Intervista, Libri

Tersite Rossi e la scrittura come somma

melograno_1di Gabriele Ottaviani

Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Convenzionali li intervista per voi.

Perché formare un collettivo di scrittura? La scrittura non è per definizione individuale?

Sì, lo è: individuale per definizione. E anche la scrittura collettiva, se vogliamo, è una sommatoria di scritture individuali. Dove però 1+1 non fa 2, ma almeno 3: lo scritto individuale di ognuno, prima di cercare un pubblico, passa al vaglio di qualcun altro che condivide lo stesso progetto e lo stesso percorso narrativo, e in questo passaggio, peraltro multilaterale, si raffina, si scolpisce, migliora. Scriviamo in due perché a nessuno dei due, scrivendo da solo, il prodotto finale verrebbe altrettanto bene. E poi perché in due ci si diverte di più.

 

Cosa vuol dire scrivere?

Scrivere significa, innanzi tutto, dare sfogo all’ancestrale esigenza di raccontare qualcosa, con la sensazione che possa acquisire un senso per chi un giorno, magari per caso, si troverà a leggere. Scrivere in due come facciamo noi vuol dire, inoltre, condividere quell’esigenza e cercare una sintonia mitopoietica (se ci passi il termine ampolloso) affinché l’immaginario “mitico” di ciascuno diventi un Olimpo comune nel quale prendono vita i personaggi che si fanno portavoce della nostra necessità narrativa.

 

Esistono ancora storie da raccontare?

Non ne esisteranno più solo quando l’uomo si estinguerà. Oggi siamo 7 miliardi, sempre più interconnessi, immersi in flussi comuni di merci e notizie, dove la sostanza si mescola alla spazzatura, le voci interessanti al rumore di fondo. Siamo informati di tutto senza conoscere niente. Raccontare storie è un po’ come fare la cernita: eliminare la spazzatura e il rumore di fondo. Le storie da raccontare sono quel che resta.

 

Si scrive più per sé o per gli altri?

Non si scrive per sé senza avere un ipotetico “altro” che ti ascolta e legge. Quanto le dita battono sulla tastiera per dare vita a una storia, c’è sempre la presenza di “qualcuno” al tuo fianco che legge parola dopo parola e al quale tu vuoi e devi comunicare quello che hai dentro. Lo vuoi per dare soddisfazione al narcisismo che contraddistingue qualsiasi scrittore. Lo devi per non trasformare quel narcisismo in solipsismo e rimanere chiuso in un vicolo cieco, quasi paranoico, di botta e risposta tra sé e sé.

 

Qual è l’elemento chiave di un personaggio?

La capacità di combinare col giusto equilibrio realtà e finzione. Il personaggio meglio riuscito, per noi, è quello che non esiste, ma potrebbe esistere. Il banchiere che sfida il sistema, l’antropologa che scopre il segreto d’un’antichissima civiltà, il ragioniere di provincia che diventa bombarolo: non esistono, ma potrebbero. Reali in potenza. Questa è la loro forza. Se già esistessero, la narrazione perderebbe smalto. Se non potessero esistere, perderebbe interesse.

 

Qual è il legame fra forma e contenuto in un’opera letteraria?

Ovviamente, non esiste una Forma narrativa assoluta, ma ogni contenuto ha bisogno della sua forma che diventa essa stessa contenuto. Insomma, non distingueremmo i due aspetti, perché sono inevitabilmente intrecciati fino a scomparire l’uno nell’altro. Crediamo che il buon romanzo sia quello che riesca a evitare al lettore la spiacevole sensazione che contenuto e forma siano separati. Se non ci riesce, l’opera è venuta male e al lettore resta qualcosa di indigesto. Del resto, la vita stessa è un’inestricabile guazzabuglio di contenuti e forme che, a guardare bene, sono… la vita, punto e basta. Se iniziassimo a cercare col lanternino dove sono i contenuti e dove sta la forma, faremmo la tragica fine di Anny, il personaggio femminile de “La nausea” di Sartre: destinati a cercare il momento perfetto che valga la pena di vivere (che unisca forma e contenuto) per poi accorgersi che è solo un tentativo disperato, inumano, agonizzante.

 

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