di Gabriele Ottaviani
Mia madre all’inizio aveva rifiutato, ma poi era rimasta incinta di un quinto bambino e mio padre aveva perso il lavoro. Avevano parlato una notte, chiusi nella loro camera, mentre dormivo ignara nella culla e anche i miei fratelli dormivano, nell’altra stanza. Avevano ceduto.
L’Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi. L’Abruzzo è – e soprattutto è stato – nell’immaginario collettivo e letterario tradizionale la terra verde dei pastori che lasciano gli stazzi e vanno verso il mare. Destino comune a molti luoghi che appaiano periferici rispetto alle realtà metropolitane, in genere più riconoscibili e facili a raccontarsi, patrimonio condiviso di una fetta più ampia della popolazione. Ma l’Abruzzo non è solo quello, ovviamente. E del resto ogni luogo è anche un posto dell’anima: per chi vi vive, per chi lo vagheggia, per chi ne parla per sentito dire e se ne fa un’idea, per chi lo racconta. L’Abruzzo che emerge, sfondo e insieme personaggio, da queste pagine è una terra ruvida e aspra, in cui quel mare di cui si parlava poc’anzi appare come un miraggio, un riflesso di luce lontano che progressivamente accende e illumina ogni cosa, addolcendo i contorni. È una terra da cui si parte, ma nella quale, com’è evidente, è possibile ritornare, specie per riscoprire una verità nascosta, taciuta, negata, dimenticata, scoperta e riscoperta, improvvisamente recuperata. La prosa di Donatella Di Pietrantonio non ha bisogno di presentazioni, e questa sua ultima opera non può che configurarsi come una conferma della straordinaria intensità delle sue capacità narrative, che hanno la medesima potenza di un fiore che, delicatamente ma inesorabilmente, buca l’asfalto in cui la sorte gli ha fatto mettere radici per nascere e fare esplodere tutta la sua salvifica bellezza: attraverso mille rivoli, scabra e abbagliante, la sua prosa asciutta e vibrante, nonché ricchissima di inventiva, anche dal punto di vista linguistico, attingendo al bacino di una dialettalità che introduce il lettore a un mondo altro, misterioso e ancestrale, innato ma celato, riesce, senza mai cedere alla faciloneria o all’abuso di retorica, a tratteggiare un affresco complesso e articolato, eppure mai ostico, di sentimenti autentici, nei quali il lettore si immedesima con immediatezza. Soprattutto per quanto concerne la dimensione di una tragicità di stampo classico e sempiterna attualità: i temi del ritorno (l’Arminuta è la ritornata: così chiamano gli altri la protagonista del romanzo), di una nuova agnizione e una più profonda consapevolezza, generata dall’interruzione, dallo strappo, dalla frammentarietà e dalla necessità di ricominciare, di riannodare i fili di un discorso bruscamente troncato, dall’elaborazione del dolore e dei sedimenti delle storie che influenzano i personaggi e rispecchiano l’insieme dei caratteri che compongono il profilo di ognuno, e che definiscono, in maniera di volta in volta uguale e allo stesso tempo diversa, quello che per ciascuno è la dimensione della casa, dell’appartenenza, si palesano con solennità dinnanzi allo sguardo esterno, subito coinvolto, posseduto e avvinto. Con toni palpitanti e calda espressività Donatella Di Pietrantonio racconta, meditando sul significato della maternità, della responsabilità, della cura, la storia di una ragazza che in un attimo ha perso tutto, e comincia una nuova vita bussando a una porta sconosciuta che la separa dal suo sangue, tra occhi rapaci e silenzi eloquenti. Da non perdere.
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