di Gabriele Ottaviani
Anche gli assassini il cui delitto mi appresto a raccontare tornano a cena dai genitori. Per non farli preoccupare. Nelle pause tra le sevizie che infliggono alle loro vittime, pranzano davanti alla tv. Almeno questo fa uno di loro. Non so più in quale romanzo russo (forse I signori Golovlëv?) si rispetta la regola per cui il samovar “era sempre in ebollizione” e quelli di casa “mettevano le ginocchia sotto il tavolo cinque volte al giorno” – o forse di più, vista la quantità di merende, early dinner, spuntini, piattini, tutto un rosicchiare cetrioli e spalmare burro. Inutile aggiungere che tale famiglia così unita e salda nelle usanze alimentari, si sfalderà – destino a quanto pare inevitabile delle famiglie nei romanzi. Il gruppo che entra in scena nel primo atto, si disgregherà prima che cali il sipario sul terzo atto, ecco la legge narrativa. Lo ripeto: ogni romanzo familiare è la storia di una nevrosi. Il disperato bisogno di senso, tipico del romanzo, trionfa nelle conclusioni che noi tiriamo sul nostro passato, fornendo un alibi fantastico per qualsiasi cosa sia accaduta ma anche per quelle che debbono ancora accadere; in fondo la letteratura è un’assicurazione sulla vita per abbandonare il tentativo di costruirsene una diversa, di costruire un altro me stesso migliore o più coraggioso, a che mi serve se c’è la letteratura a sostituirmi, i romanzi, ah, i romanzi, i sogni a occhi aperti, i mondi di “fantasia” (ma quanto inchiostro è stato versato per celebrare la “fantasia”, virtù pressoché inesistente presso qualsiasi persona di valore), e questo o quel personaggio sarà ben capace di sostituirmi d’ora in avanti, ma sì, mando avanti lui al posto mio, se la caverà, mentre io posso eclissarmi.
Sembra di leggere Tacito. Perché non c’è sillaba che sia meno che perfetta. La prosa è ampia, avvolgente, maestosa, sembra di navigare a bordo di una piroga in mezzo al Rio delle Amazzoni, e invece ci muoviamo fra Via Nomentana e Corso Trieste, a Roma, tra le mura del San Leone Magno, fra cortili signorili ornati di glicine, che già ad aprile sboccia a grappoli, profumando così tanto l’aria che quasi ne hai stordimento. C’è la vita, il sesso, l’amore, la religione, il bene, il male, il meraviglioso e l’orrendo, il maschile e il femminile, la violenza e la pietà, la domanda di un ragazzo, di un uomo, che mentre il tempo rotola interroga il mondo e sé: la verità, dunque, cos’è? Va detta? Va taciuta? Dov’è, davvero? Qual è, soprattutto? Cosa sappiamo di noi, degli altri, del resto? C’è tutto quello che si vorrebbe da un romanzo nell’ultimo di Edoardo Albinati (la cui scrittura è sempre magnifica, credibile, piena, ma qui si supera, diamine!), La scuola cattolica, edito da Rizzoli: sublime e senza difetti sin dalla copertina, dal titolo. Inizi a leggere e non puoi fermarti, non vuoi, e se anche volessi farlo, se anche qualche passaggio, per motivi che appaiono insondabili e impossibili, ma ognuno è fatto a suo modo, e l’incredibile esiste, dovesse disturbarti, sconvolgerti, stranirti, beh, non potresti comunque: perché non stai leggendo, stai vivendo, nel momento stesso in cui cominci sei preso per mano, con gentilezza, garbo, ironia, ma inesorabilmente. Stai interpretando il tuo film, e l’unica regola, per fortuna e/o purtroppo, è che è sempre buona la prima, l’unica e sola. Sei Dante dietro a Virgilio, cammini scalino dopo scalino, scendi, accendi la luce, e come le lampadine a luce calda, che faranno bene all’ambiente ma prima di rischiarare una stanza ci mettono il tempo che tu impieghi a fare lì dentro tutto quel che dovevi, e quindi non ti occorre più, alla fine, la luce, visto che oramai ti sei abituato a procedere a tentoni, come in mezzo al precariato della vita, così ogni passo è un dettaglio in più, una tenda scostata, un’immagine nuova. I ricordi si mescolano all’invenzione, Albinati cattura, riproduce, immortala il respiro del mondo. Non è un romanzo, suona molto più prossimo all’idea stessa di un miracolo, ma non quelli spiegati dai preti, che insegnano soprattutto nei primi anni alla scuola cattolica, laddove la coscienza si forma, quando è più malleabile, o forse quando servono tutto sommato competenze tecniche minori: qualcosa che non sai spiegare perché ancora non conosci la legge che c’è dietro, ma sai che esiste. Vorresti avere tanta memoria, per portarlo sempre dentro di te, imprimerti nel tuo cervello ogni fonema: un romanzo (ma è riduttivo chiamarlo così) imprescindibile.
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