di Gabriele Ottaviani
L’eredità più preziosa del lavoro di mia nonna è la sua macchina da scrivere. Una Remington grande e nera, dai tasti consumati, dove la H è difettosa e la A e la C sono scomparse, perché le dita le hanno completamente cancellate. Mi domando quali parole di quel gergo burocratico scrivesse con più frequenza. Attentamente. Accordo. Atti. A Lei. Alla Sua persona. Prima di tutto. Analogamente. Così sia. Amabilmente. Ringraziando. Precisando. Assicurando. Ammonendo. Giudicando. Rischiando. A chi di dovere. 39 Al centro della macchina si trova una doppia bobina di nastri. Premendo i tasti, le bobine cominciano a girare muovendo il nastro nero che imprime le lettere sulla carta. Sul lato sinistro c’è una manovella che serve per spostare il foglio bianco, mentre sul lato destro c’è un elemento che lo fissa al rullo. Ogni cosa ha un nome tecnico che oggi ho dimenticato, ma che una volta conoscevo grazie a mia nonna. Le sue dita storte dall’artrite e dai molti anni di lavoro ringiovanivano al contatto con la tastiera. Le sue mani sembravano ragni o falene che danzavano sulla sommità di quelle lettere illuminate che per quanto erano dure mi lasciavano le dita indolenzite ogni volta che le usavo. La prima cosa che scrissi con quella macchina fu un racconto. Fine pista, così si chiamava e così lo trascrissi sul foglio bianco. Era un racconto orribile su una donna che lasciava oggetti in giro per il centro di Santiago. Un uomo la seguiva e metteva nello zaino tutto quello che lei dimenticava. Un orologio di fronte all’edificio dell’ex Congresso, un anello su una panchina di Plaza de Armas, un libro alla fermata degli autobus dell’Universidad de Chile, una musicassetta in un Caffè di Paseo Ahumada. Con tutti quei pezzi l’uomo costruiva un imbunche o un “cadavere squisito”, mentre la donna, senza rendersi conto di tutte le cose perse, si dileguava. Il finale, in realtà, non lo ricordo. Quello che invece ricordo con chiarezza è che, non appena terminai di scriverlo, mostrai il racconto a mia nonna, affinché vedesse quello che avevo realizzato con la sua eredità. Lei si mise gli occhiali e lesse con attenzione. Quando terminò mi disse che era molto bello, che si complimentava, e che era evidente che la macchina 40 aveva bisogno di manutenzione. Il nastro era molto consumato e le lettere saltavano eccessivamente in un vero e proprio balbettio che distraeva la lettura. Nessuno avrebbe potuto leggere quello che scrivevo se non l’avessi fatta sistemare con urgenza. Così la macchina scomparve per un paio di settimane. Fu ricoverata e operata con attenzione da uno specialista. Al suo ritorno era di nuovo pulita, con il dorso brillante, un nuovo nastro bicolore, i tasti trattati con il grasso, più morbidi e amichevoli al contatto con le dita, e una serie di lubrificanti che avrei dovuto applicare periodicamente per mantenerla operativa. Erano soprattutto oli per far muovere i tasti che altrimenti si sarebbero ossidati e avrebbero cominciato di nuovo a saltare. Non usai mai quegli oli. E nemmeno la coprii con il nuovo fodero per proteggerla dalla polvere. A mala pena la spolverai. La macchina da scrivere di mia nonna è sempre rimasta con il dorso scoperto, a disposizione, pronta per trascrivere, nonostante i suoi tasti un po’ rigidi. Adesso mi guarda dal mobile di fronte alla mia scrivania. Mi controlla come lo facevano gli occhi della cate dai pali della luce. Mi osserva in silenzio mentre scrivo di lei sullo schermo del mio computer.
Chilean electric, Nona Fernández, Edicola, traduzione a cura di Rocco D’Alessandro. Registro di installazione, Registro di consumo, Debito in sospeso e Avviso di sospensione del servizio. Nona Fernández è un’autrice che non ha bisogno di presentazioni, e la magnificenza della sua prosa, immaginifica, aspra, scabra, carnale, sensuale, misteriosa, difficile a penetrarsi eppure dal fascino suadente e lirico, si staglia splendente. Scrittrice, sceneggiatrice e attrice, la sua proprietà di linguaggio è tale da riuscire a rendere materico anche il sentimento. Attraverso quella che in apparenza può palesarsi a un occhio disattento, o meglio disabituato a una tale originale policromia, che fa dell’attrito e della frammentazione la strada per l’armonia, come una sorta di semplice giustapposizione di contrari, tra passato e presente, tra vero e finto, in realtà ricostruisce un percorso nel quale chiunque, quale che sia la propria esperienza di vita, può riconoscersi. Perché declina in tutte le sue sfumature quello che è un patrimonio che tutti amiamo. Ognuno di noi ha il suo. E ognuno di noi teme di perderlo. È la memoria. Che significa identità. Amore. Vita. È il milleottocentoottantatré quando a Santiago del Cile arriva per la prima volta la luce elettrica. Niente sarà più come prima. Ma dopo molti anni una nipote dovrà sottrarre non alla luce, ma all’ombra, il suo passato e quello dei suoi cari… Imprescindibile, sensazionale, sublime.
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