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“La più bella estate”

41y1Dh5jnyL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Sebbene il podestà fosse più maturo, essi avevano abito, la cravatta stretta ad annodarsi attorno al collo con la medesima forza, le scarpe lucide e le calze nere che spuntavano quando, accavallando le gambe, i calzoni si ritraevano dalle caviglie. Entrambi romagnoli, erano pur diversissimi. Leandro pareva un contadino, con le sopracciglia ad appena due dita dall’attaccatura dei capelli, folti, nerissimi, la faccia rotonda, le labbra carnose, lo sguardo giocoso. Leo, invece, aveva un viso ovale, aristocratico, gli occhi impenetrabili, freddi, la fronte altissima, la brillantina in testa e la riga sulla sinistra. Vivace, sanguigno, il primo, terribilmente simpatico ma calcolatore il secondo. I due discutevano sul detto escogitato dal Longanesi, e mentre l’Arpinati definiva con rabbia “antifascisti a cui dovrebbe essere inflitta la perdita della cittadinanza” coloro i quali trovavano dell’ironia in quel “sempre ragione”, il ragazzo non tentava neppure di difendersi dall’accusa di canzonare Mussolini e ancor più beffardo diceva al podestà di tacere, che il nemico era in ascolto. I due non mi chiesero neppure un parere sulla questione, tanto erano occupati in quella burla. Credo che l’Arpinati non volesse farlo perché, nonostante non mettesse in dubbio la mia fedeltà al Re, preferisse soprassedere su quella al fascio bolognese, per non guastare un’amicizia che egli reputava assai importante. Il Longanesi, dal canto suo, aveva ben intuito la cosa e non osava interrogarmi in proposito per non mettere in condizione di imbarazzo un intellettuale e funzionario dello Stato, che avrebbe potuto infilargli ben più di un bastone fra le ruote e pregiudicare la sua carriera in così veloce ascesa. Fatto si è che il podestà, impegnato a discutere con l’amico, scordò pure la vera ragione per la quale ero stato convocato a quel singolare incontro serale. Così me ne restai in silenzio, osservandoli, ed esaminandone la perfetta eleganza, l’equilibrio dei colori, il capriccio della pochette, che li faceva sembrar fratelli di sangue, ancora prima che di lettere e di fascio, nonostante la differenza d’età, la forma dei visi e la stazza così diverse.

La più bella estate, Marco Albergati, Augh! Non c’è dolore più grande e sbigottimento più sconvolgente per chi pensa di sapere qualcosa, di avere tutto sotto controllo, di poter vivere di certezze serenamente e placidamente della scoperta inattesa e improvvisa, della necessità della presa di coscienza che il proprio mondo non può essere quello che si immaginava, perché la propria natura è altra da quanto sempre ritenuto. Si può fuggire da tutto e da tutti, ma non da sé, e non per tutta l’esistenza, e così quel regime che ha già promulgato le leggi fascistissime diventa novantuno anni fa per un quieto bibliotecario bolognese diversamente giovane che riceve un manoscritto attribuito a un eroe della patria da un collega partenopeo, e a cui un incontro stravolgerà la vita, precipitandola in un’ossessione amorosa omosessuale raccontata con un linguaggio aulico, simbolico e suadente, assolutamente intollerabile. Docente universitario nato nel millenovecentosettantatré che vive e lavora nella città felsinea, Albergati con questo suo primo romanzo ben scritto, ben caratterizzato in ogni dettaglio e ben confezionato, segnalato nel duemilaquindici al Premio Calvino, indaga l’anima e non solo: da leggere.

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