Libri

“267, Elizabeth Street Nuova York”

51pnKyq5vYL._AC_US218_.jpgdi Giuseppe Mario Tripodi

Saverio Orlando, 267, Elizabeth Street Nuova York, Città del Sole edizioni, Reggio Calabria 2019.

267, Elizabeth Street Nuova York, di Saverio Orlando (Città del Sole edizioni, Reggio Calabria 2019) è un testo a metà tra storia e letteratura: «saga familiare narrata con i toni dei lunghi racconti accanto al braciere: quando i vecchi, aggiungendo particolari ai ricordi ricostruivano, insieme alle vicende dei singoli, la trama dell’intera comunità» ( Maria Franco, “Zoomsud”, 8 febbraio 2019).

La comunità di riferimento è quella di Melito Porto Salvo, una cittadina con poco più di due secoli di vita e circa diecimila abitanti (una buona sintesi di storia melitese è in  Agazio Trombetta, MEMORIA E RICERCA, Melito di Porto Salvo tra Ottocento e Secondo dopoguerra, Reggio Calabria 2008); ma l’impianto urbano odierno, digradato dai primi insediamenti collinari di fine Seicento fino a raggiungere la ferrovia, risale al periodo fascista quando venne costruito il Viale delle Rimembranze con le scuole elementari, l’ufficio delle imposte, la pretura e la sede del comune (una bellissima balconata in ferro battuto che si affacciava su un mare di agrumeti sacrificati nei decenni scorsi sull’altare dello sviluppo edilizio) e il Viale Garibaldi che dai piedi della collina raggiungeva la stazione ferroviaria.

Partendo dalle vicende ottocentesche della sua famiglia, e parlando di esse, Saverio Orlando  ripercorre i tre quinti di questa vicenda bisecolare ove, tra emigrazione e Grande Guerra, tra fascismo e II guerra mondiale, si finisce per dare alla città e ai suoi abitanti una storia comune di cui si sentiva veramente la mancanza.

Melito infatti, che ha primeggiato almeno dall’unità di Italia in poi sui comuni dell’entroterra e su quelli limitrofi attraendone ed assorbendone discrete ricchezze economiche e un vitale turn-over antropologico, ha avuto, fatte salve le dovute eccezioni, classi politiche mediocri. D’altra parte,  le classi medie intellettuali sono state da sempre preoccupate del loro ristretto ‘particulare’ familiare e poco accorte alla cultura della città e, in genere, agli studi storici.

Ma ciò, se si è concretizzato in un limite dell’auto-rappresentazione urbana, ha preservato i melitesi da quell’ipertrofia della propria storia cui si sono acriticamente dedicati molti intellettuali originari dei paesi limitrofi, di quelli cosiddetti ‘grecanici’ in primis.

Quindi il libro di Saverio Orlando si concretizza in un precipitato storico-letterario che sana laicamente questi vizi delle «ideologie» locali facendo risaltare, nelle vicende dei suoi «maggiori», la piccola borghesia melitese che è stata, fino a qualche decennio fa, l’elemento sociale aggregante nel tessuto commerciale, professionale e persino urbanistico della città.

E un melitese sessantenne riesce, magari consultandosi con la moglie e/o il vicino di casa, a scoprire chi era Rocco,  compagno di Bobby nelle attività commerciali liminari svolte a Napoli a ridosso della fine delle ostilità, o «la Marchesa» che ospitava i commercianti di Melito nel capoluogo campano lucrando qualche utilità indispensabile alla sua sopravvivenza in quei tempi molto grami, oppure il giovane antifascista, poi medico-sciamano della comunità, che in piena crisi etiopica chiedeva a Sciavé-Sammy il caffè originale che non riusciva a procurarsi per via delle sanzioni; o, ancora, il camionista che trasportava merci nella Valle del Tuccio e che fu poi meccanico molto richiesto con officina affacciata sul Corso Garibaldi.

Su tutte le comparse del racconto svetta Saverio ‘Sammy’ Orlando, nonno dell’autore, che fu protagonista di un’ascesa sociale i cui capitali di avvio provenivano dalla ripetuta emigrazione transoceanica di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, la cui accumulazione era costata lavori pesanti che toglievano le stringhe dalle spalle.

Ed anche Andrea Orlando detto «Bobby», figlio e padre dei due ‘Saverio Orlando’ che sono l’alfa e l’omega del libro (alla cui narrazione si rimanda il lettore per scoprire l’esilarante origine del soprannome), è a suo modo il rappresentante, con le sue inquietudini erotiche e lavorative, di una classe media imprenditoriale che a  Melito era rilevante fino a qualche decennio fa e che ora è estinta per l’egemonia di imprenditori mafiosi e paramafiosi che sono orientati esclusivamente al saccheggio delle risorse e giammai allo sviluppo economico di lungo periodo.

C’era in Bobby una grande disinvoltura nel passare da un’attività ad un’altra (impiegato comunale a Reggio,  raccoglitore di mandorle e di olive, commerciante intrallazzista, motocarrista, tassista abusivo, fabbricatore di gassose e infine esercente attività di Bar e ristorazione, oltre ad altri e più precari mestieri per i quali si rimanda al testo) e, soprattutto, l’intuizione microscopicamente neocapitalistica che per iniziare un’attività economica è indispensabile ricorrere al credito bancario (le famose cambiali) quando non si hanno risorse da accumulazione familiare.

Molto apprezzabile lo stile: la lingua è un italiano essenziale, scientifico e algebrico verrebbe da dire in considerazione del fatto che l’autore è stato ingegnere di lungo corso presso una grande azienda di telecomunicazioni, in cui i fatti vengono raccontati nella loro ‘nudità’ senza abuso di aggettivi e metafore e senza scadere nella retorica che è vizio ultrasecolare universalmente diffuso nella cultura meridionale.

Anche gli inserti dialettali, usati spesso nei dialoghi per aumentarne l’efficacia comunicativa, ricalcano modi di dire tipici della popolazione melitese.

Il libro, infine, è esente da quella deriva ‘ndranghetologica’ che caratterizza da lunghi decenni la letteratura calabrese. Non esiste romanzo o racconto di autore calabro, specie meridionale, che non faccia riferimento esplicito alla presenza della ndrangheta e alle sue prevaricazioni sociali.

La presenza della mafia nella società calabrese è un cardo amaro ma giornalisti e scrittori lo rendono ancora più amaro.

Tutti scrivono di ‘ndrangheta sperando che il solo discorso aiuti a diventare autori di best seller, privilegiati partecipi ad una sorta di brand narrativo che garantisce il successo e l’accesso all’olimpo delle patrie lettere.

Nel libro non ci sono richiami o preponderanze tematiche legate alla criminalità organizzata: pochi i riferimenti  e, se ne venissero espunti, nessun lettore sentirebbe la mancanza; un testo quindi che, non sappiamo quanto consapevolmente, prescinde dal senso comune culturale e letterario fondato di una egemonia mafiosa sulla società calabrese.

Questa sovraestimazione del peso specifico mafioso può andar bene per una relazione di polizia, per la sentenza di tribunale, per il comizio di un politico che non ha null’altro da dire ai suoi elettori: ma per la letteratura e la storia ci vuole ben altro.

Saverio Orlando ha scritto un libro originale ed anticonformista, onesto nelle intenzioni e meditato nel ductus narrativo, leggibile e godibile in ogni pagina; non so se sarà o meno un modello per altri narratori di Calabria ma io, per quello che ciò vale, lo colloco tra i miei preferiti e lo consiglio a ogni melitese che voglia conoscere la storia della sua città, a ogni calabrese amante della propria terra e del proprio lavoro, ai bibliofili di qualsiasi latitudine.

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