di Gabriele Ottaviani
Il principe azzurro non è che l’aspetto che hanno i tuoi sogni e, se cambiano i sogni, cambiano anche i principi.
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Fanta ha 22 anni, 22 anni di inferno, eppure gli occhi grandissimi, che brillano su un volto rotondo, sono vivi, aperti sul mondo e grintosi. Abitava con sua madre, sua sorella, suo fratello e suo padre a Douala, una città nella parte occidentale del Cameroun. Poi suo padre è morto, non si sa come: ha cominciato a vomitare sangue, appena alzato dal letto, molto probabilmente è stato avvelenato, un veleno che agisce lentamente, distruggendoti pian piano, nel corso di alcuni giorni. La tradizione vuole che il corpo sia portato in casa dei genitori, dove per due settimane fanno i preparativi sia nelle città che nei villaggi. Tutti i parenti e gli amici lo devono vedere e, finita la sepoltura, i familiari offrono da mangiare a tutti. Si sparano tre colpi di pistola per avvertire la gente. Quando l’uomo muore, la famiglia si trasferisce nel suo villaggio, sono i parenti del padre ad avere il potere di decidere. Sempre secondo la tradizione, ogni padre sceglie uno dei figli che viene rinchiuso in una casa di paglia per dieci giorni. Fanta non sa cosa succeda lì dentro, nessuno lo sa, ma si sa che le persone che sono uscite da quella casa non avevano più voglia di fare niente, hanno perso completamente la testa. Sua madre non aveva idea che suo marito avesse scelto proprio lei, Fanta. Non voleva che sua figlia facesse quell’esperienza, lei che era andata a scuola e aveva un futuro davanti. Manda il figlio grande, suo fratello Alain, ad avvertirla, per dirle di scappare.
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Quando la notte arrivò inevitabile, Celeste cominciò a sentire strani scricchiolii nello stomaco. Come sarebbe andata? Avrebbero dormito insieme? Chi era quell’uomo che muoveva i suoi passi cadenzati e lenti tra lei e il mare? Non lo conosceva in fondo. Proprio a Barcellona, due anni prima, Celeste aveva avuto una breve avventura con un ballerino del Burkina Faso, Didier, che viveva in Spagna da molto tempo: un uomo gentile e intelligente, di una bellezza straordinaria, che, al secondo appuntamento, diceva di volerla sposare. Parlava il francese, il djulà, qualche parola di italiano e piuttosto bene lo spagnolo. Aveva saputo prenderla con quella semplicità selvaggia e istintiva a cui non era in grado di resistere. Era capace di “faire l’amour” molte volte una di seguito all’altra, quasi senza tregua, con una resistenza crescente in modo esponenziale, al punto che dopo un po’ Celeste, distrutta, doveva dire basta. Le piaceva, ma davvero, non ce la faceva più. Non ci avrebbe creduto, se le avessero detto che un uomo è capace di simili maratone, ma nessuno gliel’aveva raccontato, non era un luogo comune ostentato in qualche pettegolezzo da parrucchiera o da barino di periferia, aveva visto e sperimentato in prima persona. Per lo stesso principio di incredibilità, si era guardata bene dal raccontare la cosa a qualcuno. Tuttavia, verso la quinta o sesta volta della terza notte insieme, aveva smesso di tenere il conto, era successa una cosa che mai le era accaduta prima e che l’aveva messa nel panico: il preservativo si era rotto, anzi si era disintegrato e, tra le lenzuola sfatte, le coperte rivoltate, i vestiti rigirati sul pavimento, nella penombra della camera madida di sudore e umidità, nessuno dei due aveva idea di dove fosse finito il contenuto e di come o quando si fosse perduto. Non poteva prendersela con lui per aver comprato una merce scadente, perché era stata lei a comprare quella scatola, prima di partire. Come se fosse la cosa più naturale al mondo, lui le aveva chiesto di procurarsi dei condom di taglia XL. Perché non ci pensava lui? Non se l’era chiesto, aveva detto sì e s’era messa nei guai. Aveva pensato di acquistarli alle macchinette, in una farmacia sperduta di periferia o al supermercato, dove avrebbe potuto farli passare alla cassa elettronica, mescolandoli accuratamente a prodotti meno imbarazzanti, ma niente, di taglia XL non ne vendono. Allora si era fatta coraggio, era entrata in una farmacia, aveva chiesto una lista di medicine e cosmetici costosi, che non le servivano affatto e infine, prima di pagare alla cassa, quando era certa che la farmacia fosse deserta, aveva afferrato una scatola XL dicendo: “Ah, anche questo!”. La faccia sbalordita della signorina la faceva sentire una barzelletta, volle pensare che la stesse invidiando e non compatendo. Uscì a testa bassa.
L’Inghilterra delle nuvole di passaggio, Londra in cui ti sembra che abiti tutto il mondo, e che tutti fra di loro siano in pace, tra templi del jazz, ritrovi gay, moschee e caffè che sembrano zuppe di minestra. E poi Internet, i villaggi e i fuochi d’artificio, il Burkina Faso dove il sole sparisce a metà cielo, la Costa d’Avorio, in cui di stramaledettamente puntuale c’è solo la guerra, l’Ucraina nella quale Celeste dà per scontato che tutti mastichino un po’ d’inglese, sbagliando, Rio de Janeiro, la Malesia, l’Indonesia, Barcellona, l’Albania… Attinge per lo più alle sue esperienze, a racconti e ricordi, e a un prezioso materiale fotografico, scattato da lei stessa nel corso dei suoi lunghi, numerosi, intensi e bei viaggi, e che, non avendo colori in pellicola, li racchiude come in un abbraccio tutti, Alessandra Altamura, insegnante di lettere in una scuola media di Lucca, che dà voce a chi voce non ha con questo suo profondo, lieve, splendido, ironico, lirico, sapido, scorrevolissimo e pieno di chiavi di lettura Viaggio in bianco e nero, edito da Il foglio. Celeste ha la pelle bianca, ma l’anima africana: insegna danza e percussioni tipiche di quelle terre, nella multiculturale Firenze. Bamba ha la pelle nera, ma è cresciuto a Milano, dove fa il giornalista. Drissa è un bimbo che arriva profugo sulle coste italiane e, orfano, viene accolto in una comunità per minori. Viaggio per verità, conoscenza, ricerca, curiosità, necessità, amore, per l’umanità: e tre vite che si incontrano. Da leggere.
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