di Gabriele Ottaviani
… e mio padre le chiedeva un bacio, è sempre stato così patetico mio padre, mio padre lì a chiederle un bacio, …
È obesa. Molto. A cavallo fra lo stato primario e quello secondario della sua condizione. È alcolizzata. Chi la vede la segna a dito. E se non la prende in giro è solo per superstizione. Fuma. Guida. Viaggia. Tanto. È una venditrice. La più brava che ci sia. Fa chilometri e chilometri. Ha la macchina piena. Di cerette. Per pelli scure. Per pelli chiare. Per pelli sensibili. Per chi ha le varici. Domani deve incontrare Denise. Che le fumerà in faccia, tratterà male davanti ai suoi occhi l’ennesimo ragazzo dell’est che la aiuta in negozio, contratterà sul prezzo. E poi andrà da Betty. Sempre gentile. Preparatissima. Con la sua villa dalla scritta dozzinale. Fa massaggi e cure estetiche. Domani sua figlia va via di casa. Ma no. Ha capito male. Le deve aver detto ci vediamo a casa. Le lascerà scritto di comprare il pane, su un foglietto adesivo. Al ristorante gliel’ha detto. Erano insieme ad Ângelo, e alle sue manie. Ossessivo e compulsivo, deve tenere tutto in ordine perfetto. E ha una casa piena di ninnoli. Lei invece la casa l’ha venduta. Sua figlia Dora l’ha scongiurata di non farlo, ma lei e Dora parlano di due case diverse. Per Dora era la casa degli amatissimi nonni, con l’altalena sull’albero, le rose nel giardino e l’immenso albero di fichi, per lei, che in quel giardino si può dire non ci abbia nemmeno mai messo piede – meglio, non glielo hanno mai fatto mettere – quella di un padre assente e taciturno che collezionava uccellini e poi li soffocava, e avvelenava col latte i gatti per paura che gli insidiassero le gabbie, quegli stessi gatti che invece di scappare da lui scappavano da lei. È la casa di una madre che non si capacitava di come potesse esserle venuta fuori una figlia così brutta. Una che voleva portarla ad abortire di nascosto. Che le diceva che già era oscena, figuriamoci incinta che vita avrebbe fatto. Ma poi nasce Dora, che adesso, a differenza sua, il massimo dei viaggi che fa è da una cassa all’altra, nel supermercato dove lavora, e loro diventano zucchero e miele. Con la nipote. Mica con la figlia. Che ha il nome di un fiore che è anche un colore. Ma non lo indovina mai nessuno. Quantomeno, nessuno degli sconosciuti e laidi camionisti che abborda nelle aree di servizio per farsi penetrare. Dicono tutti Rosa. Tranne uno. La sera del nubifragio. Quando poi finisce fuori strada. Resta appesa. A testa in giù. Il sangue le cola dalla bocca. Con le mani tocca il tettuccio dell’auto. La cintura la stringe. Penzola, ricorda, racconta. Senza un punto. Senza una maiuscola. Le voci degli altri si incuneano nel tessuto, e costruiscono un mosaico sensazionale. Tradotto da Daniele Petruccioli, è un libro semplicemente geniale, un gioco costante di corrispondenze arditissimo e magnifico, un flusso di coscienza dal quale è impossibile riemergere se non all’ultima pagina. Magnetico, capace di mescolare la trivialità più abietta alla lirica più elevata senza che si avverta il benché minimo stridore, ha perfetto anche il titolo. Le mie condoglianze, Voland. Di Dulce Maria Cardoso.