di Gabriele Ottaviani
Erano ancora bambine, dovevano imparare ad aver paura, dovevano avere i battiti del cuore accelerati dal pericolo, era necessario tremare, costruirsi, e iniziare ad avere un termine di paragone che le cominciasse a strutturare. Quello era un timore modesto, poco rischioso, tutelato, una prova generale per quello che sarebbe accaduto in futuro. Non ne sapevano niente della vita, era meglio esorcizzare fingendo di aver paura, per tutto il resto ci avrebbero pensato un’altra volta, forse alla fine dell’anno scolastico, quando sarebbero state bocciate, ma comunque non quel giorno. Alcune attrazioni erano chiuse, con le serrande abbassate e i grossi lucchetti che tenevano insieme catenacci arrugginiti, c’erano gruppetti di ragazzini, sguaiati ed eccitati, che bighellonavano tra le giostre, lanciavano occhiate che sembravano saette alle cinque ragazze, che stavano al gioco e flirtavano spudoratamente, il gioco della vita si stava delineando, le emozioni si facevano arrendevoli e divenivano seducenti, il sottile accecamento configurando, il gigantesco abbaglio materializzando. Quando raggiunsi, dopo i miei insuccessi come autostoppista, quel Luna Park, trovai quel gruppetto di piccole donne che parlava con tre ragazzi, anche loro abbastanza conformati: erano tutti bassi, probabilmente minorenni, con i capelli rasati e i pantaloni allacciati troppo in basso. Dal di dietro guardavo le mutande bianche, in bella vista ed esibite con orgoglio, si vestivano da rapper come la moda imponeva, avevano fisici rachitici e indossavano grosse scarpe da tennis colorate e con le caviglie scoperte dal risvolto delle loro braghe. S’atteggiavano a uomini, fumavano Marlboro rosse e si nascondevano i brufoli con il correttore color carne, era anche per loro una prova generale, lontana dalla consapevolezza, intima, e radicata nel profondo. Fui guardato di sbieco da tutti e mi sentii inopportuno, tossii nervosamente e li invitai a tirare le palline da ping pong nelle vaschette dei pesciolini. Lo feci per essere integrato, non perché mi piacesse particolarmente.
Il gigantesco abbaglio, Christiano Cerasola, Elmi’s world. Christiano Cerasola non è alla sua prima prova narrativa, e questo appare evidente sin dalle battute iniziali del suo romanzo, costruito con cura esperta, e attraverso il quale l’autore desidera chiaramente proporre al lettore la sua particolare visione del mondo e delle cose. Ovvero che per lui non solo l’essenziale è invisibile agli occhi, ma che nulla è in realtà più ingannevole dell’apparenza, perché la natura di ognuno è mutevole e molteplice. Ogni luce, infatti, è inestricabilmente legata all’ombra, e si può cercare di rimuovere, di reprimere, di tenere a bada talune particolari attitudini del proprio animo, ma gestirle non significa annullarle: esistono, e prima o poi verranno a galla. Luca è un trentenne borghese fin nel midollo, caratterizzato in maniera del tutto classica, quasi canonica: è esattamente quello che ci si aspetta che sia, un ragazzo come tanti, speciale e unico come tutti, in quanto individui singoli, ma non è possibile definirlo un ribelle. Cosa che invece è Sinead, un’artista di talento, che ama le donne e non le convenzioni. Dal loro incontro scaturirà un viaggio, e da questo un necessario percorso di conoscenza… Da leggere.
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