di Gabriele Ottaviani
Mentre scriveva, aveva la strana sensazione che un gelido rossore le avvampasse le guance.
Dopo lo spettacolo, Hirano Keiichirō, Lindau, traduzione di Laura Testaverde. Essere soli non piace a nessuno, benché ogni tanto non si faccia mistero di voler ricercare un po’ di lontananza dal resto del mondo. Passare però qualche istante in compagnia di sé medesimi non significa affatto essere soli: la solitudine è quella condizione che non si sceglie, che rende infelici e fa bramare di incontrare qualcun altro, chissà dove, chissà quando, come, perché, chi, che ci faccia sentire diversi. Completi. Accolti. Avvolti. Amati. Accettati. Migliori. E quando si ha la consapevolezza che quella persona capace di significare tutto questo e altro ancora per noi, sperando di poter essere noi stessi a svolgere per lei la stessa funzione, esiste, è difficile farne a meno. La vita non può, e forse è anche davvero giusto così, proseguire come prima. L’esistenza di ognuno, però, è piena di lacci e lacciuoli, matasse che non è facile sbrogliare, e in questo romanzo dal titolo al tempo stesso concreto, perché i protagonisti, un chitarrista e una giornalista, scoprono di avere un’intesa inconsueta, e allegorico, perché il dolore si percepisce quando la festa è passata, senza un grammo di retorica si indaga con maestria impareggiabile e rara delicatezza la trama finissima dei sentimenti. Splendido sin dalla copertina.