di Gabriele Ottaviani
Al di là dei meriti che non le si può attribuire, la rete internet è stata sicuramente una rivoluzione tecnologica. Lo stesso non si può dire delle altre sedicenti innovazioni che dovrebbero rottamare la Weltanschauung dei padri. Nella più parte dei casi si tratta di fenomeni la cui unica ed eventuale modernità sta nella livrea esterofila dei nomi: la sharing economy per rilanciare il banco dei pegni e il secondo lavoro; il crowdfounding per ridare smalto alle collette tra amici; il lowcost per dignificare ciò che fino a ieri era cheap; le start-up per magnificare chi investe piccoli capitali in piccole aziende; la web democracy dove si vota come in quella cartacea, ma per truccare i risultati non servono i falò, basta una query. Molti servizi offerti dalle nuove tecnologie in effetti sono comodi e in certi casi utili. Ma da qui a sproloquiare che avrebbero «cambiato il modo di fare impresa», «creato nuovi paradigmi di consumo» e riscritto le regole dell’economia e del lavoro passa il mare. Il comparto digitale si fregia fin dai suoi inizi del titolo rodomontesco di new economy quasi a suggerire che il suo avvento renderebbe obsolete le leggi dell’economia vergate da Adamo Smith con calamaio e candela. Ma dopo l’avvento della produzione industriale, gli obiettivi e i modelli gestionali di un’industria due, cinque o mille punto zero non si discostano granché da quelli delle ferriere o di una multinazionale alimentare. Sull’altro fronte, quello delle microattività dell’economia diffusa e shared, si è ugualmente affermato uno schema classico di sfruttamento industriale dove un provider tendenzialmente monopolista coordina il lavoro e le risorse dei lavoratori collocandoli sul mercato. Anche il vantaggio regolatorio e fiscale di cui sembrano godere queste attività «flessibili» vale soltanto nella misura in cui il loro volume d’affari si mantiene sotto la soglia della marginalità, finché resta cioè tale da non poterci vivere e da non identificare un vero e proprio lavoro, dopodiché incorreranno anch’esse nei lacci e lacciuoli che toccano alle imprese tradizionali.
La crisi narrata – Romanzo dei capitali e crepuscolo della democrazia, Il Pedante, Imprimatur. Abbuffata, baccanale, bagordo, baldoria, bisboccia, crapula, gozzoviglia, orgia, stravizio: sono tutti sinonimi, più o meno prossimi gli uni agli altri, più o meno esatti. Descrivono la situazione della nostra società, assai più dedita allo spreco che alla conservazione. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Sarà anche la crisi indicata nelle lingue d’oriente con lo stesso ideogramma con cui ci si riferisce al lemma opportunità, ma certo è che la situazione è grave. Specie se anziché prendere seri provvedimenti ci si limita, in ambito politico ed economico, a comportarsi come l’orchestra del Titanic, che durante l’affondamento si guardò bene, stando alla leggenda, dal cessare di suonare. Il Pedante è un blogger indipendente, che in queste pagine narra la sperequazione e il depauperamento prima di tutto etico di cui la nostra società è intrisa, inducendo al ragionamento e all’impegno per un cambio di rotta che non dev’essere solo possibile, ma avvertito come una vera e propria necessità.