di Gabriele Ottaviani
La voce di Youssef fendette l’aria. «Sai, ti ho visto.» Mi stupii, la mente ancora rallentata dal caldo. Non mi aspettavo che iniziasse così presto. «Mi hai visto?» ripetei, socchiudendo gli occhi per guardarlo. Si affacciò da dietro la tela, con una strana luce negli occhi. «Sì. Ti ho visto, l’altro giorno. Accanto alle tombe.» Mi bloccai. Le mani mi si torsero in grembo, ma le costrinsi a stare ferme. «Con la mia amica, intendi?» replicai, continuando a rispondere con un mormorio assonnato, benché ormai fossi completamente sveglia. «Sì, l’ho portata su al Café Hafa. Ho pensato che le sarebbe piaciuto il panorama.» «Sì.» Annuì. «Ho visto anche quello.» Ah! Eccola, finalmente, la verità: mi aveva pedinato, come un eroico detective in un film di terz’ordine. A quanto pareva, avevo sottovalutato Youssef.
Una sconosciuta a Tangeri, Christine Mangan, Piemme, traduzione di Laura Bussotti. È il millenovecentocinquantasei, quando Tangeri, rutilante, profumata, chiassosa, garrula e affollata, è un tripudio di luci. Lì vive col marito John Alice, un’americana in Marocco che conduce un’esistenza assai ritirata almeno fin quando non si palesa dal nulla la sua vecchia e frizzante compagna di college Lucy che la scuote dalla sua fragilità e la mette dinnanzi con schiettezza alle sue frustrazioni. All’infelicità, per esempio, del suo matrimonio con John. Che d’un tratto viene trovato morto. E… Sensuale, sfavillante, travolgente, mozzafiato. Splendido sin dalla copertina.