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“Shadowbahn”

41UkivItH+L._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La città che incontrano all’alba è così piccola che la attraversano da un capo all’altro in meno di due minuti. Sotto un cielo sempre più grigio, Parker si ferma a fare il pieno a quello che per quanto ne sa potrebbe essere l’ultimo distributore prima di un’altra notte di deserto. Zema fa una capatina al bagno. Lo so che vogliono tutti la pioggia, riflette lui osservando il cielo con ansia mentre fa benzina, ma magari non subito. Magari quando ce ne siamo andati da questo posto, ovunque sia. «Dove ci troviamo?» chiede infilando venti dollari sotto lo schermo di plexiglas alla cassa. Territorio della Frattura o no, Parker ha imparato che nessuno si fa scrupoli ad accettare dollari americani invece di qualsiasi cosa passi per valuta della Disunione. Al di là del vetro c’è un uomo filiforme che ha pochi anni più di Parker, alto quasi due metri e non più largo di quaranta centimetri. La montatura degli occhiali è troppo grossa per la testa, che sfiora quasi il soffitto. «Muleshoe» risponde. L’altezza lo fa sembrare intrappolato, i capelli rossi un fiammifero acceso.

Shadowbahn, Steve Erickson, Il saggiatore, traduzione di Michele Piumini. L’America è un paese contraddittorio, grande, potente e insieme fragile, che fa dell’affermazione stentorea, continua e ridondante, nonché della vera e propria ostentazione della sua identità, un garrulo vessillo; ma al tempo stesso è una nazione allo sbando, smarrita, in crisi, senza più sicurezze né punti di riferimento, lacerata da mille contrasti e conflitti, ferita da mille dolori: e la tragedia delle Torri Gemelle è certamente uno dei più importanti. Aaron è un camionista, vive sulla strada, emblema del paese dei pionieri, dell’America profonda, che non è certo quella delle metropoli: è lui il primo ad accorgersi dell’inimmaginabile prodigio. Sono rispuntate. Intatte. Di vetro e cemento. Apparentemente deserte. Non a Manhattan, dove i due grattacieli si trovavano di diritto e dove a tradimento sono stati abbattuti dalla violenza, dal terrorismo, dall’odio, ma dietro a una curva della Highway 44, in pieno South Dakota, il paese del monte Rushmore e delle colline nere. In un attimo si raduna una folla. E ognuno sente emanarsi da quei giganteschi menhir postmoderni una musica. Diversa. Sono fantasmi in cui si annidano spettri, ossessioni, paure, domande irrisolte… Ci si muove nella scrittura di Erickson come in un paradosso di Escher, tra stupore, sgomento e meraviglia. Da leggere.

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