di Gabriele Ottaviani
Cosa l’ha spinta a scrivere il suo ultimo romanzo?
Cito dal romanzo stesso, o meglio dalla sua continuazione, perché c’è una seconda parte alla quale sto lavorando e credo che l’opera stessa contenga tutte le risposte:
C’erano ore che avrei voluto morire. Ore nelle quali si faceva largo nel mio essere la disincantata, asciutta sensazione di aver vissuto abbastanza, che la mia parabola potesse essere giunta alla conclusione, che la mia vita fosse, in fondo, con quella storia, arrivata ad esaurirsi. E forse sarebbe stato decoroso retrocedere, non continuare a trascinare un’esistenza ormai stanca e spossata, che poteva essere solo l’ombra di se stessa.
O anche: Crono, che non si arrestava mai e continuava a correre inesorabilmente, mi allontanava sempre più da quella meravigliosa avventura, irripetibile condensazione di vapori colorati prodotta per un istante dall’Universo nel suo infinito, smisurato vorticare. Mi dominava completamente l’assurda, disperata smania di fermarlo, di fermarlo ad ognuno dei momenti vissuti con lui, lasciando intatte le cose che ci avevano circondati, mute testimoni di quell’amore, come racchiudendole in uno scrigno di cristallo che potessi sollevare con le mie mani al di sopra del flusso della vita, per salvarle. Ma era impossibile, ed era disperante riconoscerlo. Questo romanzo, che ho scritto per un anno e mezzo e che ancora scrivo, si è assunto poi il compito di sostituire quello scrigno, ma non è riuscito a rimpiazzarlo completamente: a tratti ho sempre ancora quella folle coazione.
Oppure: Questo libro, questo libro lo scrivo perché il mio amore per te, Kasim, non cada nel silenzio e nell’oblìo…
Cosa rappresenta per lei l’amore? Nella nostra società c’è ancora spazio per la purezza dei sentimenti?
L’amore è l’impossibile che si avvera, l’amore è voluto dagli Dei, contro l’amore non c’è forza di stati e violenza di eserciti che possano, Cupido passa attraverso i muri e i buchi delle serrature. In un punto del racconto si legge: Oh, Eros, che parli attraverso gli occhi, oh, Eros, che porti grazia e dolcezza nell’anima di coloro che conquisti, oh, Eros, che incanti i cuori e nella tua irresistibile, bellissima follia travolgi gli animali sui monti e negli abissi del mare e i pastori bosniaci nei boschi, oh, Eros, tu sia benedetto!
Nell’attuale organizzazione della vita è evidente che non ci sia posto per la gioia, per il gioco, per la purezza né per la bellezza dei sentimenti. Negli individui invece qualcosa di sano, di gentile, si può ancora trovare, ma sempre meno. Con questo romanzo ho voluto una buona volta dire quello che ho sempre sentito e pensato sull’amore, contrapporre alla pornografia trionfante a livello planetario la verità e la bellezza perdute di questo potente sentimento naturale e umano. Fin dall’adolescenza non ho letto in proposito che turpitudini, mistificazioni e brutture di marca prevalentemente maschile e violenta.
Ancora nella seconda parte:
Gli uomini! Gli uomini rovinavano tutto! E Kasim non aveva fatto eccezione.
Con la loro proterva arroganza, col loro selvaggio dispotismo, estesosi come un morbo, come una malattia attraverso i secoli, ereditato come una tabe da ogni nuova generazione, si erano accaparrati anche l’amore, un campo che sfuggiva totalmente alla loro percezione; loro, così inetti, così insensibili, così ignoranti di naturalezza e sentimento, avevano stabilito una volta per tutte, con la loro maldestra rozzezza e meccanicità, le leggi dell’amore; avevano avuto l’imperdonabile presunzione di sapere cosa fosse e cosa non fosse e imposto alle succubi donne la propria snaturata visione, la propria contratta, violenta insensibilità, espropriandole del corpo vero e inventandogliene uno fittizio, carico di una menzognera, passiva sensualità da schiave, marchiandole con la maledizione, con la dannazione di incarnare il sesso, schiacciandole sotto questo peso abnorme e suggestionandole a rovesciare tale vergogna nel trionfo in quanto madre e puttana, un’identità che celebra i suoi fasti fino ai nostri giorni, un’identità dura a morire, dura a finire, che si rigenera continuamente, anche sotto la stella dello sfacelo di tutti i valori.
Quanto contano al giorno d’oggi le differenze sociali nelle relazioni interpersonali?
Come posso saperlo! In ultima analisi determinanti sono non le differenze sociali, ma quelle culturali. La cultura spiana i dislivelli e unisce sempre.
Quali sono gli aspetti che più ci condizionano nella ricerca dell’autodeterminazione?
La realtà tutta, soggettiva e oggettiva: le idee ricevute, le religioni, la società, il super-io, il conformismo, il consumismo, lo spirito di branco, la vigliaccheria, la paura, la necessità di procacciarsi il pane quotidiano e un tetto sulla testa dando via per questo tutto il proprio tempo e la propria anima…
I suoi personaggi a tratti sembrano temere di essere felici: cosa c’è di spaventoso nella gioia?
Niente di spaventoso, salvo la paura di perderla. È così dolce, così soave, le si vuole tanto bene! La si vuol tenere… Non credo che le cose stiano proprio come Lei le postula. E poi bisogna distinguere tra lui e lei: lui non teme la felicità, ma le conseguenze che la trasgressione può avere sull’organizzazione della sua vita e, da credente, teme anche la punizione divina, vedi la scena dei ricci: Mentre tornavamo indietro, a un certo punto, ad una svolta, passando sotto dei giganteschi ippocastani, un’improvvisa folata di vento scrollò le folte chiome, e fummo investiti da una grandinata di ricci. Separati all’istante, ci curvammo protestando vivacemente e ci mettemmo in salvo correndo via.
Lui aveva osservato:
“Dio ci vuole punire!”
Lei invece la felicità la ricerca, la desidera, la brama e la conquista attivamente, sfidando anche tutto il dolore che sempre la vita riserva e che è in fondo anche alle gioie più intense.
Che rapporto ha con la religione?
Di indifferenza. Di tolleranza e intolleranza, a seconda. Però in questa fase più di intolleranza, come per tutto ciò che è di moda e di cui si parla troppo, per riempire un vuoto di contenuti seri. Ma, a dirla francamente, considero la religiosità una forma di spiritualità immatura e non individualizzata, basata anzi sul sacrificio di se stessi e pertanto di ostacolo al raggiungimento della felicità. La felicità veramente piena e umana è frutto di cultura, e la cultura è un sapiente, luminoso azzardo che sa coniugare l’egoismo con l’universalità, dal suo punto di vista l’opposizione di questi due termini non esiste.
Quali sono, se ve ne sono, i modelli a cui lei si ispira quando scrive?
Il mio cuore. E questo specialmente nel caso di “Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé…”, un romanzo senza modelli.
Qual è per lei il fine della letteratura?
Qual è il fine dell’Universo?
Bellissima intervista. Risposte interessanti e originali: complimenti all’autrice
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