di Gabriele Ottaviani
Ilaria Palomba è l’autrice dell’intenso, potentissimo e struggente Disturbi di luminosità: Convenzionali ha il piacere di intervistarla.
Da dove nasce Disturbi di luminosità?
È un libro parzialmente autobiografico, la prima parte totalmente autobiografica, la seconda è una costruzione immaginifica. In coda c’è un racconto su Basaglia di Anna Corsini. C’è molto Basaglia in Disturbi, a un livello astratto, di pensiero. Molto Nietzsche, molto Bataille, molto Deleuze e un po’ di Foucault. Non è un romanzo, forse si potrebbe definire antiromanzo. L’unico modo che avevo per parlare della mia esperienza di abuso e conseguente squilibrio psicofisico era farne poesia.
Come si guarisce dal male di vivere?
Non si guarisce. Si impara ad accettare un sentire troppo intenso. Può servire, talvolta, abbandonare ogni cosa e riflettere. Non tutti possono permetterselo ma sarebbe in realtà necessario. Quando non puoi separarti dal fluire caotico degli eventi e percepisci un disagio, allora sei in una sorta di gabbia, tutto diventa una gabbia, il mondo, l’altro, il corpo. Personalmente posso dire che la letteratura e la filosofia sono sempre state degli ottimi viatici nei momenti di buio.
Che influenza hanno sulla vita e sull’arte temi come la nascita, la morte, la paura, il dolore?
Sono i grandi temi affrontati dai più grandi autori, si pensi a Goethe, Dostoevskij, Thomas Mann, Camus, Virginia Woolf, Carver. Anche l’arte contemporanea non fa che riflettere costantemente su questi temi. Mi vengono in mentre Chris Burden, Franko B, Gina Pane, l’immancabile Abramovic. Anche se adesso l’arte sembra essere più vicina alla scienza che alla letteratura, c’è un’attenzione morbosa per il funzionamento interno dei corpi intesi come meccanismi, noto un accostarsi dell’arte all’informatica, alle neuroscienze e alla fisica dei quanti. Io mi ritengo una voce ancora legata al Novecento, quando scrivo mi ritrovo a ragionare sulle origini del dolore, sull’estremo dell’amore, sulla pulsione di morte. Sono i miei temi, sono ossessionata dalla fine delle cose. La fine, l’abbandono, la morte, sono proprio le cose che più temo quelle da cui parto per tracciare una storia.
La protagonista è in fuga: prima di tutto da sé medesima, ma non solo. Da cosa scappa la nostra società secondo lei, quale responsabilità non ha voglia di affrontare?
Tutti siamo in fuga dall’assenza di futuro. La protagonista si è per certi versi arresa. Si percepisce come preda e diventa a sua volta predatore. È una catena mortale, e lei lo sa. Sa di appartenere a un girone dell’inferno in terra. Credo che stiamo affrontando dei cambiamenti molto rapidi in ogni ambito della vita, l’uomo è troppo piccolo rispetto alla velocità che ha creato. L’uomo vuole farsi Dio ma non riuscirà mai davvero nell’intento. Non è riuscito neanche a diventare un ponte perché non vuole tramontare. Ogni epoca ha avuto i suoi scarti. Io racconto quegli scarti. Di chi ce la fa non m’importa nulla.
Lei ha lavorato in un centro diurno di psichiatria come operatrice letteraria: che esperienza è stata?
Stiamo giusto per pubblicare il libro nato dal mio laboratorio: Quattro passi nella storia – Gli amanti di Madama Lucrezia. Si è trattato di scrittura collettiva. Un modo per giocare da adulti. È stata un’esperienza di creazione pura. Il libro parla di Roma, statue parlanti, amicizia, amore e arte. Una ragazza storica dell’arte ha curato la sezione monumentale e poi tutti insieme abbiamo inventato le piccole storie dei personaggi. Non vedo l’ora sia edito! Ci sono voluti tre anni di laboratorio e ora finalmente abbiamo il nostro libro!
Che messaggio vuole trasmettere ai suoi lettori con questo libro?
Disturbi di luminosità è un urlo. Voglio poter essere ascoltata. Voglio che si guardi al disagio con meno disprezzo.
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