di Gabriele Ottaviani
Matilde infatti era abituata a non pretendere una virgola di meno che i miracoli. Se qualcuno le avesse fatto notare che per andare da A a B bisogna camminare verso A, si sarebbe offesa. Concepiva l’amore come una faccenda in cui si viene innalzati all’empireo da un essere straordinario simile a Gesù, dopodiché si fa una famiglia e si muore vecchissimi. Di fatto Gesù era il suo eroe, sebbene facesse la comunione solo un paio di volte l’anno quando tornava al paesello per le feste. Secondo la tradizione di tanta mistica cattolica, tendeva a sovrapporre vita erotica e vita spirituale, e il risultato della sovrapposizione lo chiamava “sentimenti”. Con l’aggiunta di una dose di rancore per doversi procacciare da sola ciò che avrebbe voluto le fosse servito da un dio o altro equivalente, aveva finito per credere, sulla soglia dei vent’anni, che solo il letterale Cristo risorto era degno di fare sesso con lei. Era questo il motivo per cui, quando si metteva con uno, lo trattava come un dio per qualche mese, dopodiché, immancabilmente, arrivava la disillusione; e allora rendeva un inferno la vita del falso messia, e la propria. Fabio si accorse che stava accadendo qualcosa di brutto quando ormai erano già immersi fino al collo nella pece bollente. La prima incrinatura fu un problema nel sesso. Fin dall’inizio il sesso era stato fuori dall’orbita stretta del loro rapporto. Potevano stare una giornata a letto, a guardarsi negli occhi, a parlare moltissimo, in un’esaltante gara a dire ciò che avrebbe detto l’altro, a non arrivare mai al dunque. A Fabio piaceva; per Matilde invece era un martirio: già un uomo che non ti sbatte è insopportabile, ma un dio? Che perversione è? Matilde lasciò cadere in mezzo al discorso un: se non sono abbastanza bella per te me lo puoi dire, non mi offendo mica. Fabio oppose teorie sconnesse: no è che, siccome ho sempre fatto sesso con donne che non amavo, perché a parte una bambina alle medie non ho mai amato nessuno, ho sviluppato nel senso una specie di nevrosi per cui associo il sesso, come dire, è come se per me il sesso fosse una cosa pornografica, cioè, una cosa che si fa solo con le puttane. Eppoi un bel cercare di puntualizzare, smussare. Matilde si voltò verso la parete e disse: è meglio che te ne vai. Dopo un silenzio di una ventina di minuti, Fabio se ne andò.
Cometa, Gregorio Magini, Neo. Sono passati otto anni da quando Gregorio Magini, di Firenze, ha pubblicato con Round Robin La famiglia di pietra. Poi, nel duemilatredici, ha coordinato il progetto SIC ‒ Scrittura Industriale Collettiva (cui ha dato vita in tandem con Vanni Santoni), da cui è nato In territorio nemico, edito da Minimum fax. In seguito ha pubblicato anche racconti e saggi su Minima et moralia, Nazione indiana, Carmilla e sulla rivista Mostro, della quale è stato fondatore. Cometa è una storia profondamente simbolica, allegorica, aliena e alienante, raffinata e insieme cruda, un Bildungsroman modernissimo che racconta in maniera sorprendente le sperequazioni e le storture della nostra società attraverso le vite di due amici, Raffaele, che cresce un po’ qui e un po’ là, ossessionato dalle donne, e Fabio, che invece non esce mai di casa e conosce bene solo una realtà, quella virtuale. Forti della loro autentica e reciproca amicizia cominciata pressoché per puro caso, puntello per entrambi nella vita liquida e precaria e nella realtà spersonalizzante in cui si dibattono come falene presso la luce la gran parte dei giovani d’oggi, che come Alice insieme alla regina corrono forsennatamente non per andare veloci da qualche altra parte bensì per restare almeno nello stesso punto e non precipitare all’indietro, perdere quel poco raggiunto, scivolare nell’abisso senza appigli, progettano un assurdo social network e finiscono al centro di un intrigo internazionale.