeva scherzosamente di rappresentare sul piano cartesiano quel gesto del padre con una curva asintotica perfetta: il minimo rivolto alla linea delle ordinarie sulla  quale era rappresentata  la distanza del cassamortaro dal grattante, e i massimi sull’ascissa a significare l’intensità iniziale della grattata, la sua decrescenza all’avvicinarsi del monattone e l’impennarsi successivo al suo allontanamento. Una accelerazione apotropaica direttamente proporzionale al quadrato della distanza media tra pindacciato e  pindacciante (p. 106).

“Ogni tanto erano loro i morti, che uscivano dalle tombe di notte e scendevano fino ad essa per scrutare le stradine irregolari del paese vecchio nonché le case, abbarbicate sul pendio da secoli e ormai in procinto di ruinare. Cercavano, con i loro occhi un po’ offuscati, parenti e discendenti che, anche nel vestire oltre che nei pensieri erano diventati per loro irriconoscibili (p. 107).

“Si vestivano di nero, quelle donne: sognavano i figli morti nella freschezza dei loro vent’anni oppure, laceri e feriti nei deserti di fango, mentre chiedevano l’elemosina di un bicchiere d’acqua o d’un tozzo di pane; e ripetevano fino alla follia che avrebbero preferito elemosinare loro, di casa in casa, e prendere “ogni porta una maschiata”, cioè un ceffone, pur di poter liberare gli sventurati figli del malodestino che avevano passato. Le più fragili trasformavano il loro desiderio in allucinazione. Ritrovavano il figlio morto in qualsiasi giovane, parente o amico, che ne ricalcava qualche vaga rassomiglianza o, altre volte, si inventavano un’ombra con cui dialogare, di nascosto dagli altri e talvolta in loro presenza (p. 109).

“Si diceva in giro che Cecio Sibilla fosse un gran mediatore , che sapesse come sbrogliare le situazioni difficili che erano maturate nei vari locali dell’associazione, che gli toccasse spesso fare per gli affiliati lo speaker delle enigmatiche e nondimeno chiare decisioni che il crimine ristretto prendeva in ordine alle vicende più controverse che si trovava a dipanare. Insomma era famoso per la favella sciolta, per il parlare allusivo e metaforico, per la gestualità contenuta che accompagnava le sue perorazioni, per il modo in cui sussumeva ogni caso concreto che gli veniva sottoposto dai capintesa a una delle regole sociali del codice che lui e tutti gli affiliati tenevano serbato nel loro cuore senza bisogno di farlo stampare dalla casa editrice Giuffrè. (p. 123).

“Quando faceva l’amore Brizzida aveva cura di non porsi mai  nella “posizione del frate”, da cui difficilmente avrebbe potuto sfuggire alle puntate ingravidanti del marito; preferiva il more ferarum dal quale era più facile sottrarsi  quando sentiva il tremolio orgasmico del partner che preannunciava l’imminente eruzione spermatica. E si sfilava, lasciandolo a mugolare e a disperdere il ben di Dio nelle fogge che più gli aggradavano, purché la dispersione avvenisse lontano un palmo dal pericolo di reiterazione della filiazione. (p. 125)”.

E come degna, magnifica conclusione, la descrizione capillare e vibrante del “sonu” (pp. 127 – 131). Parlata compiuta e melliflua che incantava e magnetizzava l’uditorio (p. 97)

Periodare secco, franto dalla punteggiatura principale e frastagliato, attaccato alle cose e ai  sentimenti, paratassi che tenta e sviluppa una propria sintassi perspicua ed espressiva, significativa e rivelatrice di ambienti e caratteri. Un calcolato fiume in piena con le sue distese, gorgoglii, misure, rapide, correnti, sonorità, colori, capacità di abbeverare, nutrire, rinfrescare, pulire. Parole che comunicano e trascinano, tradunt e tradiscono storie di parole, contributi alla storia di luoghi, persone, problemi, contraddizioni, vie d’uscita e di fuga, funzioni di compensazione. Nella ricchissima grana espositiva ed espressiva si rimescola  ed affina un crogiuolo, un risolto cimento di ricerca, messa a punto, calibratura di tipo semantico e lessicale che trova nella ricorrenza di forme, espressioni, evidenziazioni, cuciture sentimentali affidate alle matrici calabresi elementi spiccati di personalizzazione e storicizzazione. Nel tourbillon espressivo e denotativo prende rilievo talvolta la immaginifica ricerca lessicale, l’utilizzo di prestiti linguistici di varia provenienza  disciplinare e settoriale, la combinazione di linguaggi in funzione  della caratterizzazione  di personaggi e situazioni. Valgano come esempi e richiami curiosi e puntuali una serie di citazioni a pioggia: incroscavano tra di loro (9), brocciatella (10), rigghioccolo di abitazioni (18), guallera (26), rotuliato (29), coglioneggiature (30), covoni di grano ‘ntimognati  intorno all’aia per la trebbiatura (33), un fantali azzurro, un casciuni di appoggio, colletto sostituito dalla pistagnina, la praca è di lato, una cullura di pane è poggiata a fianco della pala (46), sciacquabertuli (58), le forche caudine delle mogli che prima ‘llunchiavanu i ndranguli al messaggero e poi senechiavano fino all’esasperazione i mariti per la convocazione ricevuta (59); era stato il suo andreionne, chiuso a riccio senza dare alcun segno di vita, a mandare all’aria il sinallagma (77); bastasi 882); buttaneggiare (83); ampelodesma (83); “Si!” cachinnava qualcuno di mente poco plotinica dopo il naufragio del regime “E ora pàssanu d’a còppula d’u cazzu!” (117).

Un bellissimo libro, da leggere con piacere, da scandagliare nelle sue verità e  nei suoi misteri, da rimuginare e digerire  per una buona salute  culturale e civile.

Gianni…Piu

Maggio 2019

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