di Erminio Fischetti
Uscirà nelle sale italiane da giovedì 21 aprile 2016 la pellicola che ha riportato Will Smith al cinema cosiddetto d’impegno dai tempi mucciniani de La ricerca della felicità e del tremendo Sette anime. Forse con quest’ultimo era rimasto troppo scottato ed era, dopo una pausa di quattro anni, tornato a fare blockbuster. Con questo Zona d’ombra, in originale Concussion, su sceneggiatura e regia di Peter Landesman, autore che aveva esordito con l’infelice Parkland, Will Smith torna a rivestire in qualche modo la figura del self made man che combatte contro il colosso del football, l’NFL, e il suo sistema per aver diagnosticato e scoperto la CTE, l’encefalopatia traumatica cronica, riscontrata in persone che hanno praticato una attività agonistica violenta, i pugili ad esempio, ma soprattutto i giocatori di football, o anche i soldati mandati in zone di guerra che assistono a numerose esplosioni. Will Smith è il dottor Bennet Omalu, un patologo nigeriano trapiantato negli Stati Uniti che circa una quindicina di anni fa, a seguito di alcune autopsie fatte su giocatori di football professionistico morti prematuramente per demenza riscontrata in giovane età (pressappoco dopo i quarant’anni) ha analizzato e scoperto i motivi che causano questa patologia. La pellicola di Landesman si concentra in particolare su questo aspetto cronachistico divenendo un pamphlet cinematografico, che mette in scena le vicende in maniera semplice e lineare, salvo poi cadere come al solito nel meccanismo del cinema americano sull’American way of life, dalla forte connotazione retorica: l’uomo piccolo e solo contro il sistema al quale è comunque grato, la conseguente vittoria di Davide su Golia, l’America, terra di speranza e di realizzazione dei sogni, che ricorda certi film degli anni Cinquanta, fatti meglio però. Will Smith (candidato al Golden Globe a distanza di nove anni dall’ultima volta e nell’anno della polemica di #OscarsSoWhite, nata proprio dalla moglie di Smith, Jada Pinkett Smith, forse perché per questo film il marito non era entrato in cinquina – ma diciamolo pure obiettivamente, né il film né la sua prova sono così buone da potercelo portare…) fa il suo, il resto del cast (importante: Alec Baldwin, Albert Brooks, David Morse, Gugu Mbatha-Raw) tappezzeria e corredo. La regia discreta, la sceneggiatura così così, i dialoghi imbarazzanti, specie quelli affidati alla povera moglie (Mbatha-Raw), come al solito buona e paziente. Troppi stereotipi: dagli ottusi fan dello sport alle mogli dei giocatori, dai giocatori stessi, ai medici, ai rapporti umani, etc. Certo poteva essere molto meglio, ma – come accade in pellicole del genere – si lascia comunque guardare volentieri.