di Gabriele Ottaviani
La vita aveva l’abitudine di sperperare quanto aveva di meglio.
Il termine della notte, John D. MacDonald, Mattioli 1885, traduzione di Nicola Manuppelli. Tutte le grandi opere di narrativa, e questa, pubblicata per la prima volta cinquantotto anni fa, all’inizio del decennio che, non senza eccessi, storture, violenze e aberrazioni, avrebbe portato all’attenzione dell’opinione pubblica le istanze di una generazione e di un settore della società che si erano sempre sentiti emarginati e trascurati, lo è senza ombra di dubbio, hanno in comune una caratteristica fondamentale, che si può sintetizzare nella definizione di universalità. Soprattutto per quel che concerne il tempo: ovverosia non solo sono sempre attuali, ma sono anche, per non dire, meglio, soprattutto, capaci di preconizzare quel che accadrà, di cogliere, per il tramite di un’attenta osservazione, i segnali, i sintomi. E non mancano certo i prodromi, nel mondo patriarcale e anacronistico che qui viene raccontato, della turbinosa, evocativa e simbolica – specie di quel che rappresenta la gioventù – violenza che esplode nel corso di queste solenni e maestose pagine, e che MacDonald narra con vibranti e imperdibili accenti lirici.