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“A bordo ring”

51EJl6KEKoL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Impartiva le sue indicazioni in puro dialetto milanese, Ottavio Tazzi, e quelle parole saturavano l’aria che si respirava nella Doria ancor più del tanfo prodotto dal miscuglio di sudore, gomma e olio canforato. Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti, perché Tazzi – come ricorda il giornalista Dario Torromeo nel suo Non fare il furbo, combatti – di Milano era un figlio purissimo, nato nel 1928 in via Lulli, a poche centinaia di metri da piazzale Loreto, ottavo di nove fratelli. Sposato con Franca, padre di Alvaro, Remo e Danila, era lui il riferimento tecnico della palestra. Non solo. Ne era l’anima e il cuore, il faro e il baricentro emotivo, oltre che pugilistico. Autorevole, quindi, mai autoritario, come riesce istintivamente solo ai più grandi maestri, che sanno battere con forza il ferro per piegarlo ai propri voleri, ma sono anche sorprendentemente capaci a forgiarlo quasi circuendolo, blandendolo, penetrandone la più intima natura. Sapeva essere perciò mite, paziente, ma anche duro, “il Nonno”. Sì, “il Nonno”, così lo chiamavano tutti. Perché Tazzi per i suoi pugili era più di un allenatore, ancor di più di un maestro di boxe, pur sopraffino. Era – e lo ancora oggi nel ricordo, lui che è scomparso l’11 settembre 2013, a 84 anni – un vero e proprio maestro di vita, una guida sicura non solo sul ring, ma anche e soprattutto fuori da quel quadrato magico. Maestro, certo, o meglio El Maeester, in milanese, come pure era chiamato, di quelli che t’insegnano a stare in guardia, non solo dal tuo avversario, ma dalla vita, a proteggere il mento e il cuore, a rialzarti dopo i ko più duri, quelli il cui conteggio sembra infinito, e che lasciano cicatrici difficili da nascondere in fondo all’anima. Li andava a pescare agli angoli delle strade, nei quartieri, nelle vie più oscure di una Milano che oggi faresti quasi fatica a riconoscere, appena percepibile sotto i fiumi di aperitivi e coca dei rampanti anni Ottanta, la crisi devastante della fine del primo decennio del Duemila, i ghirigori degli atelier di moda e della grande scuola del design, che pure oggi sono il cuore di una metropoli per alcuni aspetti meno ridondante, più aperta all’Europa, più a misura d’uomo, anche se rimangono in gran parte irrisolte molte delle sue contraddizioni. Manco fosse un profeta della boxe, “il Nonno”, capace di affabulare questi ragazzi con la sua voce roca e il suo sguardo, come un pescatore di pugilistiche anime. Perché un pugile, prima che dalle mani, dalle braccia o dalle gambe, lo riconosci dagli occhi, dallo sguardo. E lì in fondo arrivava Tazzi, con due occhi placidi e piccoli, trasparenti, che sembravano due spilli di cristallo. Ti ammaliava così, e ti faceva quindi convergere verso il centro del suo mondo, o meglio del suo universo, cioè la palestra Doria. Sarà stato per il nome del fondatore (Spartaco, appunto…), ma nella Doria davvero nulla era concesso al lusso, all’esibizione, all’inessenziale. Sembravano star su a forza di sudore, impegno e sacrificio, quelle pareti il cui ingresso era in fondo a un cortile circondato da palazzi, proprio alla fine di quella piccola discesa. Quasi neanche la vedevi, l’entrata della palestra, che era a fianco di un meccanico, ai piedi di un palazzo che era già stato sede del Partito comunista e della sezione milanese dell’Associazione nazionale Partigiani, mentre poi – ironia della storia e della politica – proprio la Doria sarà da più parti indicata come uno dei punti di convergenza della nuova Destra meneghina. Ma meglio lasciarla fuori dal ring, la politica, che qui si sudava e basta, e di fiato per far qualcos’altro che faticare davvero ce n’era sempre poco, troppo poco.

A bordo ring – Ganci, montanti e storie di vita raccontati dall’angolo, Mario Bambini, Dario Ricci, Infinito. Prefazione di Vittorio Lai, introduzione di Maurizio Stecca, note personali a margine di Massimo Scioti. Creed, Southpaw, Rocky, Million dollar baby, The fighter, Bleed, Snatch, Cinderella man, Il grande match, Carnera, Alì, Toro scatenato, Hurricane, Annapolis, Girlfight, Quando eravamo re, The champ (il film oggettivamente più commovente della storia dei film commoventi, senza se e senza ma), Tyson, Il colosso d’argilla, Lassù qualcuno mi ama, I gladiatori della strada, Città amara, Il grande campione, Il campione e la miss, Stasera ho vinto anch’io, Il sentiero della gloria e chi più ne ha più ne metta: non c’è sport più cinematografico – ma anche letterario: si pensi, solo per fare uno dei miliardi di esempi possibili, agli splendidi scritti (auto)biografici di Pironti – del pugilato. Il ring, del resto, come anche il tribunale e in generale ogni luogo in cui, laico o religioso che sia, si esplica un rito attraverso le sue regole (ricordate il bel film L’hermine, con l’immenso Fabrice Luchini nel ruolo d’un integerrimo giudice che non a caso si chiamava Racine, come uno dei grandissimi del teatro d’ogni tempo?), è un naturale palcoscenico per i fragilissimi destini umani, per sogni, speranze e aneliti di riscatto, è un luogo e insieme un non-luogo. E se lì dispiega le sue ali di farfalla la vita, accanto, sotto, all’angolo, c’è chi trepida, osserva e racconta: come Mario Bambini, maestro che ha respirato la passione per la nobile e allegorica arte che si svolge tra le dodici corde sin dai suoi primi vagiti. La sua storia è bellissima, ben raccontata, da leggere.

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