Intervista, Libri

Valerio Valentini: esistere e/è resistere

51oaxDeDQQL._AC_US218_di Gabriele Ottaviani

Valerio Valentini ha scritto l’ottimo Gli 80 di Camporammaglia: Convenzionali, con gioia, lo intervista per voi.

Esistere e resistere sono concetti fratelli, e nel romanzo procedono a braccetto: che valore hanno?

Per luoghi come Camporammaglia, dire che l’unico modo per esistere è in fondo ostinarsi a resistere, ma attraverso una ostinazione inconsapevole. Il mantenersi, per certi versi, immutati, sempre uguali a se stessi, è un qualcosa che si fa senza alcuna coscienza effettiva. Semplicemente, si continua a stare al mondo nell’unico modo che sembra possibile: seguendo riti che si assimilano senza che neppure ci sia bisogno di accettarli, o di comprenderli. Se insomma è vero che esiste proprio in quanto resiste, Camporammaglia, è altrettanto evidente che il solo modo che sa, di resistere, è in fondo quello di continuare a esistere, senza avere contezza della propria anomalia.

Qual è il ruolo della memoria?

Dire che la memoria, sia quella personale, sia quella storica, permette di avere coscienza di noi stessi e del nostro rapporto con tutto ciò che è altro da noi. Ricordare di essere qualcosa, di appartenere a qualcosa, è un modo per vivere a pieno la nostra esistenza. Dopodiché, avere buona memoria – intendendo con memoria tutto quel complesso di nozioni che ci permettono di situarci nel mondo in modo consapevole – aiuta anche a essere persone più interessanti, il che non guasta.

Si scrive più per sé, per gli altri o per chi non può farlo?

C’è una bella poesia di Vittorio Sereni in cui, più o meno, si dice che soprattutto si scrive per scrollarsi di dosso un peso e passare al successivo. Ecco, mi pare un modo molto giusto di descrivere l’atto della scrittura, le ragioni che lo motivano e lo giustificano.

Che cosa significa testimoniare?

Evitare che si perda traccia di qualcosa, impegnarsi perché di certi eventi, di certi fenomeni o di certe persone, si conservi memoria. La letteratura, in fondo, direi che serve innanzitutto a questo.

Cosa è cambiato all’Aquila in questi anni dopo il sisma? E cosa è rimasto immutato?

È ovviamente cambiato moltissimo in termini urbanistici e sociali. La città è come esplosa, i suoi confini si dono espansi e sfilacciati, il centro storico – un tempo vivissimo, e abitato in ogni suo angolo – si è svuotato. Ma nel travaso dal centro alle periferie, non tutto si è salvato: molto è andato perduto, o corrotto, mutato in modo pressoché irreversibile. Penso, ad esempio, alle molte attività commerciali che non sono sopravvissute ai continui trasferimenti, penso alle relazioni sociali che si sono indebolite e spesso perdute. È cambiato il modo di percepire la città, sia per quanto riguarda le sue funzioni (non più luogo naturale della vita collettiva, ma punto di ritrovo saltuario, specialmente adatto per le bevute serali) sia per quanto riguarda la sua fisionomia architettonica. Di immutato è rimasto ben poco, com’è giusto che sia. A parte la scritta sullo stemma cittadino: Immota Manet, appunto.

 

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